sabato 30 giugno 2012

Federico Aldrovandi


Quattro poliziotti hanno ammazzato un ragazzo di diciotto anni.
Potete fare tre processi, potete inventare tutte le cazzate e gli alibi che volete, potete assumere il super avvocato Niccolò Ghedini, potere sfruttare tutti i cavilli giuridici possibili, la realtà è una sola: quattro poliziotti hanno ammazzato un ragazzo di 18 anni.
Quattro contro uno, quattro persone che dovrebbero saper gestire un diciottenne, la professionalità, il mestiere, eccetera. Niente, l’hanno ammazzato.
Sapete quanto vale la vita di un diciottenne per lo Stato italiano? Tre anni e sei mesi.
Tre anni sono coperti da indulto.
Sei mesi di carcere fasulli perché non scontati e che mai sconteranno.
Il mantenimento del posto di lavoro.
Vergogna.
Poi uno dei quattro poliziotti voleva chiedere scusa. Scusa? Ma che crede questo di aver rubato le caramelle dal cassetto della mamma? Chiedere scusa per aver ammazzato un diciottenne?
Mettitele nel culo le scuse, tu e questa merda di Stato italiano che permette che questa infamia resti impunita.

venerdì 29 giugno 2012

Libri ed esistenza letteraria


“Se non ho i miei libri che faccio?”
Questa domanda ci porta a un modo di esistere che non si può ritenere attuale. Non si tratta di leggere come se questo fosse un mezzo per formarsi, detestabile uso del libro. Uso da salumieri.
No, è un modo di esistere. Si legge da mattina a sera, e spesso anche la notte, con poco riposo frammezzo. Tutto un altro mondo si affaccia così ed entra di prepotenza in quello quotidiano (un arcobaleno che rompe il grigio). I libri sono lì, piccole cose inerti che si animano solo se getti loro almeno uno sguardo.

Le occhiaie
Nasce, con la frequentazione assidua dei libri, un tipo di esistenza spesso ostacolata anzitutto dagli affettuosi parenti che temono il peggio. Ahahahahhaha ti ricordi? Le occhiaie facevano pensare al vizio della masturbazione, a seghe furtive e rapaci nel cesso di casa e invece si trattava solo di una notte passata in letture.

Nobile rivendicazione
Quel che fu un modo un modo di essere, oggi è solo un comportamento: si leggono libri, ecco tutto. Ma non sfiora neppure da lontano che si possa esistere così, leggendo soltanto. Non è però il rimpianto che inseguo. I teneri richiami di una nostalgia per un tempo reputato beato. Voglio solo insistere ancora e descrivere questa esistenza.

Esistenza letteraria
In essa si esiste, dunque, solo leggendo. Le sdolcinate assicurazioni che leggere educa, che forma individui seri, capi, ebbene tutto ciò non mi interessa. Io voglio porre attenzione a chi legge per se stesso. Anzi, dove c’è uno scopo, dove si mira a qualcosa, scompare quello che ho chiamato modo di esistere. Diventa quel leggere miserabile che si propone quotidianamente.

Che cosa è un libro?
Questa domanda cammina sulle sacre vie percorse un tempo da queste altre: che cosa è l’essere? che cosa è conoscere?... Sembra che nel libro si condensi il mondo che così si sfoglierebbe tra uno sbadiglio e l’altro. Si vuole confondere il libro con la terra, si vuole farne l’equivalente del cielo.

Tutto è libro?
Verità banale, ove fosse. Oppure solo lusinga. L’esistenza del mondo dipende dall’esistenza del libro? Vanità delle vanità. Colui che esiste per leggere non vi vede che fumo. No, il libro è il letamaio, il luogo che raccoglie i rifiuti di una civiltà. Una creatura ingannevole e odiosa.

Gran finale
Non vi fate ingannare dal miele che scorre dalla bocca di chi parla di libri. Chi esiste per leggere vi può dire ben altro. Ma pure così vale la pena di esistere, solo per leggere un libro, per vedere gli immensi orizzonti di una pagina. La terra, il cielo? No, solo un libro. Per esso, si può ben vivere.

giovedì 28 giugno 2012

Il Porto Sepolto

DESTINO
Mariano il 14 luglio 1916


Volti al travaglio
come una qualsiasi
fibra creata
perché ci lamentiamo noi?
Sulla guerra mondiale del '14-'18 ci sono un’infinità di monografie storiografiche, saggi, romanzi, film, documentari e tanto altro ancora.
La testimonianza, forse non più erudita, ma sicuramente più efficace è quella poetica e Ungaretti ne Il Porto Sepolto ce lo dimostra chiaramente.
In pochi versi c’è l’orrore, la paura, la pena e la speranza di sopravvivere di tutti i soldati che morirono e combatterono in una delle più grandi follie della storia umana.
Incomincio Il Porto Sepolto, dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noi. Nelle trincee, quasi sempre nelle stesse trincee, perché siamo rimasti sul San Michele anche nel periodo di riposo, per un anno si svolsero i combattimenti.
Il Porto Sepolto racchiude l’esperienza di quell’anno.
Quando viene mandato a combattere sul Carso, Ungaretti scopre la propria fragilità in quella dei compagni, affratellati a lui dalla stessa paura della morte. Le poesie del Porto Sepolto nascono da questa nuova consapevolezza, che comporta la volontà di scavare dentro l’uomo, dentro la sua pena e di esprimere tutto questo con parole, immagini, similitudini e analogie che non siano logorate dal peso della tradizione. Perché in un contesto di guerra non pare più possibile cantare alla maniera dei poeti dell’Ottocento e men che meno alla maniera di D’Annunzio.
Non si tratta di seguire o meno certi modelli: ogni retorica, anche quella dell’imitazione, viene spazzata via dalla realtà sconosciuta e terribile della vita – e della morte – in trincea. È lei a dettare le parole nude del Porto Sepolto, questo straordinario nucleo fondante dell’intera opera di Ungaretti, che dà subito l’impressione di un’autobiografia essenziale, scandita in trentatré poesie, ciascuna delle quali sotto il titolo ha una data e l’indicazione del luogo, quasi fossero pagine di un diario in versi.
Il Porto Sepolto è qualcosa di speciale e nuovo e rivoluzionario nel panorama letterario del primo Novecento: ogni poesia mette a fuoco folgorazioni improvvise (“Col mare / mi sono fatto / una bara / di freschezza”), analogie spiazzanti (“Balaustra di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia”), accostamenti imprevedibili di immagini (“Da questa terrazza di desolazione / in braccio mi sporgo / al buon tempo”).
Ungaretti compone i suoi versi di guerra dove capita: su brandelli di carta, “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, li mette alla rinfusa nel tascapane e li porta sempre con sé, in trincea, in mezzo al fango, lungo l’Isonzo.
Ma che cosa significa quel titolo, Il Porto Sepolto? Erano stati i fratelli Thuile, Jean e Henri, a parlargliene per primi:
Mi parlavano d’un porto, d’un porto sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima di Alessandro, che già prima di Alessandro era una città. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s’annienta d’attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d’ogni era d’Alessandria. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto: Il Porto Sepolto.
FASE D’ORIENTE
Versa il 27 aprile 1916


Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio

Ci vendemmia il sole

Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse

Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa

mercoledì 27 giugno 2012

parliamo di LESBICHE

(Anonimo napoletano, L'amore saffico ai tempi della tecnica)

Oggi fa caldo per pensare, troppo caldo. Preferisco dedicarmi a un argomento più ameno dando voce alla gente comune per quanto riguarda il fatto di essere o di scoprirsi lesbica.
I pareri degli esperti, degli studiosi, degli psicanalisti sono importanti e interessanti, ma quelli della gente comune non sono da meno. Hanno il pregio di essere spontanei e frutto di esperienze vissute in prima persona.
Lascio loro la parola e ringrazio la ragazza parafreudiana che mi ha regalato un'espressione come "urlo esclamativo". Sto ancora godendo da ieri sera.

Ragazze, ho un interrogativo. Da poco ho avuto un fantastico rapporto sessuale con la mia migliore amica e adesso stiamo insieme da un po' perché crediamo di avere scoperto di essere lesbiche. Quello che io mi chiedo è perché i ragazzi credono che essere omosessuali sia una vera e propria vergogna, mentre per noi ragazze è così comune provare a farlo con altre ragazze. Io sto cominciando a pensare che ci sia una lesbica in ogni ragazza e che ognuna di noi dovrebbe provare a fare sesso con un’altra ragazza. E voi cosa ne pensate?

Non bisogna vergognarsi di nulla ognuno è fantastico per quello che è!

Io vorrei tanto provare con una donna, gli uomini sono egoisti nel sesso e anche nella vita!

Io ho uno strano problema.. non sono lesbica solo l'idea di baciare una ragazza mi fa schifo.. però vedere video porno di lesbiche o anche una donna sexy nuda mi fa eccitare.. come mai?

Succedeva la stessa cosa anche a me, non voglio allarmarti ma poi ho scoperto di non aver alcun problema a baciare delle donne.

Mi sono sempre ritenuta una mangia uomini, maestra di seduzione, ne ho avuti tanti.. E poi durante un viaggio in Brasile ho conosciuto Gabriela, la luce dei miei occhi. Ci siamo baciate il giorno dopo il nostro primo incontro, siamo state insieme, e anche dopo due anni dal nostro primo bacio, anche dopo quasi 6 mesi che non la stringo tra le mie braccia, anche se sto con un ragazzo meraviglioso, non passa giorno che io non pensi alla mia piccola Bibi..
Ho scoperto piacevolmente di essere bisex e non me ne vergogno.

Io credo che siamo tutte un po' lesbiche si vede ogni giorno, anche con i rapporti sociali: le femmine sono molto più propense ad abbracciarsi, toccarsi e baciarsi dei maschi. Certo ci sono ragazze che lo trovano uno sbaglio o anche una cosa disgustosa ma se incontrassero una ragazza che corrisponde a ciò che più desiderano cambierebbero subito sponda. Io ho scoperto di essere lesbica anche se ho solo 12 anni non me ne vergogno proprio.

Noi ragazze siamo tutte un po’ lesbiche e si vede.

Io sto cercando di capirlo ora.. Da qualche tempo provo una forte attrazione ed un forte desiderio per un'amica, ma nemmeno io ho mai provato un approccio, so solo che in questo momento provo qualcosa di forte e non so come comportarmi.. non vorrei perderla.

