martedì 31 luglio 2012

Il mio primo tatuaggio


E mi sono tolto uno sfizio, per dio!
Era da tanto tempo che volevo farmi un tatuaggio, ma per un motivo o l'altro rimandavo sempre. Prima non volevo seguire la moda visto che se lo facevano tutti, poi non sapevo cosa tatuarmi e dove, mancanza di soldi, paura del dolore, paura di malattie ecc.
Ieri finalmente mi son deciso e sono molto contento.
Innanzitutto una precisazione terminologica: non è un tatuaggio; io lo chiamo incisione. Sì perché questa è l'idea che mi ha dato ieri il tatuatore mentre mi incideva la pelle.
Comunque ho scelto di farmi incidere la A rossa di Anarchia (così come si vede nell'immagine postata sopra) sul braccio sinistro poco sotto la spalla. Certo, non è uno di quei tatuaggi artistici che siamo abituati a vedere...non è un cavallo alato, un dragone, un tribale o altre menate, ma a me piace così. Amo il pensiero anarchico, l'unico pensiero intelligente, dolce e onesto dei nostri tempi e ho voluto omaggiarlo con un tattoo.
Per quanto riguarda il dolore (o la paura degli aghi che attanaglia il neofita) devo dire che non si sente alcun tipo di dolore. Quello che si sente è la macchinetta che ti incide la pelle, ma non è doloroso...anzi! Devo dire che quella sensazione è piacevole, una sorta di piacere masochistico. Si sente questa incisione continua che ti fa una sorta di pizzicorio minimo, ma ve lo ripeto: non è dolorosa.
Io ho goduto mentre il tatuatore lavorava. Senza contare che poi c'è un po' di pausa ogni tanto quando il tatuatore deve pulire la pelle dall'inchiostro ed asciugare la parte che sta tatuando.
Ora vi giro qualche consiglio che mi han dato ieri al laboratorio.
Innanzitutto conviene tatuarsi quando NON si è abbronzati perché con la pelle abbronzata il tattoo guarisce peggio. Cercate una zona del corpo priva di NEI o un tipo di tatuaggio che li eviti.
Il trattamento da fare una volta a casa consiste nel lavare il tatuaggio con acqua tiepida e sapone neutro tre volte al giorno. Dopo il lavaggio applicate una crema che contenga pantenolo. A me ieri han dato un prodotto specifico, altrimenti chiedete in farmacia.
Dopo il tatuaggio non fate palestra (perché non dovete sudare) e non prendete sole per due settimane.
Quando siete a casa tenetelo scoperto, fate prendere aria al tattoo, se uscite e c'è parecchio sole coprite con una garza (soprattutto se avete la crema che è molto "grassa" e quindi potreste macchiare la maglietta o la camicia).
Se vengono le crosticine, fatele cadere naturalmente. Ovviamente quando andate a tatuarvi vestitevi adeguatamente perché col tattoo fresco, la crema e la garza rischiate di inguacchiarvi i vestiti.
Bene, mi pare di aver detto tutto...
Ora son già proiettato sul secondo che farò a settembre: voglio tatuarmi la Tetraktys di Pitagora.

ciao ciao!

lunedì 30 luglio 2012

Test preliminare TFA. Reazioni spontanee all'uscita delle risposte


Dai come cazzo hai fatto a sbagliare la domanda sul 9 Termidoro?? Era Robespierre cazzo!
Kripke vabbè, era una domanda infame e non la sapeva nessuno.
Diodoro Crono? Eh, gliel’ho messo ar culo! Megarico!
Croce? Due su due tiè!
Lutero? Una l’ho presa, l’altra l’ho sbagliata, cazzo!
Spinoza Cartesio Libertinismo Leopardi? Presi! Tutti! Grande!
Hai sbagliato Teodore Roosvelt, però… è vero, cazzo, mi sono confuso.
Apofantico atarassico afasico apodittico? Bè, presi 3 su 4…ho sbagliato solo quel cazzo di apodittico!
Le dieci domande di comprensione del testo? Uhm…se ricordo bene dovrei aver fatto o 10 su 10 o 9 su 10…
I re d’Italia? Cazzo, ho sbagliato Vittorio Emanuele II!
Hai messo 1936 o 1912??? Giuro che non ricordo…spero di non essere stato così coglione da mettere 1912…speriamo…
L’inutile strage? Presa!!!
Il biennio rosso? Preso!!!
La successione spagnola? Sbagliata, porca troja.
Maria Antonietta? Presa!!!
Gli occasionalisti? Presi!!! Afammokk!!!
Averroisti? Presi!!! Afammmokk 2!!!
Quella sulla fuga del re Luigi XVI? Presa!!!
Il Komintern? Preso!! Tiè!
Brest-Litovsk?? Cazzo, avevo un dubbio atroce tra 1917 e 1918…comunque preso!! Gruoss!
Insomma il bilancio?
Bè, Filosofia dovrei aver fatto 23 su 25. Comprensione del testo 9 su 10…Storia qualche cazzata in più…comunque toccando ferro dovrei aver superato la prova...
Aspettiamo i risultati ufficiali.

domenica 29 luglio 2012

The end

La più grande canzone mai scritta cantata e suonata. Chi non conosce i Doors ma che cazz ce campa a fa'?
Signori...Jim Morrison e The Doors!



This is the end
Beautiful friend
This is the end
My only friend, the end

Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end
No safety or surprise, the end
I'll never look into your eyes...again

Can you picture what will be
So limitless and free
Desperately in need...of some...stranger's hand
In a...desperate land

Lost in a Roman...wilderness of pain
And all the children are insane
All the children are insane
Waiting for the summer rain, yeah

There's danger on the edge of town
Ride the King's highway, baby
Weird scenes inside the gold mine
Ride the highway west, baby

Ride the snake, ride the snake
To the lake, the ancient lake, baby
The snake is long, seven miles
Ride the snake...he's old, and his skin is cold

The west is the best
The west is the best
Get here, and we'll do the rest

The blue bus is callin' us
The blue bus is callin' us
Driver, where you taken' us

The killer awoke before dawn, he put his boots on
He took a face from the ancient gallery
And he walked on down the hall
He went into the room where his sister lived, and...then he
Paid a visit to his brother, and then he
He walked on down the hall, and
And he came to a door...and he looked inside
Father, yes son, I want to kill you
Mother...I want to...fuck you all night

C'mon baby, take a chance with us
C'mon baby, take a chance with us
C'mon baby, take a chance with us
And meet me at the back of the blue bus
Doin' a blue rock
On a blue bus
Doin' a blue rock
C'mon, yeah

Kill, kill, kill, kill, kill, kill

This is the end
Beautiful friend
This is the end
My only friend, the end

It hurts to set you free
But you'll never follow me
The end of laughter and soft lies
The end of nights we tried to die

This is the end

giovedì 26 luglio 2012

I miei sogni d'anarchia


Sono in partenza per Milano.
Tanta paura, tanta ansia e tanta sfiducia.
Un amico che non ho mai conosciuto mi aspetta.
Una prova ardua quasi impossibile, gestita male da chi dovrebbe essere invece l'emblema della professionalità e della competenza. Vogliono mortificarmi, ma io glielo metterò nel culo. Come SEMPRE.
Nei momenti difficili ascolto musica, mi sommergo di musica. Stavolta tocca a Rino Gaetano e ai suoi-miei sogni d'anarchia.
Quanti giorni settimane e mesi abbiamo passato sulle panchine dei giardinetti a parlare, sognare, arrabbiraci? Fumo, libri, canzoni, politica...
Vi ho vuluto bene davvero e quei momenti saranno sempre i più veri e sinceri della mia vita. Che malinconia. Tutto quello che è venuto dopo è stato solo un salvarsi il culo mascherato da vita. Predicare bene e razzolare male.
Ti ho amato, maledetta stupida che non sei altro, ma il destino non ha voluto.

E lei viveva nei suoi sogni e la sua voglia di imparare
In fretta il metodo inglese e cucinare e fare l'amore.
Lei impazziva per le ricerche di cosmesi rimmel e maquillage
Le letture Pavese, Ginsberg, De Gregori e fiumi di là
Legato alle tradizioni.
Ma io l'amavo e lei amava me
Nei suoi sogni ritrovavo anche un po' di me.
E lei scopriva ogni giorno il valore del denaro e le conseguenze
Toccava il cielo con un dito e sanava le ferite con la rivoluzione
Ancora i poeti e un nuovo sound delle balere e forse amanti
e il '68 raccontato e le conquiste, le canzoni che dicevano
Io l'amavo e lei amava me
Nei suoi sogni ritrovavo anche un po' di me.
Le bugie, le poesie, i racconti e la paura
L'inflazione, le battaglie l'egoismo della razza,
la stagione dei colori un bicchiere e le memorie
vecchi libri e dischi rock, un sudario e mille storie
le panchine dei viali e le strane fantasie
le bugie, le poesie e le strane cose che
stritolavano il passato il feudalesimo e l'anarchia,
i sogni, l'anarchia i mie sogni d'anarchia...
Io l'amavo e lei amava me

mercoledì 25 luglio 2012

I rospi sono furbi


Madonna santa ma perché le donne sono così isteriche? è una questione genetica, atavica, ancestrale, di retaggio, di autodifesa...perché?
Che poi manco quello è il problema principale.
Ho fatto l'errore di iscrivermi a un gruppo TFA su facebook.
Per dio, una valanga di notifiche di gente che frigna si dispera e caca il cazzo.
La cosa che mi dà più fastidio è la mancanza di una serena ed obiettiva autocritica.
Ma guai se glielo fai notare!
Rompevano le palle su una domanda fatta in un test che riguardava Lou Salomè e Nietzsche.
C'era una donna che si disperava per la difficoltà della domanda.
Io educatamente le ho fatto notare che Nietzsche ha avuto una e una sola donna nella vita (appunto Lou Salomè) e che la loro "storia" (brevemente descritta) si trova in tutti i manuali di storia della filosofia. Spesso nel primo paragrafo.
Volevo insomma distinguere tra domanda difficile e domanda infame.
La domanda infame è quella su AMAFINIO perché Amafinio non è citato neanche nell'indice dei nomi. Cioè Amafinio non compare mai e quindi una domanda su di lui si può definire in un modo solo: INFAMITA'.
La tipa insisteva e blà blà blà, e quindi a un certo punto le ho dato ragione come si fa con i matti perché se non capisci una semplice differenza di grado e se non hai un minimo di autocritica te ne puoi pure andare affanculo.

