lunedì 7 settembre 2015

Mestiere e tradizione

vi pubblico questo scritto di Giorgio De Chirico datato 1920 anche se non capite e non meritate.


MESTIERE E TRADIZIONE

Viviamo, in fatto d'arte, in un mondo di anarchia e di indisciplina. Nessuno per correggere, nessuno per giudicare, nessuno per consigliare, nessuno per insegnare, nessuno per dettare una legge, stabilire un principio.
L'opera mediocre non corre più i rischi che correva anticamente, poiché, essendosi spenta nei pittori d'oggi la vera passione, lo stesso fenomeno, per riflesso, s'è ripetuto nel pubblico; onde esso pubblico più non s'entusiasma per nulla di ciò che è pittura, non esalta con la lode, né inveisce col biasimo.
I recenti entusiasmi che animarono i giovani durante la genesi dei nuovi sistemi, non erano veri e propri entusiasmi per l'arte, ma bensì agitazioni dovute a collettivismi. Tali agitazioni facevano parte di tutto uno stato speciale della moderna psiche, basato sul movimento ed il divertimento. A tale stato non poco contribuirono i multiformi progressi della scienza ed il perfezionamento dei mezzi di locomozione che permettono rapidi spostamenti e rendono continuo il contatto tra città e città, paese e paese, popolo e popolo. Detti entusiasmi, ripeto, non riguardano l'imo fondo dell'arte. L'affannosa gara sorta tra i predetti giovani, il fervore che li istigava a sorpassarsi l'un l'altro, avevano per sola meta l'originalità e la conseguente personalità, l'ambizione di farsi un nome, ambizione resa facilmente appagabile ai giorni nostri mercé l'allagante sviluppo della stampa, specie nelle sue forme effimere e superficiali, come: opuscoli, giornali, riviste ecc. Non uno di tali giovani era mosso dal desiderio di "fare meglio" del prossimo, e questo specialmente pel fatto che in quanto a mestiere, in quanto a possessione in profondità della complicata scienza pittorica, erano tutti sullo stesso livello. L'emulazione in ciò che riguarda il reale valore pittorico esige l'esistenza di maestri: questa era la forza degli antichi. Oggi maestri non ce ne sono; se tra la schiera degli scalmanati uno emergeva, riuscendo a smerciare più degli altri, riuscendo più degli altri a divulgare il suo nome, riuscendo a interessare o intenerire o solleticare la vena lirica di qualche scrittore d'arte, ciò non accadeva mai pel fatto che le sue opere fossero plasticamente superiori a quelle degli altri, ma, a procacciargli il successo, intervenivano principalmente fattori come: scoperta di sistemi nuovi, o plagio e sfruttamento di sistemi già scoperti da altri ma rimasti oscuri per combinazioni di circostanze, oppure intervento nella sua attività artistica e commerciale di persone che per interesse, simpatia e vanagloria lo aiutavano col senno della borsa; s'intende, tra parentesi, che l'emergente, il più delle volte, possedeva alcune piccole qualità di cui gli altri erano sprovvisti.
Il genio non interveniva mai. Il genio non può intervenire che sul piano della grande arte: solo là dove la costruzione plastica emerge nelle masse delle sue forme, ripulita da ogni sensualità di collettivismo, immobile nel suo aspetto, controllabile in ogni suo lato. Solo allora appare la "metafisica dell'arte". L'opera geniale, nata dallo sforzo progressivo, umana, reale, si trova nello stesso tempo sopra i limiti invisibili delle cose eterne. Pertanto, giustamente osserva Schopenhauer essere l'artista di solo talento uno che raggiunge un bersaglio appartenente a tutti ma che pochi possono raggiungere, mentre l'artista geniale uno che raggiunge un bersaglio che nessuno vede.
La mancanza di maestri, come dissi già, ha tolto ai pittori d'oggi il grande entusiasmo per la propria opera; ripenso alle parole di Domenico Veneziano nella lettera che scrisse a Piero de' Medici esprimendogli la sua ammirazione per Fra' Filippo Lippi e Fra' Angelico: "Se vui sapesse," diceva infine "el desiderio che ho di fare anch'io qualche famoso lavorio!"
In quei tempi il maestro formava il discepolo, ma anche i discepoli collaboravano non poco al progresso del maestro; non alludo con ciò all'aiuto materiale che gli allievi porgevano in molti casi al maestro, ma all'aiuto morale. Oggi, benché vi siano tanti gruppi e tante sette, gli artisti sono tutti terribilmente isolati; nessuno può aiutare il suo vicino e nessuno può chiedere aiuto, poiché nessuno è sicuro di quello che fa e di quello che vuole e tutti versano in grande miseria.