Se ami molto questa tua amica,allora fatti avanti. Esprimile il tuo amore nel miglior modo che tu lo possa fare, ma prima di farlo pensaci bene e decidi le parole più giuste a descrivere il tuo amore per lei. Se sarai brava probabilmente ti accetterà e ti ricambierà e se non sarà così se è una brava amica e anche lei tiene alla vostra amicizia ti chiederà di far finta che non sia successo niente e a quel punto dovrai decidere tu cosa fare. Se continuare ad amarla intensamente rischiando di perderla o lasciar perdere e tenerti dentro quell'amore avendola sempre accanto e sapendo di non poterla toccare, abbracciare, baciare o amare. La decisione in fondo è solo tua. Provaci tentar non nuoce.

Io ho avuto un momento di confusione. Tempo fa (quello che chiamano scoppio di ormoni forse) una mia amica mi confessò che le piacevo e mi baciò. Morale della favola, ho appreso in pieno la mia eterosessualità il giorno dopo il bacio e mi schifai a pensare a fare sesso con una donna.

Non penso di essere lesbica, fare sesso e essere penetrata mi piace troppo. Però da tempo ho il desiderio fortissimo di stare con una ragazza e fare sesso lesbico. Non ho mai provato solo perché ho vergogna in caso di rifiuto a un eventuale approccio.

Se vuoi essere lesbica non devi chiedere alla società cosa ne pensa perché questa è la tua vita e di nessun altro!

Ciao, scusami, ma io non riesco proprio a capire come possa succedere di finire a letto con la migliore amica.. io ho una migliore amica e so quello che provo io per lei.. e non è solo amicizia però non posso sapere se lei ricambia.. e se non ricambia ci ho perso un amica e per di più ho fatto una figura di merda..

Essere lesbiche non è brutto ma il problema è dirlo ai genitori.

Direi che prima di tutto non c'è da vergognarsi.. i maschi sono diversi.. a loro dà fastidio.. per loro e una cosa ripugnante vedere due maschi che si baciano.. per me invece vedere due ragazze che si baciano è fantastico.. io vivo col mio ragazzo e non ho avuto mai rapporti sessuali con una donna a parte qualche bacio.. mi piacerebbe, ma non mi ritengo lesbica.. le donne e le ragazze giovani soprattutto hanno sempre avuto questo desiderio di sperimentare anche con le persone dello stesso sesso (mentre per i maschi è diverso).. ma non per questo si è lesbiche.. esserlo è tutta un'altra cosa.

Secondo me essere lesbica non significa "provare a farlo con una ragazza" significa innamorarsi e provare sentimenti, attrazione per una ragazza. Non è un gioco da provare, è semplicemente una condizione.. un modo di essere come un altro. Non ci deve essere vergogna, solo perché molta gente pensa che sia una cosa riprovevole o "schifosa".
Io consiglio a tutte di vivere la propria condizione di omosessualità nel modo più naturale e spontaneo possibile, senza paure, in tranquillità e vedrete che molta gente si ricrederà su di voi e impareranno a capirci di più, senza giudicare a priori la cosa.
In fondo... solo gli idioti non cambiano idea..
Inoltre penso che non ci sia un'età precisa per scoprire di sentirsi "omosessuali" anche 14 anni può essere l'inizio di questa scoperta interiore.. la maturità mentale non va di pari passo con quella biologica.. quindi è utile farsi domande, ma non reprimersi.. porta solo a soffrire.. sentitevi libere.

Il tuo più che un interrogativo sembra un urlo esclamativo che si propaga imponendo la propria convinzione in domanda.. tu chiedi un parere dandoti la risposta.. io penso che l'uomo in quanto razza è governato dai sensi e vulnerabile a gran parte delle cose. Il nostro Es dominato dagli istinti e diciamo "tenuto a bada" dal conscio, è una zona ricca di perversione e pulsioni quindi si presume che al proprio interno ci siano anche spinte verso un altro genere di sessualità. Senza alcun dubbio dentro ogni donna, ma io direi dentro ogni essere vivente, c'è il verso contrario verso quella che è la nostra spinta sessuale impostaci dalla natura. Chi ci può dire cos'è meglio o normale: uomo e donna? donna e donna? Non esistono standard; è probabile che tu abbia ragione.

E' un discorso complicato.. a dire il vero è considerata una vergogna anche da molte ragazze.. io personalmente sono lesbica e da quando l'ho capito la vivo abbastanza serenamente.. ma non sono mai la prima a provarci con una ragazza, non so perché, ma non credo sia per la paura del rifiuto. Comunque questo vuol dire che in fondo in fondo non mi accetto ancora completamente.

Secondo me non bisogna nascondersi dietro delle maschere se si hanno gusti nei confronti del proprio stesso sesso (parlo sia femminile che maschile), bisogna ammetterlo e basta, mica c'è nulla di male.. anche secondo me in ognuna di noi ragazze c'è un lato bisex.. dico così perché anche io penso seriamente di esserlo.

Quanto dici è vero parzialmente. Succede forse perché i ragazzi gay assumono atteggiamenti femminei, che spesso li rendono ridicoli. Sono rimasta meravigliata quando un bel ragazzo, che mi piaceva mi ha detto di essere gay. Non volevo credergli, poi ho saputo che era vero.

Penso che in ognuna di noi ci sia un lato omosessuale e c’è chi lo tira avanti e chi no.. e poi che c’è di male almeno per una volta farlo con altra donna ? Se poi ci piace si rifarà.

martedì 26 giugno 2012

Gramsci e il capitalismo



L’occasione esterna dello scritto gramsciano Capitalismo fuori controllo del 1918, fu il cosiddetto “scandalo dei cascami”. Con scandalo dei cascami ci si riferisce al contrabbando dei residui (“i cascami”) di seta e cotone utilizzati nella fabbricazione dei sacchetti per la polvere da sparo. Da una denuncia di un deputato repubblicano nel 1918 si sviluppò un’inchiesta in cui furono coinvolti diversi grandi industriali italiani.

Gramsci prende le distanze da una certa idea di contestazione al capitalismo che altri vorrebbero affibbiare ai socialisti, e cioè: “Il capitalismo sfrutta e specula – deve speculare e sfruttare, pena la sua rovina – sempre, in tempo di guerra e in tempo di pace. Il capitalismo cerca sbocchi alle sue merci e guadagni ai suoi azionisti, come può e dove può. È la sua natura, la sua missione, il suo destino. Gli italiani vendono ai tedeschi, gli austriaci avranno venduto ai francesi, gli inglesi avranno venduto ai turchi. Il capitalismo è internazionale e l’Italia non è peggiore degli altri Stati”. Gramsci mette le cose in chiaro, si dichiara assolutamente estraneo a questo pensiero in cui “le responsabilità vengono talmente estese e diluite, che invero nessuno sarebbe più responsabile; gli arrestati dovrebbero essere immediatamente rilasciati, e dovrebbe essere arrestato il signor Capitalismo, vagabondo senza fissa dimora, trovandosi egli contemporaneamente un po’ in tutti i paesi del mondo”.

Nella seconda parte dello scritto, il filosofo di Ales descrive il pensiero socialista nei confronti del capitalismo: “I socialisti nel fare la storia, o la cronaca (sia pure dei tribunali), rifuggono dalle astrazioni e dagli indistinti generici. Essi sostengono sì che esiste nella società capitalistica una tendenza generale al mal fare, ma non perciò confondono le responsabilità sociali con quelle individuali. La produzione borghese può diventare speculazione, truffa, illusionismo, ma la sua missione, il suo destino non è di truffare: è di accrescere la ricchezza, di dare incremento alla somma dei beni sociali. Noi non abbiamo la visione teologica della società, in cui all’Iddio onnipotente, onnipresente e onnisciente dei cattolici si sostituisce una divinità astratta equivalente.
Per essa diventa inutile la ricerca, è inutile lo studio dei fatti e della storia, è inutile la disamina dei costumi: tutto è uguale dappertutto, perché dappertutto c’è il capitalismo e non si muove foglia che il capitalismo non voglia. Questo astrattismo fatalista non è non può essere affatto il nostro punto di vista, perché è fuori della realtà effettiva. Nella realtà effettiva il Capitalismo è lo Stato borghese, che si concreta nelle leggi, nell’amministrazione burocratica, nei poteri esecutivi. E questi, a loro volta, si concretano in singoli individui che vivono, vestono panni, possono essere mascalzoni o galantuomini. Anche le leggi, il Codice penale, sono attività capitalistica, ed essi puniscono i contrabbandieri dei cascami, ciò che significa costoro essere non capitalisti puri e semplici, ma capitalisti, uomini che hanno operato perversamente.
E il nostro punto di vista è questo: nell’organizzazione borghese della società italiana ci sono degli istituti di controllo che non funzionano, danneggiando così la produzione capitalistica genuina, poiché hanno lasciato che dei perversi, dei criminali continuassero nella loro attività più di quanto è presumibile un’azione losca possa rimanere ignorata. Ciò significa che l’organizzazione borghese italiana è cattiva anche capitalisticamente.
Il proletariato [sigh] ha il compito specifico di premere continuamente sull’ordinamento attuale perché esso si rinnovi e diventi sempre più favorevole alla produzione, all’incremento della ricchezza: deve premere perché della borghesia si affermino solo quei ceti e quegli individui che, con la loro attività capitalisticamente onesta, rendano le condizioni meccaniche e naturali della vita sociale più adatte a un trapasso di classe al potere. Perciò i socialisti vogliono che gli istituti di controllo statale siano competenti ed esercitino effettivamente il loro ufficio. Solo i socialisti possono volere ciò, perché disinteressati, perché fuori della geèna degli affari. Ed essi non si possono accontentare delle astrattezze, delle responsabilità generiche. Nel fatto esiste la burocrazia che doveva controllare l’attività commerciale degli industriali dei cascami, e il potere esecutivo che doveva provvedere a impedire la speculazione. Cosa ha fatto la burocrazia? Ha compiuto il suo dovere? E, caso mai, perché non l’ha compiuto? La ricerca deve essere fatta, le responsabilità devono venire assodate. Gli incapaci, i malversatori devono venire eliminati. È una prova del fuoco per il regime: perché solo dimostrando di essere sempre capace di adempiere al suo compito sociale, esso si regge. Ma se nessuno lo obbliga a continuamente superare la prova, esso si perpetuerà tra l’indifferenza di tutti, che si sollazzeranno a parlare di Capitalismo senza la volontà del quale non si muove foglia.

non so voi, ma leggendo Gramsci sento ogni volta come se diventassi un po' più intelligente

lunedì 25 giugno 2012

mistero Enel


(mettete a palla Always On My Mind di Elvis Presley prima di leggere il post!)