Son troppo aristocratico per questo mondo e questa società.

lunedì 23 luglio 2012

I numeri e la serenità


Ho deciso di cominciare la lettura di Cervelli di Gottfried Benn.
In realtà non ricordo come sono arrivato a Benn, ma so che fu uno scrittore che pubblicò alcuni saggi molto controversi negli anni ’30 del Novecento e che fu prima osteggiato dai nazisti e poi ignorato quando la Germania fu liberata dagli americani.
Mi sono incuriosito: come fa un artista a stare sul culo ai nazisti e agli anti nazisti? Cioè un po’ come Heidegger che fu controllato e accantonato dai nazisti e poi privato della cattedra e della possibilità di pubblicare i suoi libri dai “liberatori”.
Dovrò indagare con calma perché amo le figure controverse e censurate.
Secondo me, ed è l’istinto che parla, i contemporanei non capiscono quasi mai un cazzo.
Oppure sono un bastian contrario e se uno scrittore è messo da parte e non letto, io lo leggo proprio per quello. Come se volessi differenziarmi.
Comunque stasera ti regalo un modo per ottenere una piccola felicità momentanea: contare.
Ora c'era perfino un quadro appeso alla parete: una mucca su un prato. Una mucca su un prato, pensò; una mucca rotonda, marrone, il cielo e un campo. No, quale indicibile felicità da questo quadro! Eccola là, con le sue quattro zampe, con una, due, tre, quattro zampe, è innegabile; sta con quattro zampe su un prato, e guarda tre pecore, una, due, tre pecore – il numero, come amo i numeri, sono così duri, non si lasciano toccare da nessuna parte, irrigiditi nell’inafferrabilità, sono assolutamente univoci, sarebbe ridicolo voler trovare da ridire qualcosa su di loro; se mai una volta sarò triste, mi ripeterò i numeri; rise allegramente e se ne andò.

venerdì 20 luglio 2012

I grandi cambiamenti

I grandi cambiamenti sono obbligatori.
Pure la persona più disinteressata, più pigra e devota all'inerzia non può sottrarsi ai cambiamenti che avvengono durante il corso della vita.
Anche se stai fermo e immobile senza avere nessuna ambizione o voglia, sei costretto a cambiare, prendere decisioni, addirittura spostarti e mutare radicalmente stile e abitudini di vita.
E accade un fatto strano. Chi vuole cambiare, chi magari non sogna altro e si sbatte tutti i santi giorni magari rimane sempre allo stesso posto a fare sempre le stesse cose.
Perché la vita è buffa, il destino dell'uomo ironico.
Comunque a me interessa che in qualsiasi posto e situazione ci sarà sempre un libro a portata di mano. Non chiedo altro.
E ormai ho capito che mi serve un luogo appartato, tranquillo; alla ricerca di una via di fuga da questo sistema. Devo giocare in difesa.
Non posso stare nello stesso sistema degli uomini BMW o delle donne borsa firmata 10.000 euro.
Io sono diverso; io sono un ospite capitato qui per caso.

giovedì 19 luglio 2012

Paolo Borsellino 19 luglio 1992 - 19 luglio 2012 Due anni di stragi. Vent'anni di trattativa


Per ricordare la strage di via D’Amelio, dove furono uccisi il giudice Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, ho acquistato il cofanetto (libro+dvd) 19 luglio 1992 – 19 luglio 2012 Due anni di stragi. Vent’anni di trattativa uscito con il Fatto Quotidiano.
Il libro contiene articoli sulla vita e la figura di Borsellino, sull’agenda rossa, un ritratto del figlio di Borsellino – Manfredi, il testo teatrale di Alessandra Camassa Noi e loro, uno scritto di Travaglio sulla trattativa tra Stato e mafia, altri articoli sui rapporti Stato-mafia e sulle notizie che stanno uscendo ultimamente sulle presunte interferenze di Napolitano sui giudici di Palermo (che stanno indagando sull’infame trattativa) in favore di Mancino. Il volume si chiude con un’appendice dedicata ai protagonisti della trattativa a cura di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza.
Il dvd, che dura due ore e mezzo, narra la storia degli attentanti di via Capaci e di via D’Amelio, con immagini di repertorio, interventi sia dei protagonisti dell’epoca sia attuali. Interviste a Falcone e Borsellino, a politici, ecc. Non è facile da vedere, sinceramente, perché ti sale una rabbia enorme e un grande senso d’impotenza e di schifo.
Avete il dovere di conoscere la storia di Falcone e Borsellino, per capire dove vivete, lo schifo che vi circonda e per essere più responsabili nella vostra vita e quando andate a votare.
Se non conoscete la vostra storia recente siete semplicemente degli ZERI.
Chiudo con l’articolo di Marco Travaglio, compreso nel libro, del 13 marzo 2012 intitolato significativamente Fate schifo.
Ma interessa ancora a qualcuno sapere perché vent’anni fa è morto Paolo Borsellino con gli uomini di scorta? Sapere perché l’anno seguente sono morte 5 persone e 29 sono rimaste ferite nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze, altre 5 sono morte e altre 10 sono rimaste ferite in via Palestro a Milano, altre 17 sono rimaste ferite a Roma davanti alle basiliche? Interessa a qualcuno tutto ciò, a parte un pugno di pm, giornalisti e cittadini irriducibili? Oppure la verità su quell’orrendo biennio è una questione privata fra la mafia e i parenti dei morti ammazzati?
È questa, al di là delle dotte e tartufesche disquisizioni sul concorso esterno in associazione mafiosa, la domanda che non trova risposta nel dibattito (si fa per dire) seguìto alla sentenza di Cassazione su Marcello Dell’Utri e alle parole a vanvera di un sostituto pg.
O meglio, una risposta la trova: non interessa a nessuno.
A parte i soliti Di Pietro e Vendola, famigerati protagonisti della “foto di Vasto” che va cancellata o ritoccata come ai tempi di Stalin, magari col photoshop, non c’è leader politico che dica: “Voglio sapere”. Anzi, dalle dichiarazioni dei politici che danno aria alla bocca senza sapere neppure di cosa parlano, traspare un corale “non vogliamo sapere”.
Forse perché sanno bene quel che emergerebbe, a lasciar fare i magistrati che vogliono sapere: il segreto che accomuna pezzi di Prima e Seconda Repubblica, ministri e alti ufficiali bugiardi e smemorati, politici, istituzioni, apparati, forze dell’ordine, servizi di sicurezza. Quel segreto che viene violato solo quando proprio non se ne può fare a meno perché mafiosi e figli di mafiosi han cominciato a svelarlo. Quel segreto che ha garantito carriere ai depositari e ai loro complici. Già quel poco che si sa – che poi poco non è – è insopportabile per un sistema che si ostina a raccontarci la favoletta dello Stato da una parte e dell’Antistato dall’altra, l’un contro l’altro armati. La leggenda del “mai abbassare la guardia”, delle “centinaia di arresti e sequestri”, “della linea della fermezza”, del “tutti uniti contro la mafia”, mentre dietro le quinte si tresca con quella per venire a patti, avere voti, usarla come braccio armato e regolare i conti sporchi della politica, rimuovendo un ostacolo dopo l’altro: da Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, giù giù fino a Falcone e Borsellino.
Ora, nel ventennale di Capaci e via D’Amelio, prepariamoci a un surplus di retorica, nastri tagliati, cippi, busti e monumenti equestri, moniti quirinalizi, lacrime tecniche e sobrie, corone di fiori delle alte cariche dello Stato (anche del presidente del Senato indagato per concorso esterno che spiega all’Annunziata la sua teoria di giurista super partes sul concorso esterno senza neppure arrossire). Sfileranno in corteo trasversale quelli che -come da papello – han chiuso Pianosa e Asinara, svuotato il 41-bis facendo finta di stabilizzarlo come da papello, abolito i pentiti per legge, tentato di abolire pure l’ergastolo, regalato ai riciclatori mafiosi tre scudi fiscali.
Quelli che han detto “con la mafia bisogna convivere” e ci sono riusciti benissimo. Casomai interessasse a qualcuno, i disturbatori della quiete pubblica riuniti nell’Associazione vittime di via dei Georgofili, guidata da una donna eccezionale, Giovanna Maggiani Chelli, hanno appena reso noto la sentenza con cui la Corte d’assise di Firenze ha mandato all’ergastolo l’ultimo boss stragista, Francesco Tagliavia. “Una trattativa – scrivono i giudici – indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Dopo il concorso esterno, se ci fosse un po’ di giustizia, la Cassazione dovrebbe abolire anche la strage. Oppure unificare i due reati in uno solo, chiamato “schifo”.

mercoledì 18 luglio 2012

Macchine desideranti [appunti meravigliosi 2]