Presso i pittori antichi la scuola del maestro era una vera famiglia. Tali scuole avevano diversi gradi secondo il valore del maestro che insegnava; in tutti però c'era lo stesso spirito d'intimità e di solidarietà, lo stesso ardore da parte del maestro di insegnare e da parte dell'allievo di imparare.
Alcune scuole d'ordine inferiore erano semplici botteghe ove lavorava insegnando un dipintore di immagini sacre. Il giovane desideroso d'imparare l'arte entrava, spesso in piena fanciullezza, in tali scuole, per imparare i prima rudimenta ed i principali segreti del mestiere. Va notato però che i principi ed i segreti insegnati dai pittori di secondo ordine erano i medesimi anche nelle scuole dei maestri, quindi non si correva il rischio di seguire false strade, né a ciascuno era lecito lavorare a vanvera come si usa ai giorni nostri. In queste scuole per principianti si entrava presto e si usciva anche presto; l'allievo desiderava imparare entro il più breve tempo possibile le prime leggi del mestiere, onde potere poi perfezionarsi sotto la guida dei grandi maestri. Cominciava a studiare con attenzione il modo di macinare i colori (tale modo variava secondo le scuole ed i maestri, ed ogni scuola custodiva gelosamente il suo segreto), stendere secondo tutte le regole dell'arte il gesso sulle tavole, o il fresco umido sopra lo spazio dei grandi muri, calcarvi velocemente ed esattamente i cartoni ove il disegno delle immagini era di prima rigorosamente fissato. Acquistate queste prime conoscenze, l'allievo cercava maestri più sapienti e spesso era il pittore-pedagogo che per primo ispirava al suo giovane allievo il desiderio degli orizzonti sconosciuti che la sua età avanzata o il suo talento modesto gli permettevano solo d'intravedere. Spesso lo esortava a cercarsi maestri migliori e tanto faceva senza alcuno spirito di recriminazione, ché anzitutto pel suo giovane discepolo egli era un amico e quasi un padre.
Uscito dalla scuola dei primi insegnamenti, principiava per il pittore-fanciullo il periodo veramente fecondo della sua formazione. Andava errando da città in città, da studio in istudio. Un po' ovunque portava la curiosità e l'entusiasmo della sua giovinezza; stava sempre in agguato per iscoprire i segreti dei maestri più rinomati onde poterli seguire da presso. Così, a venti anni, un pittore possedeva già un mestiere importante, aveva la via tracciata, conosceva i segreti dell'arte, non gli restava più che proseguire. Malgrado la sua giovane età poteva iscriversi nei registri di una corporazione, onorarsi del titolo di pittore, aprire a sua volta una scuola.
Il fatto di cominciare assai presto lo studio della pittura fece sì che oggi ci stupisce l'importanza e la vastità dell'opera di alcuni pittori antichi, morti relativamente giovani. Si pensi che il Perugino entrò nella scuola d'un maestro a nove anni e Andrea del Sarto a sette; non pare strano allora che alcuni artisti come Mantegna, Michelangelo, Raffaello, Leonardo, siano stati dei maestri a venti anni.
Entrando nella scuola, prima di passare al grado di discepolo, vi si rimaneva per un certo periodo preparatorio che finiva allorquando si era in grado di rendere al maestro qualche servizio notevole. In certe scuole il periodo di istruzione vera e propria era di anni sette; in altre era più lungo. E' facile immaginarsi quanta affinità spirituale e quanta sincera amicizia nascesse tra maestri e discepoli, specie quando i primi scoprivano nei secondi talento e genialità. I componenti la scuola sentivano che erano i custodi d'un che di sacro: "il segreto dell'arte"; quel segreto che andava dalla macinazione dei colori e della filtrazione delle resine alla complicata e dura tecnica della pittura.
Il maestro amava i suoi discepoli come figli e come fratelli; sapeva che mercé loro le sue fatiche non sarebbero andate perdute. A Bologna il Francia notava con queste parole la partenza d'un suo discepolo: "1496 - 4 aprile - Partenza del mio caro Timoteo Viti - Che Dio lo colmi di doni e favori". Nel Libro di ricordi del pittore fiorentino Neri de' Bicci si trova scritto come egli abbia accolto gratuitamente nella sua scuola il figlio di una vedova che non poteva pagare la retribuzione necessaria. Nelle scuole dell'Umbria l'allievo non retribuiva il maestro, solo s'impegnava (come risulta da un contratto stipulato nel dicembre 1441 e che regola le condizioni sotto le quali un certo Domenico Cecchi Baldi entrava nello studio del celebre Ottaviano Nelli) a consumare i suoi pasti presso il maestro, ad avere una continua preoccupazione di studiare l'arte del dipingere, e a servire il maestro ed obbedire ai suoi ordini in rebus licitis et honestis. Pochi obblighi insomma da parte dell'allievo, da parte del maestro invece gli obblighi eran maggiori. Non solo egli s'impegnava d'insegnare meglio che poteva l'arte della pittura, ma s'impegnava anche a sorvegliare continuamente il suo allievo, a nutrirlo, a calzarlo ed a vestirlo. Durante tutto il tempo della sua permanenza nello studio doveva provvedere alle sue spese e pigliarlo seco quando si recava in altre città. Dallo stato di allievo il giovane pittore passava a quello di aiuto o garzone; tale vocabolo, in quell'epoca, non conteneva alcun senso sfavorevole. Lo si trova spesso negli scritti del Vasari. Così egli rammenta con parole di lode il suo garzone Cungi del Borgo; lo condusse seco in quasi tutti i suoi viaggi e lo ebbe come principale collaboratore nei molti lavori che eseguì a Venezia.