Ho allentato i muscoli fino a non sentirli
Ho costruito il telaio della bicicletta con le mie mani
Ho trovato la forza per superare i miei punti deboli
Ho rubato i segreti dei campioni
Ho sudato sotto le luci della strada
Ho provato il sapore della terra
E il gusto amaro del dolore
Ho mostrato i miei trofei
Ho visto più albe che tramonti
Ho trovato la forza in chi sapeva darmela
Ho ripetuto per anni gli stessi gesti
Ho rinunciato alle estati vista mare pensione completa
Ho mostrato la parte migliore di me
Ho cercato le parole quando non ne avevo
Ho avuto sonno a ogni ora del giorno
E voglia di frullato a ogni ora della notte
Ho cercato il suo nome nei nomi delle strade
Ho convissuto con la nausea
Ho sentito il mio cuore battere con il suo
Ho visto il mio corpo cambiare
Ho riempito il suo mondo di colore
Ho contato le ore e i minuti
Ho avuto paura di non essere pronta
Ho trattenuto nel mio anche il suo respiro
Ho messo tutta la forza che avevo

E tutto questo casino per pagare una merdosa bolletta della luce???

domenica 24 giugno 2012

Filosofia, tre istruzioni per il disuso



È domenica, stasera c’è la partita, impegni mondani pretendono la mia presenza. Io la presenza assoluta non posso darla, garantirla a nessuno. Mai.
Ed è una cosa che specialmente le donne non sopportano.
Quello che posso dare è una presenza/assenza. Il mio corpo è lì, la mia parte senziente è con voi, partecipa, vi ama sinceramente senza che voi possiate lontanamente immaginarlo – ma il mio cervello è da tutt’altra parte. Non me lo impongo, per carità, ma è la mia essenza a volerlo, il mio destino di chierico. (ma cos’è un chierico? ne riparleremo)
Volete sapere dove sarà il mio pensiero (anche se al posto di pensiero dovrei scrivere “attenzione”)? Su cosa si arrovellerà la mia mente mentre l’Italia sfiderà l’Inghilterra e gli amici tiferanno mangeranno berranno e fumeranno?
Ebbene, io penserò a tre aforismi di Sgalambro di cui vi faccio partecipi.
Il primo aforisma segna la differenza tra la filosofia didattica e la filosofia da ridere e scopriamo (a differenza di quanto comunemente si crede) che sono quelle “da ridere” che s’insegnano; il secondo determina ciò che non è la filosofia che viene sempre strattonata da scocciatori ignoranti e inopportuni e il terzo fa chiarezza intorno alle categorie di “filosofia maggiore” e di “filosofia minore” e così vi dico pure una volta per tutte perché la mia preferenza, il mio amore vada alle filosofie minori.
Filosofie didattiche. Si possono distinguere filosofie come divertimento e filosofie didattiche (a queste va il nostro cuore). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono le prime che si insegnano. Mentre le seconde servono da passatempo. Così, ad esempio, mentre Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer serve a divertire, Verità e metodo di Gadamer si insegna e fa invece morire dal ridere. Ma qual è la caratteristica della filosofia che abbiamo chiamato didattica? Esattamente questa: essa non può che insegnare. Una forza irresistibile la trascina che non c’è verso, essa deve per forza farlo. Non deve né convincere, né farci pensare, in breve null’altro può fare – sempre per l’impeto che è in essa – se non insegnare. Ma cosa significa insegnare se non tutte queste cose o altre del genere? Si escluda, per intanto, che per insegnare essa abbia bisogno di un luogo da cui venire impartita, per cui la qualità didattica sarebbe più del luogo che di quella filosofia. Dicendo qualità didattica si vuole indicare invece qualcosa che questa filosofia ha in sé, non che derivi dal luogo. Una filosofia è didattica, dunque, in virtù di se stessa, solo di se stessa. Nemmeno, d’altra parte, dell’individuo che “l’insegna”. È come se essa parlasse in lui, e lui avesse le labbra chiuse. Anzi, e ciò valga da definizione, essa è didattica perché non ha bisogno di nessuno che la insegni. Quasi quasi si potrebbe pensare che essa sia talmente ingenua da ritenere che sia tale in virtù della sua verità. Ebbene sì. Essa è talmente astuta da ritenerlo.
La filosofia e i suoi partner. Si insiste nel chiedere alla filosofia quello che essa non può dare. Ha forse la filosofia da raddrizzare torti? Rendere servizi all’umanità? Fare camminare gli storpi, fare vedere i ciechi? Eppure anche alla filosofia, la cosa più lontana da tutte queste mene, si richiedono favori siffatti. Nella selezione storica, in cui le filosofie lottano, senza riguardi, per la loro esistenza, sono quelle che suffragano e “soddisfano” i più svariati bisogni che l’hanno vinta. Persino i filosofi galanti e un po’ larmoyants, purché sussurrino al partner preferito dolci paroline, fanno bella figura e volteggiano nell’aria con grazia e mille mossettine, fin quando la realtà non se li scrolla di dosso con fastidio. In un canto, appartata, sta un’altra filosofia, a cui l’uomo non interessa molto ma più volentieri vecchi mobili, rumori di passi, pistole…
Filosofie minori. Ogni filosofia minore è una sorta di filosofia du mal. Minore essa lo è non davanti ad altre che sarebbero grandi, ma davanti al fatto che queste sostengono il mondo mentre quella lo manda al diavolo.

sabato 23 giugno 2012

Il buffo discorso di Gonzalo



Leggendo oggi La Tempesta di Shakespeare, all’inizio del secondo atto ho trovato Alonso, re di Napoli, suo fratello Sebastian e altri nobiluomini, naufraghi su un’isola apparentemente deserta. Della combriccola fa parte Gonzalo, un "vecchio e onorato consigliere".
Gonzalo dapprima cerca di consolare il re per la perdita del figlio che pare morto nel naufragio della nave poi, visto che le sue parole non hanno effetto e viene perculato da Sebastian e Antonio, desiste.
Non riesce a star zitto, però, e allora davanti allo spettacolo di una natura incontaminata si lascia andare a questo discorso continuamente interrotto dai due di prima che continuano a prenderlo per il culo e dal re che più volte gli dice che le sue parole non hanno per lui alcun interesse.
Nella comunità stabilirei che ogni cosa si dovesse regolare all’opposto di quel che si fa per solito. E difatti non ammetterei alcuna sorta di traffico. Né i magistrati avrebbero autorità alcuna.
La cultura dovrebb’essere affatto sconosciuta.
Le ricchezze, la povertà, gli impieghi servili non dovrebbero esistere. Né contratti, né diritti di successione, né confini, né divisioni di terre, né coltivazioni, né vigne: nulla di tutto questo. Non si dovrebbe conoscere alcun uso del metallo, né del grano, né del vino, né dell’olio.
E nessuna sorta di occupazione. Tutti in ozio. Tutti, nessuno escluso. Ed anche le donne, ma innocenti e pure. Nessuna sovranità…
La natura dovrebbe produrre ogni cosa per tutti e senza sudore e senza sforzo. Il tradimento, la fellonia, la spada, la picca, il coltello, il fucile non servirebbero a nulla, e nemmeno servirebbe qualsiasi altra macchina da guerra. Soltanto la natura dovrebbe produrre da sé ogni sorta di abbondanza e di prosperità al fine di nutrire il mio popolo innocente.
Dopo averlo letto, possiamo capire il fastidio del re e ci uniamo ai due nobili sghignazzanti che sfottono quell’ingenuo di Gonzalo. È un discorso da stupido idealista, di un sognatore, di un pazzo, di un disadattato, è irrealizzabile, è una chimera, ecc.
Reazioni sacrosante, non dico di no, però… però la critica totale di Gonzalo rimane, quasi come se fosse un atto di accusa indelebile. Sembra che l’uomo sia stato felice solo nell’Età dell’Oro cioè quando in realtà non era uomo e non c’era la società, ma solo natura sesso e cacate nei cespugli.
Poi, con l’evoluzione, sono arrivati tutti i casini, i fastidi, gli orrori e le miserie e ormai indietro non si può tornare.
La cosa buffa è che si crede nel futuro, nel progresso e tutte ‘ste menate dell’età contemporanea.
La realtà è che la società diventerà ancora più stupida e oppressiva, i meccanismi coercitivi di sfruttamento sempre più efficienti e l’uomo sempre più pezzo di merda.