Tutte le civiltà, tutte le età hanno conosciuto una fine della storia – ciò non prova nulla, né è necessariamente liberatorio. Quanto agli eccessi, o ai momenti di festa, nemmeno loro sono rassicuranti. Ci sono militanti rivoluzionari che avvertono un senso di responsabilità e dicono sì agli eccessi «nel primo stadio della rivoluzione», ma c’è un secondo stadio, l’organizzazione, il funzionamento, le cose serie... Non c’è desiderio liberato in semplici momenti di festa.
Prendiamo la discussione tra Victor e Foucault, apparsa in Les Temps modernes, sui maoisti. Victor approva gli eccessi, ma per il «primo stadio». Quanto al resto, quanto alle cose concrete, Victor reclama un nuovo apparato statale, nuove norme, una giustizia popolare con tribunali, un’istanza esterna alle masse, un soggetto terzo capace di risolvere le contraddizioni tra le masse. Si ritrova sempre il vecchio schema: il distacco di una pseudo avanguardia capace di fare sintesi, di formare un partito come un embrione di apparato statale, di far emergere una classe operaia ben allevata, ben educata; e il resto è residuale, un lumpen proletariat di cui si dovrebbe sempre diffidare (la solita vecchia condanna del desiderio). Ma queste stesse distinzioni sono un modo di piegare il desiderio a vantaggio di una casta burocratica.
Foucault reagisce denunciando il soggetto terzo, affermando che se c’è giustizia popolare, essa non passa attraverso un tribunale. Egli dimostra molto bene che la distinzione «avanguardia-proletariato-plebe non proletarizzata» è innanzitutto una distinzione proposta dalla borghesia alle masse, e di cui essa si serve per soffocare i fenomeni del desiderio, per marginalizzare il desiderio. Tutta la questione sta nell’apparato statale.
Sarebbe bizzarro contare su un partito o un apparato di Stato per la liberazione dei desideri. Richiedere una giustizia migliore è come richiedere migliori giudici, migliori poliziotti, migliori padroni, una Francia più pulita ecc. E allora ci dicono: come volete unificare delle lotte settoriali senza un partito? Come far funzionare la macchina senza un apparato statale? Che la rivoluzione abbia bisogno di una macchina da guerra, è evidente, ma questa non è un apparato statale. Che essa abbia bisogno di un’istanza analitica, un’analisi dei desideri delle masse, è altrettanto certo, ma non è un apparato esterno di sintesi. Dire "liberato" non significa che il desiderio sfugge dall’impasse della fantasia individuale privata: non si tratta di adattarlo, socializzarlo, disciplinarlo, ma di innestarlo in modo tale che il suo processo non sia interrotto in un corpo sociale e che produca degli enunciati collettivi. Ciò che conta non è l’unificazione autoritaria, ma piuttosto una sorta d’infinita propagazione: i desideri nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, negli asili nido, nelle prigioni ecc. Non si tratta di controllare, di totalizzare, ma di entrare nello stesso piano di oscillazione. Finché si oscilla tra lo spontaneismo impotente dell’anarchia e il codice burocratico e gerarchico di un’organizzazione di partito, non c’è liberazione del desiderio.
Il capitalismo è stato e rimane una formidabile macchina desiderante.
I flussi di denaro, i mezzi di produzione, la manodopera, i nuovi mercati, tutto questo costituisce un prodotto del desiderio. Basta considerare l’insieme dei casi che sono all’origine del capitalismo per vedere a che punto esso sia stato un crocevia di desideri, e come la sua infrastruttura e persino la sua economia fossero inseparabili dal fenomeno dei desideri. E anche il fascismo bisogna dire che «si è fatto carico dei desideri sociali», inclusi i desideri di repressione e di morte.
Le persone si infiammarono per Hitler, per la stupenda macchina fascista. Ma se ci domandiamo se il capitalismo ai suoi inizi è stato rivoluzionario, se la rivoluzione industriale abbia mai coinciso con una rivoluzione sociale, dobbiamo dire che non ci sembra. Il capitalismo è stato legato fin dalla nascita a una repressione selvaggia, ha avuto subito la sua organizzazione di potere e il suo apparato di Stato. Che il capitalismo abbia implicato una dissoluzione dei codici e dei poteri precedenti, questo sì. Ma aveva già costruito nelle crepe dei precedenti regimi gli ingranaggi del suo potere, compreso il suo potere di Stato. È sempre così: le cose non sono così progredite; ancora prima che una formazione sociale sia insediata, i suoi strumenti di sfruttamento e di repressione sono già lì, che girano ancora a vuoto, ma pronti a funzionare a pieno ritmo. I primi capitalisti erano come uccelli rapaci in agguato. Attendono il loro incontro con il lavoratore che scivola giù per crepe del sistema precedente. È, in ogni senso, ciò che si chiama accumulazione primaria.
In un momento della storia, la borghesia sarebbe rivoluzionaria, e lo sarebbe stata anche necessariamente, era necessario passare attraverso uno stadio del capitalismo, attraverso uno stadio della rivoluzione borghese. È un discorso stalinista, ma non serio.
Quando una formazione sociale si esaurisce e frana da tutte le parti, ogni cosa si decodifica, ogni flusso non controllato si mette a scorrere – come ad esempio la fuga dei contadini nell’Europa feudale, i fenomeni di «deterritorializzazione».
La borghesia impone un nuovo codice, economico e politico, e dunque si può credere che sia stata rivoluzionaria. Ma non è affatto così. Sulla Rivoluzione del 1789 Daniel Guérin ha detto delle cose profonde. La borghesia non ha mai avuto dubbi su quale fosse il suo vero nemico. Il suo vero nemico non era il sistema precedente, ma ciò che sfuggiva al suo controllo e che essa si dava il compito di controllare a sua volta. Essa stessa doveva la propria potenza alla caduta dell’antico sistema; ma questa potenza poteva esercitarla solo nella misura in cui considerava come nemici tutti i rivoluzionari del vecchio sistema. La borghesia non è mai stata rivoluzionaria. La rivoluzione, essa, l’ha fatta fare ad altri. Ha manipolato, arginato e represso un’enorme pulsione di desiderio popolare. Le persone sono andate a farsi uccidere a Valmy.
Da dove vengono queste pressioni, queste sollevazioni, questi entusiasmi che non si spiegano con una razionalità sociale e che sono deviate, catturate dal potere nel momento stesso in cui nascono? Non si può dar conto di una situazione rivoluzionaria con la semplice analisi degli interessi a confronto.
Nel 1903, il partito socialdemocratico russo discute di alleanze, di organizzazione del proletariato, del ruolo dell’avanguardia. All’improvviso, mentre pretende di preparare la rivoluzione, è messo in crisi dagli eventi del 1905 e deve gettarsi su un treno in corsa. Ciò che è accaduto è una cristallizzazione del desiderio a livello sociale sulla base di situazioni ancora incomprensibili. La stessa cosa è accaduta nel 1917. Anche in questo caso i politici hanno ripreso il treno in corsa, riuscendo a raggiungerlo.
Ma nessuna tendenza rivoluzionaria ha saputo o voluto assumere il bisogno di un’organizzazione di consigli, che avrebbe potuto permettere alle masse di farsi realmente carico dei loro interessi e dei loro desideri. Si sono messe in circolazione delle macchine, dette organizzazioni politiche, che funzionavano sul modello elaborato da Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale – alternanza di fronti popolari e di concentrazioni settarie – e che giunsero ancora allo stesso risultato repressivo. Lo si è visto nel 1936, nel 1945, nel 1968.
Volutamente anche assiomatiche, queste macchine di massa si rifiutano di liberare l’energia rivoluzionaria. È, subdolamente, una politica paragonabile a quella del presidente della Repubblica o dei preti, ma con la bandiera rossa in mano. E noi pensiamo che ciò corrisponda a una certa posizione nei confronti del desiderio, a un modo profondo di considerare l’io, la persona, la famiglia. Da qui un dilemma molto semplice: o si perviene a un nuovo tipo di strutture che alla fine portano alla fusione dei desideri collettivi e dell’organizzazione rivoluzionaria, o si continua sull’onda presente e, di repressione in repressione, si arriverà a un fascismo rispetto al quale Hitler e Mussolini sembreranno uno scherzo da ragazzi.
L’organizzazione rivoluzionaria deve essere quella di una macchina da guerra e non di un apparato statale, un analizzatore del desiderio e non una sintesi esterna. In ogni sistema sociale vi sono sempre delle linee di fuga; e poi anche degli irrigidimenti per impedire queste fughe, o (il che non è la stessa cosa) degli apparati ancora embrionali che le integrano, le deviano, le arrestano, in un nuovo sistema in preparazione. Occorrerebbe analizzare le crociate da questo punto di vista. Ma rispetto a tutto questo, il capitalismo ha un carattere molto particolare: le sue linee di fuga non sono solo difficoltà che sopraggiungono, ma condizioni del suo esercizio. È costituito su una decodificazione generalizzata di tutti i flussi, flussi di ricchezza, di lavoro, di linguaggio, di arte ecc. Non ha ricostruito un codice, ha costituito uno spazio di compatibilità, un’assiomatica dei flussi decodificati, alla base della sua economia. Lega i punti di fuga e riparte in avanti.
Allarga sempre i propri limiti, e si trova sempre nella situazione di dover arginare le nuove fughe, sulla base di nuovi limiti. Non ha risolto nessuno dei suoi problemi fondamentali, non riesce nemmeno a prevedere quale sarà, nell’arco di un anno, l’aumento della massa monetaria di un paese. Non cessa di superare i suoi limiti, che riappaiono più lontano. Si mette in situazioni incredibili in rapporto alla sua produzione, alla sua vita sociale, alla sua demografia, alla sua periferia del terzo mondo, alle sue regioni interne ecc. Fughe ve ne sono ovunque, che rinascono sempre dai limiti spostati dal capitalismo. E forse la fuga rivoluzionaria (la fuga attiva, quella di cui parla Jackson quando dice: «non smetto di fuggire, ma fuggendo, cerco un’arma...») non è affatto la stessa cosa di altri tipi di fughe, la fuga schizo, la fuga tossico. Ma questo è proprio il problema dei marginali: fare in modo che le linee di fuga si innestino su un piano rivoluzionario. Nel capitalismo c’è dunque un carattere nuovo assunto dalle linee di fuga, e anche potenzialità rivoluzionarie di un nuovo tipo. Come vedete, non ci resta che sperarlo.
La schizofrenia è indissociabile dal sistema capitalistico, esso stesso concepito come una prima fuga: una malattia esclusiva. In altre società, la fuga e la marginalità assumono altri aspetti. L’individuo sociale delle società cosiddette primitive non si fa rinchiudere. La prigione e l’asilo sono nozioni recenti. Lo si caccia, lo si esilia al margine del villaggio e ne muore, a meno che non si integri nel villaggio vicino. Ogni sistema ha del resto la sua malattia particolare: l’isteria delle società cosiddette primitive, le manie depressivo-paranoiche nel grande Impero...
L’economia capitalista procede attraverso decodificazioni e deterritorializzazioni: ha i suoi malati estremi, cioè gli schizofrenici che si decodificano e deterritorializzano al limite, ma anche le sue estreme conseguenze, le rivoluzioni.

martedì 17 luglio 2012

Macchine desideranti [appunti meravigliosi 1]