Tutti i grandi artisti ebbero numerosi discepoli per aiutarli nella loro opera. Bernardino Pinturicchio, lo Spagna, Raffaello, Giannicola Mauni, Melangio da Montefalco furono i garzoni del Perugino. Ciascuno di questi pittori, a sua volta, ne adunava altri. Lo Spagna era circondato da una vera famiglia di onesti artefici che coprirono di pitture tutte le chiese de' dintorni di Spoleto. Pinturicchio, pare ne abbia impiegati un numero anche maggiore negli affreschi degli Appartamenti Borgia, aperti al pubblico nel 1900; sembra che solo una parte di tali affreschi debbasi attribuire al maestro. Ma l'Umbria fu il paese ove la solidarietà artistica e l'amore reciproco tra maestri e discepoli furono maggiormente coltivati. Fra tutti gli artisti del XV secolo, nessuno ebbe, come il Perugino, un sì gran numero di discepoli devoti al culto del maestro ed alla scrupolosa osservazione dei suoi insegnamenti e ben lo provò il Sanzio che in due suoi capolavori: la Trasfigurazione ed il Matrimonio della Vergine, seguì così da presso le orme del maestro, onde il secondo sembra essere quasi una copia di quel Matrimonio che il Perugino dipinse per la cattedrale di Perugia, e che oggi trovasi nel museo di Caen.
Nei tempi moderni la tradizione della scuola antica si protrasse fino a David ed a Ingres.
Pare che anche Courbet si sia servito di allievi per aiutarlo, specie negli ultimi anni della sua vita, quando, travagliato da una malattia di fegato ed oppresso dai dispiaceri che gli causavano i fatti politici della Comune e l'invidia di alcuni colleghi come il Meissonier, egli non poteva più lavorare con la sicurezza e l'ardore di prima. Fu infatti la collaborazione di tre pittori: Marcello Ordinaire, Cherubino Pata ed un certo Cornu, che permise al maestro di Ornans di intensificare, poco tempo ancora prima di morire, la sua produzione artistica.
Potremo oggi, coll'andamento che ha preso la pittura, tornare al culto delle scuole? A me sembra cosa ben difficile. Certo non è nelle differenti accademie del regno che rinascerebbe lo spirito delle scuole antiche e ciò per diverse ragioni: anzitutto, come dissi già, perché mancano i "maestri", e poi perché il metodo dell'insegnamento è pessimo o, per essere più precisi, non esiste. Il pittore stipendiato dal governo per insegnare in un'accademia si limita a fare un rapido giro, un paio di volte la settimana, a traverso i cavalletti degli allievi, dando qualche vago consiglio, distribuendo alcune dubbie correzioni. In tal modo l'allievo, dall'insegnante, non può imparare nulla ed è lo stesso come se lavorasse solo. E' da notarsi pure che nelle accademie d'oggi i maestri non hanno nessuna autorità; anche se possedessero un mestiere vero e proprio e se fossero degli artisti completi non potrebbero imporre nessun metodo e nessuna disciplina di lavoro, poiché oggi, nella gioventù artistica, sono ormai radicati certi principi di anarchia e d'indipendenza che impediscono qualsiasi prevalenza di dottrina.
Meglio sarebbe che dei pittori seri e coscienti del proprio valore, giunti a un buon punto di maturità e di mestiere, riunissero un certo numero di giovani disposti a seguirli ciecamente ed a lavorare disinteressatamente seco loro, senza prestare ascolto ai rumori di fuori; bisognerebbe che questi seguaci fossero profondamente convinti del valore del maestro. Si potrebbe così, a poco a poco, far sorgere una pittura su basi solide che sarebbe ottimo correttivo alla scemenza universale. L'Italia, forse, è il paese più adatto per tale principio, ché la scemenza della nostra pittura moderna è più alla superficie che nel fondo.
Vedremo chi darà il buon esempio.