La sigaretta è finita, andate in pace.

venerdì 22 giugno 2012

Carmelo Bene sull'Ulisse di Joyce


Sacco di gas cadaverici mezzo di marcia salmastra. Un brulichio di pesciolini, grassi del bocconcino spugnoso, sprizza fuori delle fessure della patta abbottonata. Dio diventa uomo diventa pesce diventa oca bernacla diventa montagna del letto di piuma. Aliti morti io vivente respiro, calco morta polvere, divoro i rifiuti urinosi di tutti i morti. Issato rigido sopra lo scalmiere rifiata all’insù il tanfo della sua tomba verde con le nari lebbrose che russano al sole.
Trasformazione marina, questa, occhi castani azzurrosalino. Morte marina, la più mite di tutte le morti note all’uomo. Il vecchio padre Oceano. Prix de Paris: guardarsi dalle imitazioni. Provare per credere. Ci siamo divertiti immensamente.
È abbastanza perverso scegliere un libro, non si può scegliere un libro.
Ecco, se proprio bisogna farlo, allora si sceglie un libro che abbia non solo determinato, ma cambiato magari una vita. Ebbene l’Ulisse di Joyce, avevo allora 22 anni, cambiò la mia vita completamente, radicalmente – da così a così. Poi nessun altro libro mi ha modificato la vita. Sì, tutti, in un certo senso… Kafka, chi non modifica Kafka? D’accordissimo, ma a me avvenne con l’Ulisse di Joyce.
Joyce può cambiare una vita. A me cambiò una vita, ma ha cambiato la mia vita in teatro, ha cambiato la mia vita nella vita, ha cambiato le mie emozioni musicali (non musicistiche, ma musicali), ha cambiato tutti i miei concetti di timbrica, di ritmica, mi ha sconvolto il linguaggio – completamente, mi ha cambiato il cervello. Non mi par cosa da poco; credo che pochi autori possano far questo.
In Joyce, per la prima volta, ci troviamo davanti a un pensiero dell’immediato, all’immediato pensiero; tanto che non pare scritto, pare sottratto alla scrittura stessa. Cioè non dice: “Tizio si svegliò una mattina e si trovò mutato in coleottero”; be’, lì c’è un altro gioco va bene, c’è un pensiero; ma, nell’Ulisse, quanto viene pensato è reso attraverso l’immediato e questo non lo ha nessun altro autore al mondo.
L’Ulisse di Joyce si può proporre anche come il modo più straordinario, l’esempio più fulgido di cinema; ma quello sulla pagina, non il filmaccio che ne hanno ricavato. Non esiste un film, un criterio del montaggio di questa immediatezza. Il cinema passa sempre attraverso il “morto”, così come il dire passa sempre attraverso il “detto”, cioè il detto è il morto.
Nell’Ulisse di Joyce non ci sono mai “pensieri”, “Pensò che…” No! tutti questi pensieri sono catapultati in balia di chissà quante combine di significanti.
Quando parlo di Joyce che cambiò la mia vita, alludo soltanto al Joyce del Finnegan’s Wake e dell’Ulisse e a certe poesie giovanili, ma non certo al Dedalus oppure ai Dublinesi, perché questi ultimi titoli potrebbe averli scritti qualsiasi altro autore e lo stesso Joyce non mi avrebbe così modificato.

L’applicazione dell’Ulisse si può fare a teatro, investe il linguaggio. È un linguaggio senza pensiero, senza pensiero pensato, in quanto questo pensiero è immediato.
Il grande Joyce critico si annuncia già nella fase giovanile, nelle poesie non solo d’occasione, ma anche in quelle giovanili. Quando uno pensa ad Eliot e legge
Rouen is the rainiest place, getting
Inside all impermeables, wetting
Damp marrow in drenched bones.
Midwinter soused us coming over Le Mans
Our inn at Niort was the Grape of Burgundy

But the winepress of the Lord thundered over that grape of Burgundy
And we left it in a hurgundy.
(Hurry up, Joyce, it's time!)

I heard mosquitoes swarm in old Bordeaux
So many!
I had not thought the earth contained so many
(Hurry up, Joyce, it's time)

Mr Anthologos, the local gardener,
Greycapped, with politness full of cunning
Has made wine these fifty years
And told me in his southern French
La petit vin is the surest drink to buy
For if 'tis bad
Vous ne l'avez pas paye
(Hurry up, hurry up, now, now, now!)

But we shall have great times,
When we return to Clinic, that waste land
O Esculapios!
(Shan't we? Shan't we? Shan't we?)
Ecco, un saggio su Eliot, mastodontico, che nessun critico può fare, nemmeno Pound e sto parlando di Pound, quindi... C’è questa elettricità in Joyce sulla lingua e c’è questo linguaggio che si arrende ai significanti, si rende, ne crea quasi degli incroci continui dai quali non si esce e i personaggi non esistono.
Per quanto riguarda l’Ulisse non si può parlare di monologo interiore. L’Ulisse non ha precedenti, purtroppo forse ha qualche seguace, qualche epigono. Non si può pensare, per esempio, a Pizzuto, a certe cose… è evidente che è un lettore di Joyce. Non si può pensare a Gadda, se vogliamo, ma quello che in Gadda resta grande ingegneria, grande meccanica, alla quale io preferisco l’Alberto Pisani di Dossi perché almeno è così giovane… ed è altra cosa. Riuscire ad arrivare a un’immediatezza simile, penso appartenga solo a Finnegan’s Wake e all’Ulisse. Fondamentalmente all’Ulisse.
Non è un modo di raccontare perché non c’è racconto, Joyce non racconta - riesce a raccontare non raccontando, è questo passaggio del pensiero che non è obbligato dal concetto a essere mediato, a trovare una mediazione, a trovare una ruffiana che poi lo stiri sulla carta. Quello che anche nei grandissimi scrittori mi lascia perplesso; questa sicurezza di aver detto davvero il pensiero e qui il pensiero è completamente preso in giro e c’è questa immediatezza, ripeto, unica.
Penso sia IL libro della storia umana.
Il pregio dell’Ulisse è al di là delle intenzioni di Joyce di riproporre una moderna Odissea, perché anche in Dedalus allora avrebbe potuto… eppure non c’è la stessa operazione. Il ritratto dell’artista da giovane è un’operazione che avrebbe sepolto Joyce tra i tanti, nella miriade, degli artisti della penna, chissà chi se ne ricorderebbe.
In effetti poi l’Ulisse di Joyce è rimasto un libro eternamente chiuso, che sarà eternamente chiuso. In tutte le case, le case “mondane”, ho visto sempre molto intonso l’Ulisse, lì in un angolino… bisognava averlo, magari non si aveva altro ma l’Ulisse doveva essere sul tavolo, poteva entrare qualcuno da un momento all’altro, guai senza l’Ulisse… rappresentava un po’ il decoro, il décor del decoro degli anni ’60 possedere l’Ulisse.

Io mi auguravo nella mia illusione, nel mio candore giovanissimo d’allora, che dopo l’Ulisse… bè nessuno più scriverà un libro, finalmente nessuno scriverà un libro, finalmente si ripubblicheranno i classici, come si deve, finalmente la gente qui in Italia rileggerà i classici… e invece no, c’è stata proprio un’inflazione editoriale, si continua a scrivere sonnecchiando, dimenticando, cercando di rimuovere l’Ulisse di Joyce e secondo me non si può rimuovere l’Ulisse di Joyce, ma chissà per quanti secoli… forse millenni.
Il dramma Esuli, che Joyce pubblicò nel 1917, non l’ho letto – non leggo nulla che sia scritto per il teatro. Sono riuscito a leggere Platone, ma proprio cercando negli anni scorsi di depennare la forma dialogata. Io detesto il teatro.
L’Ulisse è soprattutto grandissimo cinema e tutto quello che il cinema dai fratelli Lumiere in poi non è mai riuscito a fare, l’ha fatto Joyce nell’Ulisse. Queste sono le immagini, immagini di prima, si direbbe, ecco… mentre il cinema non fa altro che riferire l’immagine morta – del set. Dov’è il set in una pagina dell’Ulisse?
Di solito lo scrittore dice, anche stendhaliano, “e allora pensò che”; Joyce non scrive “pensò alla trasformazione marina”, Joyce attacca: “trasformazione marina”. Banalizza ancora di più: “occhi castani azzurosalino”, “morte marina, la più mite di tutte le morti note all’uomo” imbecillità clamorosa… è quasi un fumetto del pensiero. Riuscire a rendere tutta questa banalità attraverso un’altra scrittura; cosa che Zola, grande scrittore, sognerebbe; che Stendhal, sommo scrittore, sognerebbe, ma sono scrittori… credono davvero di aver espresso il pensiero del di dentro e che questo coincida, lo ripeto, col pensiero del di fuori, solamente a James Joyce è stato dato… sono disgrazie, oppure sono fortune, venture… Solo a Joyce è stata data questa chance. Bisogna essere visitati, è inutile cercare le cose… gli è stato dato il dono dell’immediato.
La banalità dei cosiddetti personaggi la si intravede, e qui è il grande magistero di Joyce. Perché la intrasenti, senti gli odori, senti tutto, senti il lezzo, oppure “i profumi a Gibilterra quella notte dove perdemmo il battello ad Algeciras, dove lui mi disse che ero un fiore di montagna, sì, siamo tutti fiori”, si sente che sta pensando una donnetta dal cervellino così che è Molly Bloom.
Si sente tutto questo, ma non c’è.

[per concludere, posto questo pensiero di Carmelo che mi piace troppo, pronunciato con una faccia da schiaffi che fa innamorare]

Io non ho mai scritto per scrivere, da scrittore, ma per mia terapia. Così come ho sempre praticato anche il teatro, mai frequentando un copione cosiddetto, mai frequentando un dramma, una drammaturgia. Shakespeare è un poeta, Marlowe è un poeta, Corneille, Racine sono dei poeti, quindi se ne prende atto in quanto tali non in quanto “autori di teatro”. La cosa sarebbe repellente per quanto mi riguarda data la mia allergia al teatro.

giovedì 21 giugno 2012

Inquisizione


godiamoci Voltaire, cazzo...

L’inquisizione è, com’è noto, un’invenzione mirabile e assolutamente cristiana per rendere il papa e i frati più potenti e per rendere ipocrita tutto un regno.
San Domenico è considerato di solito il primo a cui si deve il merito di questa santa istituzione. In verità possediamo ancora una lettera di questo grande santo, nella quale si leggono queste precise parole: “Io, frate Domenico, riconcilio alla Chiesa il nominato Ruggero, latore della presente, a condizione che si faccia fustigare da un prete per tre domeniche consecutive dalla porta della città sino a quella della Chiesa, che mangi di magro per tutta la vita, che digiuni per tre quaresime l’anno, che non beva mai vino, che porti il sambenito [lo scapolare dei penitenti] con delle croci, che reciti il breviario tutti i giorni, che dica dieci pater nel corso della giornata e venti all’ora di mezzanotte; che pratichi d’ora in poi la continenza e che si presenti tutti i mesi al curato della sua parrocchia ecc., tutto ciò sotto pena di essere trattato da eretico, spergiuro e impenitente”.