Le opere di Deleuze e Guattari sono, per me, esperienze imperdibili e indimenticabili. Considero L’antiEdipo e Millepiani testi fondamentali per capire il nostro tempo e la nostra società. Senza dimenticare poi il volume Che cos’è la filosofia? che consiglio vivamente come splendido protrettico filosofico. Posto questi appunti meravigliosi che affrontano vari argomenti: il desiderio, il capitalismo, la rivoluzione, la borghesia, il ’68, la politica, l'ideologia, ecc.
Godete.
«Non c’è nessuna operazione, nessun meccanismo industriale o finanziario che non riveli la follia della macchina capitalistica e il carattere patologico della sua razionalità (non una falsa razionalità, ma una vera razionalità di questa patologia, di questa pazzia, perché la macchina funziona, siatene certi). Non c’è pericolo che questa macchina impazzisca, lo è fin dall’inizio, ed è in questa pazzia che trova la sua razionalità».
Deleuze e Guattari non impieghiano i termini «normale» o «anormale». Tutte le società sono allo stesso tempo razionali e irrazionali.
Sono necessariamente razionali nei loro meccanismi, nei loro ingranaggi, nei loro sistemi di connessione, e anche per il posto che assegnano all’irrazionale. Però tutto questo presuppone codici o assiomi che non sono il prodotto del caso, ma nemmeno sono intrinsecamente razionali. È come per la teologia: è tutto completamente razionale se si accetta il peccato, l’immacolata concezione, l’incarnazione. La ragione è sempre uno spazio ritagliato dall’irrazionale, mai definitivamente al riparo dall’irrazionale, ma attraversato da esso, e definito soltanto da determinati rapporti tra fattori irrazionali. Sotto ogni ragione cova il delirio, la deriva. Tutto è razionale nel capitalismo, tranne che il capitale o il capitalismo stesso. Un meccanismo borsistico è completamente razionale, si può capirlo, studiarlo, i capitalisti sanno come servirsene, eppure è completamente delirante, folle.
È in questo senso che dicono: il razionale è sempre la razionalità di un irrazionale.
C’è una cosa che non è stata abbastanza sottolineata nel Capitale di Marx, ovvero sino a che punto egli sia affascinato dai meccanismi capitalistici, proprio perché sono demenziali eppure al tempo stesso funzionano benissimo. Allora, che cos’è razionale in una società? È il modo in cui le persone perseguono e cercano di realizzare i propri interessi, essendo questi interessi definiti nel quadro di questa società. Ma sotto vi sono desideri, investimenti di desideri, che non si confondono con gli investimenti d’interesse, e dai quali gli interessi dipendono nella loro determinazione e distribuzione: un enorme flusso, ogni sorta di flusso libidinale-inconscio che costituisce il delirio di questa società.
La storia vera è la storia del desiderio.
Un capitalista o un moderno tecnocrate non desiderano allo stesso modo di un mercante di schiavi o di un funzionario dell’antico impero cinese.
Che le persone in una società desiderino la repressione, per gli altri e per se stesse, che vi siano sempre delle persone che vogliono rompere le palle ad altre e che abbiano la possibilità di farlo, il «diritto» di farlo, è questo che mette in luce il problema di un legame profondo tra il desiderio libidinale e la sfera sociale. Un amore «disinteressato» per la macchina oppressiva: Nietzsche ha detto cose magnifiche su questo permanente trionfo degli schiavi, su come gli afflitti, gli avviliti e i deboli impongano il loro modo di vita su tutti noi.
Nel capitalismo, il delirio e l’interesse, o il desiderio e la ragione, si distribuiscono in modo completamente nuovo, particolarmente «anormale». Il denaro, il capitale-denaro, è a un tale livello di follia che in psichiatria non c’è che un equivalente: lo stadio terminale.
In altre società c’è sfruttamento, ci sono anche scandali e segreti, ma ciò fa parte del «codice», ci sono persino codici dichiaratamente segreti. Con il capitalismo è molto diverso: nulla è segreto, almeno in linea di principio e stando al codice (è per questo che il capitalismo è «democratico» e fa appello alla «pubblicità», anche in senso giuridico). E tuttavia nulla è confessabile. È la stessa legalità a non essere confessabile. In contrapposizione alle altre società, questo regime è fondato su ciò che è pubblico e, al tempo stesso, inconfessabile. Un delirio assolutamente particolare connesso al regime del denaro. Consideriamo gli odierni cosiddetti scandali: i giornali ne parlano molto, tutti fanno finta di difendersi o di attaccare, ma difficilmente si potrebbe trovare qualcosa che il regime capitalista consideri illegale. La dichiarazione dei redditi di Chaban, le operazioni immobiliari, i gruppi di pressione e, più in generale, i meccanismi economici e finanziari del capitale, tutto, insomma, è legale in grande, tranne qualche piccola irregolarità, e ciò che più conta, tutto è pubblico, anche se nulla è confessabile. Se la sinistra fosse «ragionevole», si accontenterebbe di divulgare i meccanismi economici e finanziari. Non c’è bisogno di rendere pubblico quel che è privato, ci si potrebbe accontentare che quel che è già pubblico sia confessato pubblicamente. Ci si trova in uno stato di follia che non ha pari negli ospedali. Invece, si parla di «ideologia». Ma l’ideologia non ha affatto importanza: ciò che importa non è l’ideologia, né la distinzione o l’opposizione «economico-ideologica», ma l’organizzazione del potere. Perché l’organizzazione del potere è il modo in cui il desiderio è già nell’economia, in cui la libido investe la sfera economica, pervade l’economia e alimenta forme politiche di repressione.
Dire «l’ideologia è una falsa apparenza» è ancora la tesi tradizionale. Si mette da una parte l’infrastruttura, l’economia, ciò che è concreto, e dall’altra la sovrastruttura, di cui l’ideologia fa parte, e si respingono i fenomeni del desiderio nell’ideologia. È un buon modo per non vedere come il desiderio influenzi l’infrastruttura, come l’investa, come ne faccia parte, come a questo titolo organizzi il potere e il sistema repressivo. Noi bisogna dire: l’ideologia è una falsa apparenza (o un concetto che indica determinate illusioni). È per questo motivo che essa conviene così bene al Partito comunista e al marxismo ortodosso. Il marxismo ha dato tanta importanza al tema delle ideologie per meglio nascondere ciò che stava avvenendo in Urss: una nuova organizzazione del potere repressivo. Non c’è ideologia, ci sono solo organizzazioni di potere, una volta ammesso che l’organizzazione del potere è l’unità del desiderio e dell’infrastruttura economica. Prendiamo due esempi. L’insegnamento: nel maggio ’68 la sinistra ha perso un sacco di tempo a reclamare che i professori si impegnassero in pubbliche autocritiche circa il loro ruolo di agenti dell’ideologia borghese. È stupido, e del resto alimenta gli impulsi masochistici dei professori. La lotta contro la selezione è stata abbandonata a vantaggio della disputa o della grande pubblica confessione anti-ideologica. Nel frattempo, i professori più conservatori non ebbero difficoltà a riorganizzare il loro potere. L’istruzione non è un problema ideologico, ma di organizzazione del potere: è la specificità del potere educativo che lo fa sembrare un’ideologia, ma è pura illusione. Il potere nella scuola primaria, che significa qualche cosa, opprime tutti i bambini. Secondo esempio: il cristianesimo.
La Chiesa è assolutamente contenta quando la si tratta come un’ideologia. Può discutere, ciò alimenta l’ecumenismo. Ma il cristianesimo non è mai stato un’ideologia, è un’organizzazione del potere molto originale, molto specifica, che ha assunto diverse forme fin dall’Impero romano e dal Medioevo e ha saputo elaborare l’idea di un potere internazionale. È molto più importante dell’ideologia.
Consideriamo come riferimento il desiderio in uno dei suoi stati più critici, più acuti, quello dello schizofrenico – lo schizofrenico che può produrre qualcosa, al di qua o al di là dell’orizzonte dello schizofrenico segregato, annichilito dai farmaci e dalla repressione sociale. Ci sembra che certi schizofrenici esprimano direttamente una libera decifrazione del desiderio. Ma come concepire una forma collettiva di economia desiderante? Certo non a livello locale. È difficile immaginare una piccola comunità liberata, salda contro le alte maree della società repressiva, come la somma di individui emancipati uno a uno. Se il desiderio costituisce invece la trama stessa della società nel suo insieme, compresi i suoi meccanismi di riproduzione, un movimento di liberazione si può «cristallizzare» nella società nel suo complesso. Nel maggio ’68, le scintille degli scontri locali si sono improvvisamente propagate all’intera società, inclusi i gruppi che non avevano niente a che vedere con il movimento rivoluzionario – medici, avvocati o droghieri. Tuttavia, furono gli interessi a prevalere, ma dopo un mese di fuoco. Stiamo andando verso esplosioni di questo tipo, ma ancora più radicali.

lunedì 16 luglio 2012

Delle tre metamorfosi


Dopo il prologo, Così parlò Zarathustra si apre con il discorso Delle tre metamorfosi.
Metamorfosi del pensiero e del pensatore; temi molto cari a Nietzsche che ne scrisse più volte nei suoi libri – basta leggere, per fare due esempi, Crepuscolo degli idoli e Umano, troppo umano che è dedicato a una figura di pensatore particolare: lo spirito libero.
La prima figura di questa triplice metamorfosi è il cammello, la docile e paziente bestia da soma.
Il cammello rappresenta lo scolaro, l’alunno; il cammello deve seguire un certo numero di anni di discepolato che toccano a chiunque voglia incamminarsi sulla strada della conoscenza. Il cammello è l’umile animale che si carica degli insegnamenti e delle parole dei maestri e dei professori. Si fa vuoto per poter apprendere tutte le conoscenze che gli vengono impartite. Diventa una creta da plasmare.
Quindi, in realtà, tutti gli "spiriti anelanti" nascono cammelli e non smettono mai di esserlo visto che non smettono mai di aver voglia di imparare e di ascoltare chi è più esperto e ne sa più. Rimanere sempre e solo cammello, però, non è una buona cosa. Vorrebbe dire rimanere sempre uno zero, non acquisire quella indispensabile indipendenza che è il vero frutto dell’insegnamento. Bisogna pur camminare con le proprie gambe, no? Diciamo che tutti siamo cammelli e che molti restano tali. Quando parlo con qualcuno, capisco subito se ho di fronte un cammello; sono esseri buoni e simpatici ma non hanno il mio amore.
Che cosa succede al cammello? Il cammello, che si è incamminato sulla strada della conoscenza, all’improvviso si trova tutto solo nel deserto col suo pesante fardello. Qui lo spirito diventa leone, un leone che vuole la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Nel deserto il leone trova un grande drago che vuole imporsi come signore e nuovo dio, che egli vuol combattere per la vittoria.
Chi è il drago che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? ‘Tu devi’ si chiama il drago; ma lo spirito del leone dice ‘io voglio’. ‘Tu devi’ gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro ‘tu devi!’
Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il drago: “Tutti i valori delle cose – risplendono su di me. Tutti i valori sono già stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun ‘io voglio’!”. Così parla il drago.
Perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? Creare nuovi valori – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, è necessario il leone.
Prendersi il diritto per valori nuovi – questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa più sacra il ‘tu devi’: ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.
Il passaggio da cammello a leone è necessario, così com’è necessaria la voglia di non essere sempre guidato e assistito e la voglia di fare da solo. Il leone è l’animale impavido e coraggioso che lotta per crearsi uno spazio d’azione. Attenzione, però. Un leone dev’essere stato prima cammello, deve cioè aver fatto (diciamo così) la gavetta. Ci sono alcuni che vogliono fare direttamente i leoni senza aver mai imparato e seguito un cazzo. Questi qui rischiano di essere solo dei minchioni rompi palle che non approdano mai a niente. Degli urlatori isterici e inconcludenti.
Dopo il leone, l’ultima figura è il fanciullo.
Che cosa sa fare il fanciullo che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare fanciullo?
Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola (“Nulla vi è che ti muova – tu stesso sei la ruota, che corre da sé e non ha posa”, Angelus Silesius), un primo moto, un sacro dire sì.
Sì, per il gioco della creazione occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.
Per concludere, lo spirito di chi è sulla strada della conoscenza deve farsi cammello, diventare leone e rinascere, infine, come fanciullo.

domenica 15 luglio 2012

Anarchismo


L’anarchia non è brutta e cattiva ma nobile e bella.
Purtroppo non ce la possiamo permettere non perché l’anarchia sia un’utopia o una chimera inapplicabile, ma perché presuppone un’intelligenza, una "qualità" spirituale, un’educazione, una moderazione e una saggezza che l’uomo (mediamente) non ha.
L’uomo produce capi e gerarchie e non può farne a meno.
L’anarchia, come dice la parola stessa, è contro gli arché (ἀρχή) cioè gli arconti, i comandanti, l’organizzazione repressiva, il potere, il sistema e tutti i principi della società organizzata e soffocante. L’anarchia non fa guerre né attentanti (parole orrende); propugna solo idee diverse da quelle comunemente accettate, cioè sogna la rivoluzione (attitudine meravigliosa).
Oggi, diamo una definizione di ANARCHISMO come primo contributo a questo gioioso concetto umano.