Goya, sambenitos

Benché Domenico sia il vero fondatore dell’inquisizione, Luis de Pàramo, uno fra i più rispettabili scrittori e dei luminari più brillanti del Sant’Uffizio, riferisce, al titolo secondo del De origine et progressu Sanctae Inquisitionis, che il primo fondatore del Sant’Uffizio fu Dio e che Egli esercitò il potere dei frati predicatori contro Adamo. Prima di tutto, Adamo viene citato dinanzi al tribunale: “Adam, ubi es?” [Adamo, dove sei?] e in effetti, aggiunge Pàramo, la mancanza della citazione avrebbe reso nulla la procedura di Dio.
Gli abiti di pelle che Dio fece ad Adamo e a Eva furono il modello del sambenito che il Sant’Uffizio fa portare agli eretici. È vero che con quest’argomentazione si dimostra anche che Dio fu il primo sarto, ma non è perciò meno evidente che egli fu il primo inquisitore.
Adamo fu privato di tutti i beni immobili che possedeva nel paradiso terrestre: di qui l’uso del Sant’Uffizio di confiscare i beni di tutti coloro che vengono da essi condannati.
Luis de Pàramo osserva che gli abitanti di Sodoma furono arsi come eretici, perché la sodomia è un’eresia formale. Di qui passa alla storia degli Ebrei e vi trova ovunque il Sant’Uffizio.
Gesù Cristo è il primo inquisitore della nuova legge; i papi furono inquisitori di diritto divino, e infine comunicarono la loro potenza a san Domenico.
Pàramo enumera poi tutti coloro che furono messi a morte dall’inquisizione e ne trova assai più di centomila.
Il suo libro fu stampato nel 1589 a Madrid, con l’approvazione dei dottori, gli elogi del vescovo e il privilegio del re. Noi non concepiamo oggi orrori così stravaganti e così abominevoli a un tempo; ma allora nulla sembrava più naturale e più edificante. Tutti gli uomini assomigliano a Luis de Pàramo quando sono fanatici.
Questo Pàramo era un uomo semplice, molto preciso nelle date, che non tralasciava alcun fatto importante e calcolava con scrupolo il numero delle vittime umane immolate dal Sant’uffizio in tutti i paesi.
Egli racconta con la più grande ingenuità come l’inquisizione vene istituita in Portogallo ed è perfettamente d’accordo con altri quattro storici, che si sono espressi come lui. Ecco ciò che essi riferiscono unanimemente.
Molto tempo prima, all’inizio del Quattrocento, il papa Bonifacio IX aveva incaricato dei frati predicatori che si recavano in Portogallo, dove si spostavano di città in città, di bruciare sul rogo gli eretici, i musulmani e gli Ebrei; ma erano itineranti e i re stessi si dolsero a volte delle loro vessazioni. Il papa Clemente VII volle dar loro una sede fissa in Portogallo, come già l’avevano in Aragona e in Castiglia. Insorsero difficoltà fra la corte di Roma e quella di Lisbona; gli animi si inasprirono; l’inquisizione ne soffriva e non era affermata perfettamente.
Nel 1539 apparve a Lisbona un legato del papa, arrivato, così diceva, per costituire la santa inquisizione su basi incrollabili. Egli apportò al re Giovanni III delle lettere del papa Paolo III. Aveva altre lettere di Roma da consegnare ai principali dignitari della corte; le sue patenti di legato erano debitamente sigillate e firmate: egli esibì i più ampi poteri di creare un grande inquisitore e tutti i giudici del Sant’Uffizio. Il presunto legato era un furfante di nome Saavedra, abile nel contraffare tutte le scritture, nel fare e applicare falsi sigilli e falsi bolli. Aveva appreso quest’arte a Roma e vi si era perfezionato a Siviglia, da cui arrivava con altri manigoldi. Il suo seguito era splendido; egli aveva al suo servizio più di centoventi domestici. Per far fronte alle spese enormi che tale seguito comportava, egli e i suoi due confidenti avevano preso a prestito a Siviglia somme immense a nome della camera apostolica di Roma; tutto era concertato con l’artificio più perfetto.


quel grand'uomo di Paolo III

Il re di Portogallo fu dapprima sorpreso che il papa gli inviasse un legato a latere senza averlo preavvertito. Il legato rispose fieramente che in una così urgente come l’istituzione stabile dell’inquisizione Sua Santità non poteva soffrire alcun indugio e che il re doveva essere abbastanza onorato dal fatto che il primo corriere che gliene portava notizia fosse un legato del Santo Padre. Il re non osò replicare. Il legato, quello stesso giorno, nominò un grande inquisitore, inviò dappertutto a raccogliere decime; e prima che la corte potesse avere delle risposte da Roma aveva già fatto bruciare duecento persone e raccolto più di duecentomila scudi.
Frattanto il marchese di Villanova, un signore spagnolo da cui il legato aveva ricevuto in prestito a Siviglia una somma ingentissima sulla base di effetti falsi, ritenne opportuno ripagarsi con le sue mani, anziché rischiare di andare a mettersi nei guai con quel furfante a Lisbona. Il legato stava facendo allora il suo giro ai confini con la Spagna. Il marchese vi si recò con cinquanta uomini armati, lo catturò e lo portò a Madrid.
La truffa fu scoperta ben presto anche a Lisbona, il consiglio di Madrid condannò il legato Saavedra alla fustigazione e a dieci anni nelle galere; la cosa più mirabile fu però che il papa Paolo III confermò poi tutto ciò che era stato stabilito da quel furfante; egli corresse con la pienezza della sua potenza divina tutte le piccole irregolarità procedurali commesse e rese sacro quel che era stato puramente umano.
“Che importa di qual braccio Dio degni di servirsi?”
(Voltaire, Zaire, atto II, scena I)
Ecco come l’inquisizione si insediò a Lisbona e tutto il regno ammirò la Provvidenza.
Del resto, si conoscono abbastanza tutti i procedimenti di questo tribunale; si sa bene come siano contrari alla falsa equità e alla cieca ragione di tutti gli altri tribunali dell’universo. Si è incarcerati sulla base della semplice denuncia delle persone più infami; un figlio può denunciare il padre, una donna il marito; non si è mai messi a confronto con gli accusatori; i beni vengono confiscati a profitto dei giudici: così almeno l’inquisizione si è comportata fino ai nostri giorni: in ciò v’è qualcosa di divino; è infatti incomprensibile che gli uomini abbiano potuto tollerare tale gioco tanto pazientemente.
Infine il conte di Aranda, che ha il merito di aver fatto espellere i gesuiti dalla Spagna nel 1767 e di aver limitato i poteri dell’Inquisizione nella sua qualità di capo del governo spagnolo, è stato benedetto dall’Europa intera per aver mozzato gli artigli e limato i denti del mostro; ma esso respira ancora.

1769

mercoledì 20 giugno 2012

Zarathustra e il vegliardo



Zarathustra a trent’anni porta la sua cenere al monte e resta in solitudine per dieci anni.
La cenere rappresenta i pensieri e i libri che Nietzsche ha scritto fino al momento di concepire Così parlò Zarathustra. È andato tutto in fumo, i suoi pensieri non lo soddisfano, i libri che ha scritto neanche e non perché sono poco letti, ma perché sono libri che non raggiungono l’altezza e la profondità sperata. Son testi da studioso, da comune professore universitario, testi che rimangono all’interno del grande circolo culturale letterario europeo. Io scrivo un libro, tu ne scrivi un altro e via così felici di fare scienza senza stressarsi troppo.
No; Nietzsche non è contento e brucia tutto. Resta di essi solo la cenere.
In realtà, Zarathustra non è proprio solo. Ha due animali con sé: l’aquila e il serpente. L’aquila vola alto nel cielo, fiera e indomita, il serpente striscia sulla terra – sono animali evidentemente complementari. Rappresentano simbolicamente l’unità del pensiero. Altezza e astuzia hanno bisogno l'una dell'altra. Solo l'altezza fa il pensatore stupido, solo l'astuzia fa il pensatore sordido.
Un giorno, Zarathustra decide di tramontare tra gli uomini così come fa il sole. Sente di aver accumulato tanta saggezza e vuole donarla all’umanità.
Discesa la montagna, giunto alla foresta, Zarathustra incontra un vegliardo, un altro eremita. Questo vegliardo riconosce Zarathustra e così lo accoglie:
“Questo viandante non mi è sconosciuto: alcuni anni fa è passato di qui. Zarathustra era il suo nome; ma egli si è trasformato. Portavi allora la tua cenere sul monte: oggi vuoi portare nelle valli il tuo fuoco? Non temi i castighi contro gli incendiari? Sì, riconosco Zarathustra. Puro è il suo occhio, né disgusto si cela sulle sue labbra. Non incede egli a passo di danza? Trasformato è Zarathustra, un bambino è diventato Zarathustra, Zarathustra è un risvegliato: che cerchi mai presso coloro che dormono? Hai vissuto nella solitudine come in un mare, e il mare ti ha portato. Guai! vuoi scendere a terra? Guai! vuoi tornare a trascinare da solo il tuo corpo?”
Il vegliardo, evidentemente, è un eremita che ha fatto una scelta dettata dal disgusto che gli uomini e lo spettacolo umano spesso provocano. È un tipo di eremita completamente diverso da Zarathustra.
Zarathustra dice al vegliardo che torna dagli uomini per amore verso di loro, perché vuole portargli un dono. Ma il vegliardo non sente ragioni; continua con le sue parole colme di disillusione:
“E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto (cioè nei luoghi soliti degli eremiti)? Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini, io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta. L’amore per gli uomini mi ammazzerebbe. Non dar loro nulla, continua l’eremita, levagli piuttosto qualcosa e portalo insieme a loro – questo sarà per essi il massimo beneficio: purché lo sia anche per te! E se proprio vuoi dargli qualcosa, non dare più di un’elemosina, e falli mendicare per questo! Bada che essi vogliano accettare i suoi tesori! Sono diffidenti verso gli eremiti e non credono che noi veniamo a portare i doni. I nostri passi risuonano troppo solitari per i loro vicoli. E quando di notte, a letto, sentono un uomo camminare assai prima che il sole sorga, si chiedono: dove andrà quel ladro? Non andare dagli uomini, resta nella foresta! Va’ piuttosto dagli animali! Perché non vuoi, come me, essere – un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?”
Zarathustra ascolta il vecchio perché lo sente affine, capisce le sue ragioni, lo rispetta, ma lui è di tutta altra pasta. Alla fine chiede al vegliardo: “E cosa fai nella foresta?”
“Io faccio canzoni e le canto, e nel far canzoni, rido, piango e mugolo: così lodo Iddio. Cantando, piangendo, ridendo, mugolando, io lodo il dio che è il mio dio.”
Alla fine Zarathustra si congeda dal vegliardo; i due si abbracciano e ridono come potrebbero ridere due fanciulli; perché seppur in modo diverso, questo sono: due fanciulli. Uno arrabbiato, l’altro illuminato.
Ma quando rimane solo, così parla Zarathustra al suo cuore: “È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta, che Dio è morto!

martedì 19 giugno 2012

vai Valéry, facci godere...


O récompense après une pensée
Qu’un long regard sur le calme des dieux!
[O ricompensa, a chiusa di un pensiero,
Un lungo sguardo alla divina calma!]
Visto che questo è un blog dedicato al pensiero, oggi mi godo tre pensieri di Paul Valéry.
Chi conosce Valéry, sa già quanta delizia è in grado di regalarti quest’uomo. Chi ha letto Cattivi pensieri, L’idea fissa, Monsieur Teste o quel sublime poema che è Il cimitero marino - al solo scorrere dei titoli starà godendo di reminiscenze a tutto spiano. Chi non lo conosce, si affretti.
In realtà quando dico pensiero intendo godimento; godimento nel leggere godimento nel trattenere nella mente (pensare) godimento nel riflettere (ruminare) e nel contemplare (la vera teoria).
Non è un pensiero per fare, non è un pensiero servizievole, tecnico o altri usi plebei. No, qui si pensa solo perché pensare è orgasmico. Se poi aveste obiezioni e pregiudizi occidentali, son cazzi vostri…uhaz uhaz uhaz.
Soprattutto per me è importante che il pensiero sia mutevole, sia vario, sia ricco. Non mi piacciono i cattolici o i musulmani non in quanto credenti del Cristianesimo o dell’Islam. Non mi piacciono perché questi qua citano sempre e solo UN libro, una sola autorità, sono schiavi di un solo pensiero. I fondamentalisti sono i più cretini tra quelli che “pensano”. Mai fermarsi a un solo autore, anzi, è obbligatorio andare da uno che formuli pensieri diametralmente opposti. Leggete la Bibbia e poi andate da quell’ateo di Sade; allora sì che vi apprezzerei! A me piace Nietzsche, ma mica leggo solo quello. Spesso vado a cercarmi proprio un pensatore anti-nicciano, cerco un libro "critico". Se poi la critica è fatta bene, godo come un maiale. Se è fatta male, allora godo come un maiale a rintuzzarla.
Siate api, volate e succhiate il polline da mille e più fiori. Se, poi, un fiore dovesse piacervi di più degli altri, fermatevi pure più a lungo. Ma ripartite, cari, ripartite…c’è tanto da scoprire nel meraviglioso mondo dei pensieri…
Il pensiero non dev'essere unico perché voi possiate ritenervi contenti e soddisfatti di esso; no. L'habitat del pensiero è la vastità, il pensiero è prateria e libertà, non la casetta borghese sicura di 'sta minchia.
Dovete essere zingari girovaghi col pensiero, non impiegati postali dal culo di pietra.
Orbene, dopo l’esortazione - veniamo (in tutti i sensi) a noi; è ora. Posiamo armi e bagagli, laviamoci la faccia e mettiamoci comodi. Sfilano per noi Banalità, Ragione, Certezze e Dubbi.
Ricordati che ogni mente è plasmata dalle esperienze più banali. Dire che un fatto è banale significa dire che è fra quelli che più hanno contribuito alla formazione delle tue idee essenziali. Nella composizione della tua sostanza mentale più del 99% è costituito da immagini e impressioni senza valore. Aggiungi poi che le concezioni inusuali, i pensieri nuovi e singolari traggono tutto il loro valore da questo fondo volgare che li fa risaltare.
L’origine della “ragione”, o della nozione di ragione, è forse la transazione. In certi casi bisogna concludere una transazione con la “Logica”; in altri, con l’impulso o l’intuizione; in altri ancora, con i fatti. Cerca dunque, tutte le volte che da te o dagli altri ti giunge la parola Ragione, di sostituirla con quella più precisa di “transazione”. Allora, niente più dea…
Ci sono in noi inspiegabili certezze e dubbi infondati: cause dei mistici e dei filosofi. Poiché nulla è capace di spiegare le une né di giustificare gli altri, siamo indotti a pensare che, su un milione di uomini, dubbi e certezze siano distribuiti come “a caso”…

lunedì 18 giugno 2012

Shakespeare e Cupido



Stavo leggendo Il sogno d'una notte di mezza estate di Shakespeare e mi sono imbattuto in questi celebri versi pronunciati da Lisandro:
… sempre la guerra, la morte o l’infermità han cinto d’assedio l’amore, e l’han reso provvisorio quanto un suono emesso nell’aria, facile a disperdersi quanto un’ombra, breve quanto un sogno, rapido quanto la saetta intravista nella caligine notturna, che, con impeto subitaneo e capriccioso, rivela entrambi il cielo e la terra, e prima ancora che si possa dire: guarda! Le mascelle della tenebra son preste a inghiottirla. Tanto subitaneo dilegua tutto quel che risplende.
Dopo averli letti, mi sono disteso sul letto con libro, tenuto con la mano sinistra con il dito dentro per non perdere il segno, e li ho ripensati ad occhi chiusi. Li ho gustati e ruminati.
Quanti cacacazzi, quanti ostacoli e quante noie vengono a turbare l’amore fra due persone; e ho pensato a un paio di donne in particolare e a quanto la vita spesso non sia né dura né ingiusta, ma semplicemente meschina.
Poi ho preso un sorso di caffè e ho continuato a leggere perché volevo almeno finire il primo atto. Ho dovuto fare, però, un’altra breve interruzione quando mi sono imbattuto nelle parola di Elena sull’amore e sulla figura simbolica di esso cioè su Cupido:
Anche gli oggetti più umili e volgari, per quanto privi di forma e proporzione, possono essere trasformati dall’amore fino ad accoglierle, e nobile può sempre divenire ogni cosa vile. L’Amore non guarda con gli occhi, ma col sentimento, ed è per questo che l’alato Cupido vien dipinto bendato. Né lo spirito d’amore ha mai assaporato che sia il discernimento ché l’ali e la benda sugli occhi stanno a figurare per l’appunto una foga inconsulta: e si dice per questo che Amore è un fanciullo, perché tanto spesso s’inganna nella sua scelta. E come i fanciulli, nei loro giuochi, non si fan scrupolo di mancar la fede, così il fanciullo Amore è ovunque e sempre spergiuro.
Sono descritti un po’ i caratteri fondamentali dell’amore. La “cecità” dell’amore, la passione subitanea e irrefrenabile, il cambiare idea, gli spergiuri, ecc.
Manca il riferimento alle frecce che credo simboleggino il fatto che l’amore può colpire chiunque e senza preavviso, insomma quello che noi definiamo “colpo di fulmine”.
Manca, altresì, un accenno a quello che io chiamo il “fiuto economico dell’amore”. È innegabile che alcune donne vengano colpite da Cupido solo in presenza di alcune caratteristiche come ricchezza, potere o posizione sociale. Se ne fottono di tutta la poesia inerente all'amore. Capita, a volte, che la donna non sia interessata all’artista in quanto artista, cioè produttore di arte, ma a quanti soldi questo artista riesca a cavare da quello che fa.
Gli esempi sono innumerevoli, ma ora è tempo di riprendere la lettura …

sabato 16 giugno 2012

23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo



Sto leggendo, sempre seguendo il mio personale disegno delle “sedicimila frecce”, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo di Ha-Joon Chang.
Quali sono queste 23 questioni che gli economisti i politici i giornalisti economici e i finanzieri ci tengono per lo più nascoste e che Chang ci vuole aiutare a capire? Senza contare che anche senza l’influenza diretta di questi personaggi, anche noi abbiamo i nostri preconcetti e pregiudizi economici da sfatare.
Ecco i 23 punti:
1) Il libero mercato non esiste
2) Le aziende non vanno gestite nell’interesse degli azionisti
3) Nei Paesi ricchi la maggior parte della gente viene pagata più di quanto dovrebbe
4) La lavatrice ha cambiato la vita più di internet
5) Aspettati il peggio e otterrai il peggio
6) La maggiore stabilità macroeconomica non ha reso l’economia mondiale più stabile
7) Le politiche liberiste raramente rendono ricchi i Paesi poveri
8) Il capitale ha nazione
9) Non viviamo in un’epoca postindustriale
10) Gli Stati Uniti non hanno il tenore di vita più alto del mondo
11) L’Africa non è destinata al sottosviluppo
12) Gli Stati sanno puntare su imprese vincenti
13) Rendere i ricchi ancora più ricchi non rende tutti più ricchi
14) I manager americani [cioè tutti i manager] sono pagati troppo
15) I Paesi poveri sono più intraprendenti di quelli ricchi
16) Non siamo abbastanza intelligenti da lasciar fare al mercato
17) Più istruzione non rende un Paese più ricco
18) Quello che è buono per la General Motors non è sempre buono per gli Stati Uniti [mutatis mutandis la Fiat per l’Italia, ecc.]
19) Malgrado la caduta del comunismo viviamo ancora in economie pianificate
20) L’uguaglianza di opportunità può non essere equa
21) Uno stato sociale generoso rende la gente più aperta al cambiamento
22) I mercati finanziari devono diventare meno efficienti
23) Una buona politica economica non ha bisogno di bravi economisti
A questi, Chang aggiunge una Conclusione intitolata Come ricostruire l’economia mondiale.
Ed ora diamo un’occhiata alle questioni più importanti che approfondiremo nei prossimi post.
Una volta capito che il libero mercato non esiste, non ci si farà più ingannare da chi si oppone a ogni regola in base all’idea che lo renderebbe “non libero” (punto 1). Scoperto che uno Stato forte e attivo può promuovere anziché soffocare il dinamismo economico, ci si accorgerà che la sfiducia generale nei suoi confronti è infondata (punti 12 e 21). La consapevolezza di non vivere in un’economia postindustriale indurrà a chiedersi se sia saggio trascurare, quando non implicitamente augurarsi, il declino industriale di un Paese, come alcuni governi hanno fatto (punti 9 e 17). Quando ci si rende conto che la trickle-down economics (ossia l’idea che i poveri possano arricchirsi “per osmosi” in un sistema che agevola i ricchi) non funziona, si vedono i tagli alle tasse dei più abbienti per quello che sono: una semplice redistribuzione di reddito verso l’alto, piuttosto che un modo per renderci tutti più ricchi, così come promesso (punti 13 e 20).
Quanto successo all’economia mondiale non è accaduto per caso, né è il risultato dell’incontrastabile spinta della storia. Non è per via di una ferrea legge di mercato che i salari sono rimasti fermi e le ore di lavoro aumentate per gran parte delle persone, o che i redditi di amministratori delegati e banchieri sono cresciuti in modo esponenziale (punti 10 e 14). Non è semplicemente a causa dell’inarrestabile progresso delle tecnologie delle comunicazioni e dei trasporti che siamo esposti alle forze crescenti della concorrenza internazionale e dobbiamo preoccuparci della sicurezza del posto di lavoro (punti 4 e 6). Non era inevitabile che negli ultimi trent’anni il settore finanziario si distaccasse sempre di più dall’economia reale, provocando quella catastrofe in cui ci troviamo oggi (punti 18 e 22). E, soprattutto, non è a causa di qualche immutabile fattore strutturale – il clima tropicale, la posizione sfavorevole o la cultura mediocre – che i paesi poveri sono poveri (punti 7 e 11).