L’anarchismo è la dottrina secondo la quale l’individuo è la sola realtà, che dev’essere assolutamente libero e che ogni costrizione esercitata su di lui è illegittima: donde deriva l’illegittimità dello Stato.
La nascita dell’anarchismo si suole attribuire a Proudhon la cui principale preoccupazione fu di mostrare che la giustizia non può essere imposta all’individuo ma è invece una facoltà dell’io individuale, il quale, senza uscire dal suo foro interiore, sente la dignità della persona del prossimo come la sua propria e pertanto si adegua alla realtà collettiva pur conservando la sua individualità. Proudhon vorrebbe che lo Stato fosse ridotto alla riunione di più gruppi formati ciascuno per l’esercizio di una funzione speciale e poi riuniti sotto una legge comune ed un identico interesse. Questo ideale presuppone l’abolizione della proprietà privata che, in un celebre scritto, egli definiva “un furto”.
Per quanto riguarda la filosofia, il maggior teorico dell’anarchismo fu Max Stirner autore della meravigliosa opera L’unico e la sua proprietà. La tesi fondamentale di Stirner è che l’individuo è l’unica realtà e l’unico valore, e pertanto è la misura di tutto. Subordinarlo a Dio, all’umanità, allo Stato, allo spirito, ad un qualsiasi ideale, sia pure quello stesso dell’uomo, è impossibile giacché ciò che è diverso dall’io singolo e gli si contrappone, è uno spettro di cui egli finisce per essere schiavo.
Da questo punto di vista, l’unica forma di convivenza sociale è un’associazione priva di ogni gerarchia in cui l’individuo entra per moltiplicare la sua forza e che per lui è solo un mezzo. Questa forma di associazione può nascere solo dal dissolvimento della società attuale, che è per l’uomo lo stato di natura, e può essere solo il risultato di un’insurrezione che riesce ad abolire ogni costituzione statale.
In questa brevissima passerella non può mancare Michail Bakunin che nei suoi scritti pose l’accento sul carattere rivoluzionario dell’anarchismo. In Dio e lo Stato affermò la necessità di distruggere tutte le leggi, le istituzioni e le credenze esistenti (prossimamente parlerò dell’opera Stato e anarchia).
La tesi anarchica della contrapposizione netta e radicale tra tutti gli ordinamenti politici e sociali esistenti, considerati come il male stesso, e il nuovo ordinamento libertario da venire, considerato come il bene totale, è stata di nuovo ripresentata, nel Novecento, da Gustav Landauer in La rivoluzione (altra opera da approfondire prossimamente).

sabato 14 luglio 2012

Rivoluzione francese. Breve prologo e Terzo stato

Breve prologo

La Rivoluzione francese scoppiò soprattutto per l’incapacità di risolvere una crisi finanziaria che attanagliò pesantemente la Francia nel XVIII secolo.
L’indebitamento statale aveva raggiunto da tempo dimensioni tali da esigere l’adozione di energici provvedimenti e il re e i suoi ministri avevano più volte proposto la tassazione dei ceti privilegiati.
Nell’ordinamento tradizionale del regno, il clero e la nobiltà erano esonerati dalle contribuzioni ordinarie per motivazioni che risalivano al medioevo (bellatores e oratores) e che ora non avevano più ragion d’essere visto che l’esercito era pagato in massima parte dallo Stato e la Chiesa era sotto accusa per i suoi vergognosi privilegi.
A più riprese ministri come l’economista Turgot agli inizi del regno di Luigi XVI (1774-1176) e in seguito Necker, Calonne, Loménie de Brienne si erano misurati con progetti di riforma finanziaria e fiscale, ma ogni volta la resistenza dei Parlamenti e dei ceti privilegiati avevano prevalso.
In assenza degli Stati generali (l’assemblea generale dei tre ordini del regno), che non erano più stati convocati dal 1614, il Parlamento di Parigi si era infatti arrogato il ruolo di rappresentante della nazione e si contrapponeva al re e alle sue pretese. E Luigi XVI non aveva né il prestigio per trovare il consenso a una riforma fiscale né la forza per imporla.
Nell’estate del 1787 cominciò a prendere corpo la richiesta di affidare la soluzione della questione fiscale all’unico organo costituzionalmente legittimato a farlo, gli Stati generali. I mesi successivi videro una progressiva mobilitazione politica della società e dei corpi sociali che costrinse il re (agosto 1788) alla convocazione degli Stati generali per il maggio 1789.

Terzo stato

Il Terzo stato raccoglieva indistintamente tutti i francesi che non erano né nobili né ecclesiastici: la grande borghesia dei commerci, delle manifatture e della finanza, la borghesia media delle professioni e della cultura, gli artigiani e i lavoratori urbani, i proprietari medi e piccoli, infine i contadini e i braccianti rurali. Su una popolazione totale di 24-25 milioni, il Terzo stato rappresentava in percentuale il 98%. Meno di 400.000 erano i nobili (1,5%), mentre il clero contava forse 130.000 unità (0,5%) fra basso e alto clero, secolari e regolari (rispettivamente parroci e prelati, sacerdoti e appartenenti agli ordini monastici). La popolazione era, in stragrande maggioranza (20 milioni di persone), insediata nelle campagne: quella francese era la struttura tipica della società di ancien régime.
Finanzieri e banchieri erano le figure di maggior prestigio della borghesia. Ma più importanti si riveleranno nelle successive vicende politiche gli uomini di legge, gli avvocati soprattutto, cresciuti alle dispute legate al complesso contenzioso feudale: uomini colti, partecipi di quel dinamismo culturale che caratterizzava la società dei Lumi. Alla vigilia della Rivoluzione, nelle file del Terzo stato, la Francia contava un numeroso personale politico potenziale.
Le élites del Terzo stato cominciarono a rivendicare la riforma degli antichi criteri di rappresentanza e delle procedure di voto dell’assemblea degli Stati. Era infatti previsto che la stragrande maggioranza della nazione esprimesse lo stesso numero di deputati del clero e della nobiltà e che si votasse per ordine e non per testa, con l’attribuzione, cioè, di un unico voto collegiale a ciascuno degli ordini, che escludeva la libera espressione della volontà individuale del singolo deputato: in questo modo l’alleanza fra i ceti privilegiati avrebbe potuto prevalere sistematicamente sul Terzo stato.
Il re concesse in dicembre il raddoppio dei membri del Terzo stato, ma lasciò irrisolto il problema fondamentale del sistema di votazione.
Portatore delle richieste di raddoppio e di una diversa procedura di voto fu il partito nazionale o patriota, raggruppamento eterogeneo di intellettuali e pubblicisti del Terzo stato, nel quale confluirono anche nobili illuminati ed esponenti del clero. Il “partito nazionale” fu l’espressione dell’opinione pubblica illuminate e liberale, dei suoi strumenti di comunicazione (giornali, pamphlets, circoli, logge massoniche, ecc.) e di un programma mirante all’eguaglianza politica, al governo rappresentativo, al benessere del popolo.

La formulazione più efficace e celebre delle ambizioni del Terzo stato fu quella espressa nel pamphlet degli inizi del 1789 Qu’est-ce que le Tiers Etat? dell’abate Emmanuel-Joseph Sieyès:
“Che cos’è il Terzo stato? Tutto. Che cos’ha rappresentato finora nell’ordinamento pubblico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualcosa”.
Per Sieyès la nazione s’identificava con i ceti produttivi e dunque con il Terzo stato, mentre la nobiltà era “assolutamente estranea alla nazione per la sua fannullaggine”.
Ma il quadro più ampio delle aspettative del Terzo stato e degli altri corpi e strati sociali fu quello fornito dai cahiers de doléance (“quaderni di lagnanze”), documenti che raccoglievano le rimostranze e le proposte espresse a livello locale. Redatti in seguito alla consultazione promossa dal sovrano per la riunione degli Stati generali, i cahiers furono, insieme all’elezione dei rappresentanti, il momento più significativo e capillare della mobilitazione politica e l’espressione più estesa del malessere della Francia.
La monarchia aspirava essenzialmente a realizzare un’amministrazione più efficiente, i tre ordini rivendicavano invece alle assemblee elettive la definizione delle imposte e si opponevano all’assolutamente regio. Ma se clero e nobiltà si pronunciavano per il mantenimento della società d’ordini, il Terzo stato sosteneva l’uguaglianza giuridica, l’abolizione dei privilegi e della venalità degli uffici insieme all’adozione del criterio del merito e del talento come forma di promozione sociale.

venerdì 13 luglio 2012

Dialogo fra Crepafame e Succhiasangue

Dopo aver scritto un bellissimo Compendio al Capitale di Marx (di cui parlerò), Carlo Cafiero compose, a mo’ di conclusione, il Dialogo fra Crepafame e Succhiasangue.

È il giorno del mercato e tra la folla dei venditori e dei compratori scorgiamo un uomo che non esiteremo a riconoscere, un uomo conosciuto nel suo villaggio col nome di Crepafame. Egli non è qui venuto certamente per comprare; e quanto a vendere, non ha che le sue braccia.
Ecco un individuo di aspetto molto decente che gli si avvicina. Ah è il signor Succhiasangue, quel fallito che un’eredità ha testé salvato dalla miseria. Appressiamoci, e sentiamo un po’ di che si tratta.
Succhiasangue – Ehi brav’uomo, siete disposto ad Impiegarvi?
Crepafame – Pronto al vostro servizio, signore.
Succhiasangue – Che prezzo volete per la vostra giornata?
Crepafame – Cinque franchi, signore.
Succhiasangue – Troppo, caro mio, ve ne offro tre.
Crepafame – Ma, signore, come si fa a vivere con tre franchi al giorno?
Succhiasangue – Potete vivere perfettamente. Il prezzo che vi offro è proprio quanto ci vuole per mantener voi e la vostra famiglia; questo è oggi l’esatto prezzo della forza lavoro che voi mi vendete, e voi non potete pretendere per la vostra merce più di quanto essa vale, più di quanto domandano gli altri. Io del resto, non sono uso a stiracchiare per defraudare la mercede all’operaio. Se volete venire per tre franchi è bene, altrimenti mi provvederò altrove.
Crepafame – Ma, signore, osservate che col mio lavoro io vi produrrò più di cinque franchi al giorno.
Succhiasangue – Ah! Eccoci alle solite storie. Voialtri operai volete sempre immischiarvi nei fatti che non vi riguardano, nelle cose che non capite punto.
Che diritto avete voi di venire a vedere che uso farò io della vostra forza lavoro? Voi mi vendete la vostra merce, io ve la pago al suo giusto prezzo, e non avrò il diritto di farne l’uso che mi pare? Viene forse il droghiere a vedere che uso farò io dello zucchero e del pepe che ho comprato nella sua bottega? Sì, sì, io lucrerò sull’uso della vostra forza lavoro; ma quando vi lucrassi un milione voi non avreste niente a vederci.
Oh bella! Ma credete ch’io voglia impiegarvi pei vostri begli occhi? Certamente che profitterò sull’uso della merce che compro da voi; è per questo appunto che voglio comprarla. Si sa che la forza di lavoro rende più di quanto costa; ed è appunto per ciò che il capitalista la cerca e che voi trovate il vostro posto nell’armonia degli interessi… Via chè vado io perdendo il tempo per spiegare a voi queste cose?... Se accettate bene, se no, cerco un altro.
Crepafame – Sì, accetto, signore. Ditemi dove devo recarmi e sono al vostro servizio.
Succhiasangue – Bene, seguitemi.
“L’uomo del denaro prende la precedenza, e, in qualità di capitalista, comincia per il primo; il possessore della forza di lavoro gli tiene dietro come lavoratore che gli appartiene: quegli, dallo sguardo furbo e dall’aspetto altero ed affaccendato; questi, timido, esitante, restio, come chi, avendo portato la propria pelle al mercato, non può aspettarsi ormai che una cosa sola: essere conciato”.
(Marx, Il Capitale, Capitolo VI)
Tale è il prologo del nostro dramma. Passiamo ora al primo atto: la giornata di lavoro. Scorso un anno. Ci troviamo nell’opificio del signor Succhiasangue. Una grande quantità di operai sono occupati al lavoro: tutti in silenzio ed ordinati come se fossero tanti soldati. Né vi mancano sorveglianti ed ispettori che a guisa di ufficiali passeggiano fra i ranghi, tutto osservando, dando ordini, e sorvegliandone la fedele esecuzione.
Del capitalista non se ne vede neppur l’ombra. Si apre una porta a vetri che mette nell’interno; forse sarà lui: vediamo.
È un grave personaggio, ma non è il signor Succhiasangue. I sorveglianti gli si fanno premurosamente intorno, e ricevono con la massima attenzione i suoi ordini. Odesi il suono di un campanello elettrico; uno dei sorveglianti corre ad applicare il suo orecchio alla bocca di un tubo di metallo che dalla volta scende lungo il muro; e viene tosto ad annunziare al signor direttore che il padrone lo chiama presso di lui a conferenza.
Cerchiamo Crepafame nella folla degli operai; e finalmente ci viene atto trovarlo in un angolo, tutto dedito al lavoro. Egli è divenuto scarno e pallido in volto: sulla sua faccia si legge un profondo pensiero di tristezza. Un anno fa lo vedemmo sul mercato contrattare la sua forza di lavoro col signor Succhiasangue; quanto è grande oggi la distanza fra loro! Oggi è un operaio perduto nella folla dei molti che popolano l’opificio, e oppresso da una giornata di lavoro straordinariamente lunga; mentre il signor Succhiasangue, divenuto grosso capitalista, se ne sta come un dio nell’alto del suo Olimpo, da dove manda gli ordini al suo popolo attraverso una schiera d’intermediari.

giovedì 12 luglio 2012

Il sogno di un uomo ridicolo [ovvero come perdemmo il paradiso]

Forse già a sette anni sapevo di esser ridicolo. Poi feci i miei studi a scuola, poi all’università, ebbene?... quanto più studiavo, tanto più imparavo ch’ero ridicolo.
(Fedor Dostoevskij)
Io non voglio e non posso credere che il male sia lo stato normale degli uomini.
(un uomo ridicolo)
Una troppo sveglia coscienza, una esasperata lucidità, un’accecante consapevolezza non possono non portare a un sentimento di inadeguatezza, a una sensazione di soffocamento dovuta alla meschinità che si è costretti a subire quotidianamente a dispetto della propria ricchezza interiore.
E così un uomo si suicida e un altro si rifugia nel sogno.
Dostoevskij ci racconta il sogno di quest’uomo ridicolo; ridicolo perché possiede e vuole diffondere una verità inascoltabile. Ridicolo perché assomiglia a un profeta e i profeti, da sempre, vengono dileggiati, derisi, non creduti e spesso ammazzati. Ridicolo perché non sta zitto, non si fa i cazzi suoi e perché non accetta che l’uomo e la vita siano così e basta.
Vale la pena di leggere i pensieri di quest’essere ridicolo, pensieri che sono una vera e propria ‘rivelazione’. Io ho adorato l’inizio della V (e ultima) parte, quando viene descritto il crollo del paradiso e il tramonto dell’età dell’oro. Maestro Fedor, in poche pagine, ci mostra la nascita della nostra cosiddetta civiltà. Tutto parte da un atomo di menzogna!
Leggiamo (e diffondete), perché qui siamo di fronte a dell’arte pura.
Come una perversa trichina, come un atomo di peste che infetta interi Stati, così anch’io infettai di me tutta quella terra, prima del mio arrivo, felice, senza peccato. Essi impararono a mentire e amarono la menzogna e conobbero la bellezza della menzogna. Oh, la cosa forse cominciò innocentemente, da uno scherzo, da una civetteria, da un giuoco amoroso, in realtà, forse, da un atomo, ma quest’atomo di menzogna penetrò nei loro cuori e li sedusse.
Poi rapidamente nacque la sensualità, la sensualità generò la gelosia, la gelosia la crudeltà … Oh, non so, non capisco, ma presto, ben presto sprizzò il primo sangue: essi si meravigliarono e inorridirono, e presero a separarsi e disunirsi. Comparvero le unioni, ma ormai l’una contro l’altra. Cominciarono i rimproveri, i rimbrotti. Essi conobbero la vergogna e la vergogna eressero a virtù. Nacque il concetto dell’onore e in ciascuna unione si levò una propria bandiera. Presero a tormentar gli animali e gli animali si allontanarono da loro nei boschi e divennero lor nemici. Cominciò la lotta per la separazione, per l’individuazione, per la personalità, per il mio e il tuo. Presero a parlare in varie lingue. Conobbero la tristezza e l’amarono, ebbero sete di tormenti e dissero che la verità si raggiunge solo col tormento. Allora comparve presso di loro la scienza. Quando divennero cattivi, cominciarono a parlar di fratellanza e di umanità e capirono queste idee. Quando divennero colpevoli, inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici, per conservarla, e per far rispettare i codici stabilirono la ghigliottina. Essi si ricordavano appena appena di ciò che avevano perduto, anzi non volevano credere di essere stati un tempo innocenti e felici. Ridevan perfino della possibilità di questa primiera loro felicità e la chiamavano un sogno. Non potevano nemmeno figurarsela in forme ed immagini, ma, strano e portentoso fatto: perduta ogni fede nella passata felicità, chiamatala fiaba, a tal segno vollero esser daccapo innocenti e felici che si prostrarono davanti ai desideri del proprio cuore come bambini, divinizzarono questi desideri, costruirono templi e presero a innalzar preghiere alla loro stessa idea, al loro stesso “desiderio”, in pari tempo credendo pienamente alla sua impossibilità e inattuabilità, ma adorandolo e venerandolo fra le lacrime.
E tuttavia, se mai fosse potuto accadere ch’essi tornassero in quello stato innocente e felice che avevan perduto, e se qualcuno d’un tratto gliel’avesse nuovamente mostrato domandando se volevano tornarvi, di sicuro avrebbero ricusato. Essi mi rispondevano: “siamo pur menzogneri, cattivi e ingiusti, noi questo lo sappiamo e ne piangiamo, e per questo ci tormentiamo da noi stessi, e c’infliggiamo torture e castighi perfino più, forse, di quanto farebbe quel misericordioso Giudice che ci giudicherà e il cui nome ignoriamo. Ma noi abbiamo la scienza e per mezzo di essa ritroveremo la verità, accogliendola ormai consapevolmente. Il sapere è superiore al sentimento, la coscienza della vita è superiore alla vita. La scienza ci darà la sapienza, la sapienza ci rivelerà le leggi, e la conoscenza delle leggi della felicità è superiore alla felicità”.
Ecco quel che dicevano, e dopo parole siffatte ciascuno prese ad amare se stesso più di tutti, né potevan fare altrimenti. Ciascuno divenne tanto geloso della propria personalità che con tutte le forze cercava soltanto di abbassarla e diminuirla negli altri; e in ciò riponeva la propria vita. Comparve la schiavitù, comparve perfino la schiavitù volontaria: i deboli si assoggettavano volentieri ai più forti, a patto solo che questi li aiutassero ad opprimere quelli che erano ancor più deboli di loro. Apparvero dei giusti, che venivano a quegli uomini con le lacrime agli occhi, e ad essi parlavano del loro orgoglio, della perduta misura ed armonia, del perduto pudore. Li si derideva o li si lapidava. Un sangue santo scorse sulle soglie dei templi. In compenso presero ad apparir degli uomini che si diedero a immaginare come tutti avrebbero potuto unirsi daccapo in maniera che ciascuno, senza smettere di amar se stesso più di tutti, in pari tempo non fosse d’inciampo a nessun altro, e in tal guisa vivere tutti insieme, come in una società armoniosa. Intere guerre si scatenarono per questa idea. Tutti i belligeranti credevano fermamente al tempo stesso che la scienza, la sapienza e il sentimento di autoconservazione avrebbero infine costretto gli uomini a unirsi in una società concorde e ragionevole, e perciò intanto, per affrettar le cose, i “sapienti” cercavano di sterminare al più presto tutti i “non sapienti” e quelli che non capivano la loro idea, perché non ne intralciassero il trionfo. Ma il sentimento di autoconservazione prese rapidamente a indebolirsi, comparvero i superbi e i voluttuosi, che addirittura pretesero tutto o nulla. Per l’acquisto di ogni cosa si ricorreva al misfatto e, se esso non riusciva, al suicidio.
Comparvero le religioni col culto dell’inesistenza e dell’autodistruzione in vista di un eterno acquietamento nel nulla. Infine quegli uomini si stancarono di un lavoro insensato, e sui loro volti comparve la sofferenza, e quegli uomini proclamarono che la sofferenza è bellezza, giacché solo nella sofferenza c’è un senso.
Esaltarono la sofferenza nei loro canti...

mercoledì 11 luglio 2012

La morte del sole. Perché il professore di filosofia dev'essere allegro dentro


Nella mia breve esperienza di professore di Storia e Filosofia al liceo, mi è capitato di avere qualche problema nell’insegnamento della filosofia.
Con la storia ho cercato e sto cercando un metodo che metta in luce, raccontandolo nel modo più ‘piacevole’ possibile, il potere e le sue evoluzioni nel corso, appunto, della storia.
Con la filosofia è tremendamente più difficile.
La filosofia è nobile e la scuola tremendamente plebea.
La filosofia è elitaria e la scuola è ‘massa’.
La filosofia è desiderio e la scuola studio per l’interrogazione.
La filosofia è sovversiva e la scuola proprietà dello Stato.
La filosofia tende a distruggere il sistema mentre la scuola propugna l'integrazione.
La filosofia è libertà e a scuola una punizione lavorativa.
La filosofia è amore (eros) e a scuola diventa sega mentale.
Insomma siamo agli antipodi più totali e a me di raccontare sciocchezze agli studenti non mi va. E comunque il professore di filosofia deve avere un senso dell’umorismo e un’autoironia enormemente sviluppati se vuole sopravvivere alla scuola. Ricordo le risate interne che mi facevo quando leggevo e spiegavo attraverso il manuale scolastico di filosofia. Soprattutto le parti riguardanti Platone e Nietzsche erano da scompisciarsi.
Senza contare che a scuola si fa ‘storia della filosofia’ che è la filosofia mortificata.
Detto questo, io cercherò con tutto l’impegno possibile un metodo adatto all’insegnamento della filosofia e nel frattempo posto questo pezzo di Manlio Sgalambro.