venerdì 15 giugno 2012

La morte del sole. La domanda iniziatica



E si mettono nomi e titoli di traverso per sbarrarti la strada.
E abbiamo tolto di mezzo il soggetto solo perché poi i soggetti diventassero innumerevoli.
E la citazione è diventata una maledizione insopprimibile.
E si può citare un Kant, ma non come vivo spirito, bensì come una cosa che giace da qualche parte e ognuno la usa come vuole.
E i libri pieni di citazioni sono come sarcofaghi; pile di cadaveri ne sorreggono l’effimera vita.
E nell’imperversante storia della filosofia, la quiete di ciò che fu pensato non viene lasciata in pace.
E chi scrive trionfa su tutti.
E si trova sempre un cretino pronto a deformare Kant a suo piacimento.
E quel che fu pensato è lì, duro e ostile verso il vivente e non può nemmeno sfiorarlo la “comprensione” con cui il commendevole amico si lancia sul cadavere.
E il duro dettato che il filosofo strappò all’umano, la storia della filosofia, futile e petulante, glielo riconsegna con tanti saluti.
E al filosofo per bene non resta che porsi una domanda: Perché squietare la pace del pensato?

giovedì 14 giugno 2012

La Tempesta [appunti bloom 1]



L’uomo, fondamentalmente, fa due cose: si prende cura del proprio corpo e della propria mente. Il meglio per il corpo è il sesso, il meglio per la mente è leggere e occuparsi di Shakespeare.

Shakespeare ha scritto due commedie visionarie: Sogno di una notte di mezza estate e La Tempesta.
La critica ha seguito la strada dell’erotomania per il Sogno e quella ideologica per La Tempesta.
Il caso più lampante di questa ideologia riguarda il personaggio Caliban, una codarda creatura semiumana dagli istinti violenti e omicidi, che è diventato un eroico difensore afrocaraibico della libertà.
Qui Bloom fa una riflessione che reputo molto importante, perché è una cosa che ho notato spesso anche io. Molti studiosi, molti critici, non vanno sui testi come ospiti, come umili ascoltatori, come cercatori di “pensieri d’oro” – no. Leggono un’opera con le mani già sporche delle loro convinzioni e delle proprie idee e deformano tutto.
Ecco il pensiero di Bloom che io condivido in pieno: “I marxisti, i sostenitori del multiculturalismo, le femministe e i nuovi storicisti (i soliti sospetti) conoscono bene la propria causa ma non i drammi di Shakespeare”.
Caliban è tutto fuorché una celebrazione dell’uomo naturale; La Tempesta non è un trattato sul colonialismo né un testamento mistico.
La Tempesta è una commedia teatrale profondamente sperimentale è un’ottima idea sarebbe quella di metterla in relazione col Dottor Faust di Christopher Marlowe.
Il dramma è essenzialmente privo di intreccio; il suo unico avvenimento esteriore è la magica tempesta della prima scena che ispira, strano a dirsi, il titolo del testo.
Poiché, sebbene pronunci solo cento versi, oggi Caliban rappresenta per molti il fulcro del dramma, conviene partire proprio dall’analisi di questo personaggio attraverso le parole di alcuni tra i più autorevoli commentatori.
Secondo Dryden, Shakespeare “creò una persona che non esisteva in natura”. Un personaggio umano solo per metà non può essere un uomo naturale, sia esso nero, indiano o berbero (il probabile popolo d’origine della strega algerina Sycorax, madre di Caliban).
Johnston, che non era un sentimentalista, parlò “della tetraggine del suo temperamento e della malvagità dei suoi propositi”, liquidando l’idea secondo cui Caliban usava un linguaggio proprio.
Nel Novecento, il grande poeta Wystan Hugh Auden espresse l’opinione semplicistica secondo cui Prospero avrebbe corrotto Caliban. Com’è sua abitudine quando parla di Shakespeare, Auden ci regala tuttavia una geniale intuizione, in questo caso con il meraviglioso testo in prosa “Caliban al pubblico”, tratto dal Mare e lo specchio. Forse perché Shelley si era identificato con Ariel, Auden scorse se stesso in Caliban:
"E da questo incubo di pubblica solitudine, da questo eterno Non ancora, quale sollievo ricavare oltre a un galoppo collettivo ancor più sfrenato, con occhi da bisonte e traiettoria obliqua, verso il grigio orizzonte della visione più cupa; quali punti di riferimento oltre ai quattro fiumi morti, l’Infelice, il Fluente, il Dolente e la Palude delle lacrime, quale obiettivo oltre alla pietra nera su cui si spaccano le ossa? Solo nel suo pianto d’agonia la vostra esistenza può infatti finalmente trovare un significato chiaro e il vostro rifiuto di essere voi stessi diviene un’autentica disperazione, l’amore per nulla, la paura di tutto".
Qui sentiamo soprattutto Auden che parla di Auden, fortemente influenzato da Kierkegaard, ma le sue parole colgono il dilemma di Caliban: “L’amore per nulla, la paura di tutto”.

mercoledì 13 giugno 2012

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi



Sono molto nervoso.
Dopo tanto tempo ho acquistato Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. Una copia a cui tenevo tanto perché Pavese, per me, è forse l’unico scrittore degno di stima del primo Novecento italiano.
Quando scrive, fa una specie di luce che mi fa sentire a casa, che mi avvolge e mi coccola; produce un calore capace di darmi benessere. È così difficile spiegarsi a volte ... Comunque è la stessa luce che fa Joyce.
Ieri, approfittando del 25% di sconto, ho preso Il mestiere di vivere al prezzo di 12 euro invece di 16. Grande affare!
Torno a casa, comincio a sfogliarla e scopro che ci sono interi pensieri, lunghi periodi in FRANCESE. Porca puttana, io il francese non lo conosco e a casa non ho neanche un vocabolario!
Ora, vorrei dire alla casa editrice Einaudi: fate un grande lavoro per pubblicare Il mestiere di vivere, prefazione, introduzione, bibliografia (addirittura con i titoli di Pavese stampati in Spagna), fate un indice dei nomi accuratissimo, appendici varie, un’antologia della critica, 81 pagine di note e NON traducete questi pensieri dal francese in italiano??? Devo mettermi a tradurre Léon Chestov? Corneille? Rousseau?
Cioè vi costava tanto mettere in nota questi pezzi tradotti? Ecco un esempio pratico che spiega cosa vuol dire “perdersi in un bicchiere d’acqua”.
Non sono affatto soddisfatto. Mi viene voglia di restituire il prodotto.
O sono io che sono troppo difficile o siete voi che non fate le cose con cura - ai posteri l’ardua sentenza.
Comunque, per farmi perdonare questo post semplicemente di sfogo, metto la poesia di Pavese che preferisco.
Cerco sempre di fare le cose al meglio … io.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

martedì 12 giugno 2012

4 pensieri INVERSI



Il libro Poesie di Sandro Penna è tornato a casa - sono felice anche perché non è stato facile.
I cinque maggiori siti di vendita di libri on line l’avevano esaurito, alla casa editrice Garzanti pure e per tutta Napoli non ero riuscito a trovarlo. Fortunatamente, dopo aver fatto una mega ricerca su internet, ho trovato un sito che l’aveva. Diciamo che ho dovuto sborsare 6/7 euro in più del normale, ma fa niente. Ci tenevo troppo che Sandro tornasse a casa, avere una copia mia, una copia pulita e non sporcata da mani indegne … suka!



Come serie televisive poliziesche la mia predilezione va a telefilm come Poirot, La signora in giallo e Colombo. Ho accettato l’avvento di nuove serie che, tralasciando la genialità del singolo investigatore, danno spazio alle tecniche scientifiche più sofisticate, agli effetti speciali sempre più speciali e che tengono conto dei gusti sempre più spara-insegui-ammazza-sangue delle nuove generazioni. Quelle che non sopporto sono quelle dedicate ai serial killer. Sia perché con ‘sti serial killer hanno rotto i coglioni, sia perché poi lì i poliziotti americani sono ancora più antipatici del solito e si credono ancora di più stocazzo (loro e il fottuto FBI di Quantico).
Una serie che apprezzo è CSI – Scena del crimine perché mi piace il modo in cui la scienza può aiutare la polizia a scoprire i criminali. Mi piacciono molto le puntate dove c’è comunque un intrigo, i colpi di scena, dove l'elemento umano è predominante insomma.
Una cosa che non capisco delle tre serie CSI – Scena del crimine è la caratterizzazione dei personaggi principali, soprattutto il loro rapporto con le donne. Sembra che debbano essere per forza tristi e complicati. Mi pare un modo di arruffianarsi il pubblico abbastanza penoso.
In CSI Las Vegas, Gilbert "Gil" Grissom è introverso e non perde occasione per raccontare che da bambino giocava con le bambole e per questo veniva preso in giro dai coetanei, ha una madre sordomuta e lui stesso soffre di un male alle orecchie (il nome della malattia l’ho scodato). In tutte le puntate ha dei flirt con le donne. O meglio: le donne mostrano interesse, ma lui se ne frega. Non accetta mai il corteggiamento, non ci esce mai a cena, ecc. Bisogna aspettare ben nove stagioni perché finalmente si abbia il lieto fine con Sara Sidle.
In CSI Miami, Horatio Caine vive nel ricordo del defunto fratello Raymond, scopre che la madre è stata uccisa dal padre che era spesso violento, nella quarta stagione sposa Marisol Delko, sorella di Eric, ma quest'ultima muore (ovviamente), uccisa dalla banda dei Malanoche. Nella sesta stagione scopre di essere il padre di un ragazzo di sedici anni, avuto dalla sua ex fidanzata Julia Winston (una pazza squinternata).
In CSI New York, che conosco meno, Mac Taylor è uno strapatriota convinto e nella vita ha tre priorità: l'onore della sua nazione, la sicurezza della sua città e l'integrità del suo laboratorio. Sì, è talmente americano da dare ai nervi. Giustamente ha perso la moglie, Claire, negli attentati dell'11 settembre 2001. Alla fine un po’ si salva perché nel tempo libero suona il basso nei locali jazz … solo che pure Bobo Maroni suona uno strumento nei localini, quindi ci andrei piano con i facili entusiasmi.