La trasformazione in sistema d’istruzione toglie alla filosofia il terreno con tanta accuratezza preparato dai suoi padri; essa deve formare ‘uomini’, ancora prima di sapere se devono essere formati.
Il momento del dubbio, inobliabile per ogni filosofia dopo Descartes, viene praticamente esautorato da compiti che solo per ridere si possono collegare a esso. Non la condizionano tanto i grandi a priori, quanto i piccoli a priori di cui è costellata la vita sociale: uno è quello del sistema d’istruzione, all’interno di cui è inserita. Deve formare professioni; o, per meglio dire, nello stesso momento in cui lotta contro ogni illusione, deve favorire l’illusione. La filosofia non sa mai, fino a un momento prima, che cosa le impone la verità. Può essere obbligata alla rovina o al deserto, perché così ha parlato lo spirito; ma nello stesso tempo deve formare abili avvocati, insegnanti di successo e altra genìa, perché così invece vuole il mondo.

martedì 10 luglio 2012

Notte in treno

oggi è una giornata di merda.


Questo brevissimo racconto di Irène non è tanto incentrato su una trama, su una “storia” o sui personaggi.
È dedicato ad una sensazione, ad una condizione umana particolare. È da pochi giorni scoppiata la guerra. La Francia l’ha dichiarata alla Germania dopo l’invasione nazista della Polonia.
In un vagone di un treno diretto a Parigi, s’instaura tra i passeggeri un’inusuale “fraternità”, una cortesia e una confidenza di solito sconosciute tra estranei che viaggiano insieme.
Notte in treno è un’istantanea di quei primi momenti in cui si viene proiettati da una vita all’altra, senza fiato, come se si cadesse dall’alto di un ponte, tutti vestiti, in un fiume profondo, senza capire cosa sta succedendo, serbando nel cuore un’insensata speranza.
Il racconto è ambientato in una sorta di no man’s land tra la pace e la guerra, con le paure, le ansie, le speranze, dove per prima cosa bisogna sbarazzarsi dei progetti inutili in attesa che il giorno faccia chiarezza sull’effettiva condizione di precarietà e pericolo.
L’unica storia che emerge tra le altre è quella di Marta. Ventenne dai lineamenti delicati e fini che la preoccupazione e lo smarrimento rendono teneramente belli. Marta è scappata da casa per raggiungere a Parigi il suo fidanzato. È stata costretta a scappare perché i genitori hanno sempre osteggiato la sua relazione col giovane e Marta vuole passare con lui almeno ventiquattro ore di felicità prima di affrontare l’ineluttabile destino. Vuole che l’uomo abbia dei bei ricordi della pace e della felicità casalinga prima di partire per la guerra e che questi ricordi siano legati a lei.
Non sappiamo nulla di come andrà a finire il sogno d’amore di Marta perché Némirovsky non lo dice.
L’unica cosa che possiamo fare è, imitando il giovane con l’anello d’argento al dito, augurarle buona fortuna.

lunedì 9 luglio 2012

Pensieri strangolati (1)

Primo dovere, al momento di alzarsi: arrossire di se stessi.
Ormai è estate.
Caldo, sole che spacca le pietre, una luce straripante sommerge uomini e cose, la spiaggia, il mare, le ragazze in costume, le vacanze, i viaggi, serate in giro con la comitiva, bar, cocktail, felicità e spensieratezza a tutto spiano.
Proprio per questo, mi pare giusto leggere e proporre Emile Cioran, scrittore funereo pessimista plumbeo grigio…autunnale. Insomma, oppongo un poetico e malinconico 2 novembre al chiassoso e disturbante 15 agosto. Cimitero contro ferragosto.
In questo caso specifico, parlo di pensieri filosofici strangolati e non di ciarle estive da ombrellone.
Cominciamo dall’odio, giacché parlare d’amore mi annoia da morire. Si è finiti, si è morti-vivi, non quando non si ama più, ma quando non si odia più. L’odio conserva: è nell’odio, nella sua chimica, che risiede il “mistero” della vita. Non per caso è il miglior ricostituente che sia stato trovato fino ad oggi, tollerato inoltre da qualsiasi organismo, per quanto debole.
E ora vi dico in che modo sono teologo e non credente: bisogna pensare a Dio e non alla religione, all’estasi e non alla mistica.
La differenza fra il teorico della fede e il credente è grande quanto quella fra lo psichiatra e il matto.
Viva la sciocchezza: è proprio di una mente ricca non retrocedere di fronte alla sciocchezza, spauracchio dei delicati; di qui la loro sterilità.
Che cos’è un “contemporaneo”? Uno che ci piacerebbe ammazzare, senza sapere bene come.
Che cos’è la raffinatezza? È un segno di vitalità deficiente, in arte, in amore e in tutto.
Che cos’è la vita? È lo stiracchiamento di ogni istante fra la nostalgia del diluvio e l’ebbrezza del tran tran.
Il famigerato problema dell’essere (dedicato ad Heidegger). La cosa più difficile al mondo è mettersi al diapason dell’essere, e afferrarne il tono.
L’intelligenza va avanti solo se ha la pazienza di girare in tondo, cioè di approfondire.
L’affermazione più stupida pronunciata dall’antichità ad oggi? Spetta ad Origene quando scrisse: “Ogni anima ha il corpo che si merita”.
Tutti i nostri pensieri sono in funzione delle nostre miserie. Se comprendiamo certe cose, il merito va alle lacune della nostra salute, unicamente.
Faciteme campa’. Vi chiedono atti, prove, opere – e tutto quello che potete produrre sono pianti trasformati.
Altro che esperanto de sta ceppa. Sogno una lingua le cui parole, come pugni, fracasserebbero le mascelle.
Chimera assoluta. Concepire un pensiero, un solo e unico pensiero – ma che mandasse in frantumi l’universo.
Amleto amore mio. Non esiste un mezzo per dimostrare che è preferibile essere piuttosto che non essere.
Finale creativo. Soltanto entro i limiti in cui non ci conosciamo, possiamo realizzarci e produrre. Fecondo è colui che s’inganna sui motivi dei propri atti, colui a cui ripugna soppesare i propri meriti e difetti, che intuisce e teme il vicolo cieco dove ci conduce la visione esatta delle nostre capacità. Il creatore che diventa trasparente a se stesso non crea più: conoscersi è soffocare i propri doni e il proprio demone.

giovedì 5 luglio 2012

la ragazza della foto

Ma sì, ho visto la foto. Ma sì, ci ho messaggiato. Ma sì, è carina, direi sfiziosa, ha qualcosa di molto particolare. Sembra simpatica, sembra intelligente, sembra proprio una brava ragazza, una tipa a posto.
Ma sticazzi, sinceramente, non mi va. Mi fermo, me ne sto per fatti miei.
Le donne sono sistema. Lascia stare tutte le cazzate misogine, quelle sono per ridere. Mi piacciono perché mi fanno sghignazzare e perché adoro sfottere e sfruculiare il cosiddetto ‘sesso debole’. Che poi debole de che non si è mai capito, visto che comandano loro.
Dicevo, le donne sono sistema. Per avere una donna, per pensare di avere una relazione stabile o semi stabile, devi essere integrato nel sistema. Devi, cioè, essere un uomo che lavora, che ha i soldi (più ne hai meglio è, ovviamente) ed essere intrinsecamente stabile che è come dire radicato.
Io non posseggo nessuna delle succitate caratteristiche e manco me ne fotte di averle. Non mi interessano. Sono superiore o inferiore.
Dicono…eh, vabbè, ma l’amore, il romanticismo, la passione, l’affetto – cazzate.
Queste son cose che vengono DOPO. Se non c’hai i soldi e non sei interessato a farli le donne non sono avvicinabili.
Tutte le scemenze da baci perugina e le belle parole presuppongono che uno i soldi ce li abbia. Il problema non lo considerano nemmeno. Dimmi un po’, senza macchina come fai? Come la vai a prendere la ragazza, come la porti in giro, eh? a cavall’ e stu cazz?
E l’automobile costa un sacco di soldi per averla e mantenerla. Oppure come la porti a cena? Come le fai un regalino per il compleanno o un pensierino per l’anniversario? E se te ne fotte delle ricorrenze e le vuoi fare semplicemente una sorpresa per farle capire quanto sia importane per te e darle un’attenzione speciale? Sempre soldi ci vogliono.
Per questo io amo i pensatori che parlano sempre delle condizioni materiali, che hanno una filosofia pratica sincera, un sistema artistico basato sulla realtà.
I cazzari li leggo ogni tanto anche io, ma non hanno il mio amore perché seguono semplicemente la strana mentalità borghese, eludono il problema, cercano aggiustamenti, mediazioni, ma vaffanculo.
Cioè siamo merce tra le merci, la nostra vita è fatta di soldi eppure questi non ne parlano mai.
Io intendo andare, trasportato dall’inerzia, per la mia strada. Non intendo cambiare per colpa del sistema per avere una donna.
Quando e se avrò un lavoro e dei soldi, nel caso penserò anche alle donne. Non voglio integrarmi per una fregna, non ne vale la pena. Integrato ci nasci, secondo me, non ci diventi.
E comunque stai ferma con la mano mentre parli, o almeno non muoverla a casaccio. E non aprire la bocca solo per sparare stronzate, per fare discorsi senza senso. Quelle confuse di cervello mi danno ai nervi. Perché poi questo è un rischio da non sottovalutare: beccare nà stronza che ti rompa i coglioni.
N O N N E H O V O G L I A

mercoledì 4 luglio 2012

Krishnamurti e l'uomo del Vedanta [seconda parte]


Riprendiamo a parlare dell’uomo seguace del Vedanta.
Le considerazioni seguenti valgono, come vedrai, per tutti i credenti e tutte le credenze.
L’uomo postulava il Brahman. Sicuramente si può dire che è una teoria inventata da una mente ricca di immaginazione – sia essa Shankara o il dotto teologo moderno.
Si può sperimentare una teoria e dire che è così, ma un uomo che sia stato educato e condizionato nel mondo cattolico non può avere che visioni di Cristo, le quali ovviamente sono la proiezione del suo condizionamento, così come coloro che sono stati educati nella tradizione di Krishna hanno esperienza e visioni nate dalla loro cultura. Così l’esperienza non prova nulla.
Riconoscere la visione come Brahman, Krishna o Cristo è il risultato di una conoscenza condizionata; quindi non è affatto una realtà, ma una fantasia, un mito, a cui l’esperienza dà vigore, ma che non ha alcuna validità.
Ora la domanda è: perché la gente ha bisogno a ogni costo di una teoria e perché postula una credenza? Questo voler porre costantemente la necessità della credenza è un sintomo di paura – paura della vita di ogni giorno, paura del dolore, paura della morte e dell’assoluta mancanza di significato della vita. ‘Assaporando’ tutto ciò, gli uomini inventano una teoria e quanto più questa è abile ed erudita tanto più ha peso e così, dopo duemila o diecimila anni di propaganda, quella teoria invariabilmente, acriticamente e scioccamente diviene ‘la verità’.
Ma se non postuli alcun dogma, allora ti trovi faccia a faccia con ciò che realmente è. Il ‘ciò che è’ è il pensiero, il piacere, il dolore e la paura della morte. Quando capirai la struttura della tua vita quotidiana – con la sua competizione, avidità, ambizione e sete di potere – allora vedrai non solo le assurdità di teorie, salvatori, preti e guru, ma forse troverai una fine al dolore, una fine all’intera struttura costruita dal pensiero.
La penetrazione e la comprensione di questa struttura è la meditazione.
Allora vedrai che il mondo non è una illusione, ma una terribile realtà costruita dall’uomo nel suo rapporto col suo simile. Sono queste le cose che vanno capite e non le teorie del Vedanta, del Cattolicesimo o dell’Ebraismo, con tutti i riti e tutto l’inutile armamentario delle religioni organizzate.
Quando l’uomo è libero, senza alcun motivo di paura, di invidia o di dolore, allora soltanto la mente trova la sua pace naturale. Allora può vedere non solo la verità nella successione degli attimi della vita quotidiana, ma anche trascendere la percezione. Allora si ha la fine dell’osservatore e dell’osservato, e la dualità cessa.