Passiamo alla politica e a una cosa che mi fa incazzare. La notizia è che Fioroni (siate felici se non lo conoscete) ha dichiarato che se Bersani dovesse fare di una legge sulle unioni omosessuali una delle priorità programmatiche del partito, l'ex ministro è pronto a candidarsi per le primarie, ecc. ecc. ancora altri blà blà blà sui gay.
Cioè ancora? Ma quanti cazzo di anni deve andare avanti 'sta discussione sugli omosessuali? Ma ci prendete tutti per mongoloidi? Una questione la si affronta e la si esaurisce, non è possibile che ‘sti stronzi dei politici tornino sempre sulla stessa questione pur di non parlare dei problemi reali e gravi del Paese! È un giochino umiliante! Io, comunque, non ci casco. Mi avete rotto i coglioni. Ma qual è ‘sto problema coi gay? Vogliono essere riconosciuti come coppia? Embè? Fatelo cazzo! Vogliono sposarsi? Che si sposino! Vogliono farsi una famiglia? E se la facciano! Io non capisco. Ma dove sta scritto che la coppia è solo uomo donna? E soprattutto ma su quali fatti basano che il meglio è la coppia uomo donna? Perché? In tutte le coppie etero c’è felicità o serenità? Non ci sono i divorzi? Non c’è violenza? Non ci sono litigi e traumi per i bimbi? Non capisco. Proprio in questi giorni si parla di quella stronza di Genova che ha fatto morire il suo bambino insieme a quel drogato imbecille del suo compagno. E allora? Aboliamo le coppie etero? Mi si potrebbe dire: eh, ma l’influenza sui bambini … scusate. Ma se da una coppia etero, magari pure serena, vengono poi delle persone omosessuali non vale pure il contrario? È perfettamente logico che da una coppia gay, magari pure serena, vengano su delle persone non omosessuali. O mi sbaglio?
Oppure si potrebbe dire che magari uno è omosessuale perché la sua famiglia faceva schifo, violenze, traumi, ecc. e quindi una persona potrebbe NON essere omosessuale proprio perché la coppia omosessuale dove stava faceva schifo ecc.
Problema risolto.



Chiudo con la telefonata di una persona, una signora sui sessant’anni, che voleva mia madre. Mia madre non c’era e quindi dopo averglielo comunicato stavo riattaccando. E invece no.
La gentile signora con la voce lenta e nasale da provocare istinti suicidi nell’ascoltatore, ha avuto la bella idea di farmi l’in bocca al lupo per il lavoro aggiungendo che poi è la “cosa più importante”.
Io non ero molto attento e ho risposto con un “purtroppo sì” che l’ha lasciata per qualche attimo sospesa. La signora, poi, ha cercato di chiarire giustificare dicendo che con il lavoro “uno si realizza”. Io non ho aggiunto altro, dicendo “sì sì, certo”, giusto per troncare la conversazione.
Sinceramente non ci sto. Per me il lavoro non è la cosa più importante, è la cosa più stupida e scocciante, invece. Poi, se qualcuno si realizza con il lavoro, faccia pure, io ho ben altro da fare.
Se la gente si è scimunita con questo lavoro, se ormai non si può più tornare indietro son cose che non mi riguardano. Il lavoro è un’invenzione umana. Una galera umana.
Io non faccio parte dello stupido coro “il lavoro nobilita l’uomo” e altre idiozie. Stai un bel po’ di tempo a cercarlo, un bel po’ di tempo a farlo lamentandoti, il resto è pensione da fame e morte.
Il tutto condito da scocciature, ansie, stress e sfruttamento. Per quale dannato motivo? Nessuno lo sa. Tutti preferiscono non pensare e andare a lavorare.
Il problema è che uno è costretto a seguire i pazzi nel loro delirio, devi per forza stronziarti appresso a quelli che si “realizzano nel lavoro”. Una vera condanna; non c’è spazio per noi disinteressati.
Io, per parte mia, ho le poesie di Penna, la filosofia di Sgalambro, le cattiverie di Paul Valéry, la pittura di Gauguin, il romanzo di Salinger, il libro di storia moderna … cosa me ne frega a me del lavoro? dove trovo il tempo?

lunedì 11 giugno 2012

Il ramarro (1946-1948)


VII.

Ho sentito lo spaventevole
dialogo dei morti,
fatto di tarli
nei legni scuri delle sacrestie;
di colpi di piedi scalzi
in grandi camere vuote,
dove il lucore della candela
si fissa negli angoli
delle porte aperte,
delle cornici d’oro degli specchi;
di zirli di tordi
saliti dai laghi di nebbia.
Ho una piccola predilezione per i libri di poesie giovanili perché si ha l’occasione di seguire l’apprendistato del poeta, gli influssi delle letture, le influenze, i debiti di stile ed ispirazione e altre cose del genere. È assente la deferenza ossequiosa che si prova davanti ai capolavori celebri e celebrati.
Nel caso del volumetto Il ramarro di Paolo Volponi, salta agli occhi la scoperta della poesia moderna: Ungaretti, Quasimodo, Montale, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master.
Leggiamo una testimonianza dello stesso Volponi: “Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura. Ero folgorato da certe immagini, da certe visioni, filtrate attraverso il ricordo delle letture incerte e frammentarie della scuola, che mi portavano ad avere un rapporto con fatti lontani magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le tempeste o le ragazze; o certe durezze della vita di allora, anche se già toccata dalle grandi speranze della libertà e poco dopo esaltata dagli effetti della liberazione.
Scrivevo per uscire da me stesso, per intervenire e organizzare un piccolo, modesto rapporto con il mondo, di nuove immagini, di altre espressioni per le mie pene che invece erano vecchie, erano molto profonde dentro di me, perché erano le pene tradizionali delle adolescenze addolorate e immature”.

Nelle poesie de Il ramarro si vede che Volponi applicò ai temi del proprio paesaggio originario la lingua poetica dell’ermetismo; c’è lo sforzo di appropriarsi di alcune costanti stilistiche tipiche dei poeti più arditi di quella stagione.
Seguendo le notazioni tecniche di Emanuele Zinato possiamo notare che nei versicoli dominano il sostantivo assoluto, con sospensione dell’articolo (“Vastità che soffro”), l’analogismo sviluppato mediante coppie inconsuete di aggettivo e sostantivo o epiteti di tipo sinestetico [la sinestesia è una figura retorica che prevede l'accostamento di due termini appartenenti a due piani sensoriali diversi] (“Pareti rosse d’aria”; “L’ondoso ottobre”; “le gole veloci”), e l’accostamento paratattico [un modo di costruire il periodo caratterizzato dall'accostamento di frasi dello stesso ordine, ossia coordinate tra loro. Di solito si parla di paratassi quando il periodo è costruito solo con frasi principali] di pochi e scabri vocaboli ad articolare l’incanto della totalità indivisa.
Tra i tratti originali, si delineano un diffuso zoomorfismo e un paesaggismo come sfondo di mitologie viscerali, mentre sulle sequenze figurative opera l’influenza del pittore, acquafortista e poeta marchigiano Luigi Bartolini, con i suoi ascendenti vociani, da Campana a Cardarelli.
La corposità antropomorfa ne Il ramarro è il segno di un paesaggio psichico più che naturale: l’ansia conoscitiva si proietta sulle cose e in esse riconosce un frammento pulsionale, ora affermativo ora negativo. Il paesaggio, e soprattutto il personaggio femminile, si sdoppiano nel segno della repulsione e della contaminazione. L’esordio poetico di Volponi, come attestano i frequentissimi verbi percettivi (“Io sento | il rumore dell’ossatura delle cose; “ho sentito lo spaventevole | dialogo dei morti”; “Mi tocco le ossa frequentemente | per prepararmi”), è interamente all’insegna dell’”epica della percezione” di un corpo “veggente e senziente” in movimento. Il sensuale panismo, pur presente massicciamente (“Nelle notti di maggio | … dilato il mio corpo sui boschi, | e mi tendo”) è attraversato da lame conoscitive, necessariamente crudeli e ostili (“L’ape è pesante | l’erba è tagliente”; “Perché mi troverò nella morte e non stupirò | fra le gelatine freddissime | di ombre scompaginate”).
XIV.

Questa noia,
fuori del tempo,
che non si raffredda
fra la neve.
Ha spento gli spazi.
È nel bicchiere,
sulla tavola
più grande di due deserti.
Sono inutile
più di un’ala
secca di cicala.

domenica 10 giugno 2012

per ricordare i fratelli Rosselli


(Carlo Rosselli)

I. Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale.

II. Che, come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di aspettare il sole dell’avvenire.

III. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria

IV. Che anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista.

V. Che socialismo senza democrazia e come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura).

VI. Che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l’erede del liberalismo.

VII. Che la libertà, presupposto della vita morale cosi del singolo come delle collettività, e il più efficace mezzo e l’ultimo fine del socialismo.

VIII. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo.

IX. Che lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta spaventa ormai solo i passerotti e gli esercenti, e mena acqua al mulino reazionario.

X. Che il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella Cultura.

XI. Che ha bisogno di poche idee e chiare, di gente nuova, di amore ai problemi concreti.

XII. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.

XIII. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse una unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale.


(Da "Socialismo liberale" di Carlo Rosselli ucciso con il fratello Nello il 9 Giugno 1937 da sicari fascisti)


(Nello Rosselli)