Per ora va bene così. L’importante è tenere fermo il fatto che qui non si vuole dare nessuna teoria da far piacere e magari diffondere, ma solo un avvicinamento alla verità.
E la verità è solo quando tu sei libero dal dolore, dall’ansia e dall’aggressività che ora riempiono il tuo cuore e la tua mente.

martedì 3 luglio 2012

Krishnamurti e l'uomo del Vedanta [prima parte]


Un giorno si incontrarono un uomo seguace del Vedanta, Krishnamurti e altre persone.
L’uomo del Vedanta era una persona istruita e avvocato di fama. Disse: “Vi ho udito parlare. Ciò che voi dite è puro Vedanta, Vedanta dell’antica tradizione, anche se aggiornato”. Insomma l’uomo non solo non aveva capito un accidente, visto che Krishnamurti non era un seguace del Vedanta, ma tentava la solita mossa dei credenti e cioè quella di cercare filiazioni e accomunamenti.
Krishnamurti chiese all’uomo cosa intendesse per Vedanta e quello così rispose: “Signore, noi postuliamo…”
Alt, fermiamoci un attimo prima di continuare. Cosa significa postulare? Ammettere per vero. Il ‘postulato’ è una proposizione non dimostrata e non dimostrabile che viene ammessa come vera, in quanto necessaria ai fini di una dimostrazione. In questo caso, visto che si parla di religione e non di scienza o filosofia, postulare sta a significare inventare, favoleggiare, una fantasia insomma. L’avvocato avrebbe potuto dire “Noi immaginiamo...”. Comunque andiamo avanti e vediamo cos’è questo Vedanta.
“Noi postuliamo che c’è soltanto Brahman che crea il mondo e la sua illusione, e che da lui procede l’Atman che è in ogni essere umano. L’uomo deve svegliarsi da questa quotidiana coscienza della pluralità e del mondo manifesto, come si sveglierebbe da un sogno. Come questo sognatore crea la totalità del suo sogno, così la coscienza individuale crea la totalità del mondo manifesto e degli altri.
Voi, signore, non dite tutto ciò, ma sicuramente lo intendete, perché voi siete nato e cresciuto in questo paese e, sebbene abbiate trascorso la maggior parte della vita all’estero, fate parte di questa antica tradizione. Vi piaccia o non vi piaccia, l’India vi ha prodotto. Voi siete il prodotto dell’India e avete una mente indiana. I vostri gesti, la vostra compostezza statuaria, quando parlate, e perfino i vostri sguardi fanno parte di questo antico patrimonio. La vostra dottrina è sicuramente la continuazione di ciò che i nostri antichi hanno insegnato dal tempo dei tempi”.
Supponente e antipatico quest’uomo, non credi?
Krishnamurti dice di lasciar perdere il discorso di indiano, di tradizione, cultura e dottrina. Krishnamurti non è un indiano, cioè non appartiene a quella nazione o alla comunità dei brahmini, sebbene vi sia nato. Nega che la sua dottrina sia la continuità degli insegnamenti antichi. Non ha letto nessuno dei libri sacri dell’India o dell’Occidente, perché sono inutili a un uomo che è consapevole di ciò che avviene nel mondo – della condotta degli essere umani con le loro interminabili teorie, con la ben accetta propaganda di duemila o cinquemila anni che è diventata la tradizione, la verità, la rivelazione.
Per Krishnamurti, che si rifiuta totalmente e completamente di accettare il mondo, il simbolo con il suo condizionamento, la verità non è un affare di seconda mano. Ogni accettazione di autorità è la negazione stessa della verità; è necessario essere al di fuori di ogni cultura, tradizione e morale sociale. Krishnamurti nega totalmente il passato, i suoi maestri, i suoi interpreti, le sue teorie e le sue formule.
La verità non è mai nel passato. La verità del passato è la cenere della memoria; la memoria procede del tempo e nella morta cenere dell’ieri non c’è verità. La verità è una cosa vivente, ma non nella sfera del tempo.

Qui si conclude la prima parte. Domani vedrai Krishnamurti discutere del Brahman e del Vedanta, discussione che non vale solo per quella dottrina ma per tutte le religioni e le menti religiose del mondo.

lunedì 2 luglio 2012

Shakespeare e i giovani diplomati


Tanti e profondi pensieri ispira La bisbetica domata di Shakespeare. Prima di addentrarci, però, in siffatte alte e gravi riflessioni vediamo cosa consiglia il saggio servo Tranio al giovane padrone Lucentio per quanto riguarda il proseguimento degli studi da fare nella dotta città di Padova dopo averli cominciati a Pisa. Magari il Bardo potrà essere d’aiuto ai molti indecisi che si accingono ad iscriversi ad una facoltà universitaria.
Mi perdonato, gentil mio signore. Io partecipo in modo completo dei vostri sentimenti. Son contento che così persistiate nella vostra risoluzione di succhiare i fiori della dolce filosofia.
Soltanto vi prego che nel mentre ammiriamo codesta virtù e codesta disciplina morale, mio buon padrone, non ci spingiamo fino a essere stoici e quindi stupidi: e devoti, insomma, così esclusivamente alle massime restrittive di Aristotele da abiurare affatto e bandir da noi l’insegnamento di Ovidio.
Disputate di logica con le persone che conoscete, e praticate la retorica nelle vostre conversazioni giornaliere. E ricorrete alla musica e alla poesia per ispirarvi. Quanto alla matematica e alla metafisica, prendetene solo quel tanto che il vostro stomaco è capace di digerirne.
Non c’è profitto alcuno quando all’apprendimento non s’accompagna alcun piacere. E a farla breve, signore, studiate soprattutto quel che più vi piace.
Scusate, ma la stoccata di Shakespeare a quegli idioti degli stoici mi ha fatto ghignare per ore.

domenica 1 luglio 2012

Krishnamurti e la meditazione [primi appunti]


Don Giovanni vive tante storie, gli piace godere con donne diverse, le avventure, le fughe, le emozioni. Ecco, io mi sento un Don Giovanni dei libri. Solo che le storie le ho con gli autori, godo con le frasi e i pensieri, le avventure avvengono dentro la mia mente e le fughe sono le rotte che seguo stando fermo a pensare. E invece di litigare con mariti cornuti, critico ciò che non mi piace e lodo quel che mi fa impazzire di piacere.
Krishnamurti è una scoperta recente. Poche settimane fa, un amico mi parlò di Jiddu e io decisi di provare. Su una bancarella napoletana c’erano tanti titoli e io presi La sola rivoluzione, così, perché m’ispirava il titolo.
È stato un colpo di fulmine, un amore a prima vista e oggi voglio stendere alcuni appunti che riguardano la meditazione.

La meditazione non è una fuga dal mondo; non è un’isolarsi e chiudersi in sé, ma piuttosto la comprensione del mondo e delle sue vie. Il mondo ha poco da offrire tranne il cibo, i vestiti e la casa, e il piacere con i suoi grandi dolori.
Meditare è deviare da questo mondo, diventargli totalmente estraneo.
Allora il mondo ha un significato, e la bellezza del cielo e della terra è costante. Allora l’amore non è piacere. Da ciò prende le mosse l’azione che non è il risultato della tensione, della contraddizione, della ricerca e dell’autosoddisfazione o della vanità del potere.
Ciò che è importante nella meditazione è la qualità della mente e del cuore. Non è ciò che consegui, né ciò che dici di ottenere, ma piuttosto la qualità di una mente che sia innocente e vulnerabile. Dalla negazione nasce lo stato affermativo. Il semplice ottenere l’esperienza, o vivere nell’esperienza, nega la purezza della meditazione. La meditazione non è un mezzo per un fine. È insieme il mezzo e il fine. La mente non può mai esser fatta innocente per mezzo dell’esperienza.
È la negazione dell’esperienza che produce quello stato affermativo di innocenza che non può essere coltivato dal pensiero. Il pensiero non è mai innocente. La meditazione è la cessazione del pensiero,non grazie al meditante, perché il meditante è la meditazione. Se non c’è meditazione, sei come un cieco in un mondo di grande bellezza, luce e colore.
Cammina lungo la spiaggia e lascia che questa qualità meditativa ti venga incontro. Se lo fa, poi non cercarla. Ciò che cercherai sarà la memoria di ciò che era – e ciò che era è la morte di ciò che è.
O quando vagherai fra le colline, lascia che tutto ti parli della bellezza e della pena della vita, e potrai svegliarti al tuo dolore e alla sua cessazione.
La meditazione è la radice, la pianta, il fiore e il frutto. Sono le parole che dividono il frutto, il fiore, la pianta e la radice. In questa separazione l’azione non genera la bontà: la virtù è la totale percezione.
Meditare non è ripetere la parola [preghiera o mantra], o sperimentare una visione, o coltivare il silenzio. Il rosario e la parola placano, è vero, il chiacchierio della mente, ma questa è una forma di autoipnosi. All’uopo andrebbe bene anche una pillola.
Meditare non è chiudersi in un pensiero ideale, nell’incanto del piacere. La meditazione non ha principio e perciò non ha fine.
Se tu dici: “Oggi comincerò a controllare i pensieri, a sedere quieto nella posizione del meditare, a respirare regolarmente” – allora sei preso nei trucchi con cui inganniamo noi stessi. La meditazione non è essere assorti in qualche idea o immagine grandiosa: questa acquieta per il momento, come un bimbo tutto preso da un giocattolo è momentaneamente tranquillo. Ma, appena il giocattolo cessa di interessarlo, ricominciano i capricci. La meditazione non è la ricerca di un invisibile sentiero che porti a una qualche immaginata beatitudine. La mente meditativa è vedere – osservare, ascoltare, senza la parola, senza commento, senza opinione – tutto il giorno attentamente il movimento della vita in ogni suo rapporto. E la notte, quando l’organismo riposa, la mente meditativa non fa sogni, perché è stata sveglia tutto il giorno. Soltanto gli indolenti fanno dei sogni; soltanto i sonnolenti hanno bisogno del preannuncio delle loro situazioni. Ma alla mente che osserva, ascolta il movimento della vita, sia quello esteriore sia quello interiore, viene un silenzio che non è montato su dal pensiero.
Non è un silenzio che l’osservatore possa sperimentare. Se ne fa esperienza e lo riconosce, non è più silenzio. Il silenzio della mente meditativa non sta entro i confini dell’individuabilità, perché questo silenzio non ha frontiere. C’è solo il silenzio, nel quale lo spazio della divisione cessa.