domenica 30 giugno 2013

Appunti su Hemingway (6)

(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)

XI.

Questi e altri critici molto severi non hanno considerato la situazione in cui era stato messo Hemingway dall’assedio degli intellettuali impegnati che in quegli anni esigevano da tutti una presa di posizione politica. Hemingway si interessava molto più alla sofferenza umana che alle teorie sociali e aderiva ai problemi pubblici solo quando qualcosa lo commuoveva: la politica in sé lo annoiava profondamente. Credeva nella libertà e nella giustizia, riteneva che la burocrazia governativa non potesse fornire né l’una né l’altra e se To Have and Have Not era apparentemente basato sull’ingiustizia economica e sul bisogno di solidarietà, in realtà il vero interesse di Hemingway era concentrato nel ritratto del protagonista Harry Morgan, eroe senza macchia e senza paura, temerario fino all’eroismo, superman nella sua barca e nel suo letto nuziale e insieme melanconico per il suo declino, in una tipica associazione cara a Hemingway. Questo personaggio che, con o senza impegno politico e sociale, resta una delle più disperate immagini del declino umano esplode più nei gesti che nelle parole, spesso vagamente demagogiche; e l’intento sociale del libro, se c’è, è soprattutto espresso nel titolo Avere e non avere, che segna lo scarto tra i ricchi che “hanno” e i poveri che “non hanno”.
I ricchi che “hanno” sono come sempre nell’immaginazione di Hemingway inetti e viziozi, tormentati da problemi sessuali: qui la coppia Tommy e Helène Bradley, ricalcata così da vicino su quella di Grant e Jane Mason da preoccupare l’ufficio legale dell’editore mostra un marito impotente e una moglie ninfomane, col marito che sta a guardare da uno spiraglio della porta mentre la moglie ha un rapporto con altri. Il rapporto descritto nel libro è quello con lo scrittore Richard Gordon (una malevole caricatura di John Dos Passos), di cui viene messa in dubbio la capacità sessuale e che viene abbandonato dalla moglie Helen (è curioso che le due protagoniste “ricche” del libro si chiamino Helen e Helène, che è anche il nome dato da Hemingway all’alter ego di Pauline in The Snows of Kilimanjaro). Le mogli “ricche” del libro sono tutte moralmente discutibili e la loro bramosia sessuale culmina nel personaggio di Dorothy Hollis, moglie di un regista di Hollywood, che una notte mentre il marito russa nel letto esce sul ponte come un personaggio di Sherwood Anderson e quando rientra in cabina si masturba a lungo davanti allo specchio. L’unica donna virtuosa del libro è Marie, la moglie di Harry Morgan, vecchia e grassa, coi capelli tinti per far piacere al marito, innamorata di lui anche sessualmente, disperata alla sua morte, “atterrita dalla luce” quando esce dall’ospedale e abbandonata in un lungo monologo quando siede al tavolo della sala da pranzo; un monologo confrontato da molti con quello di Molly Bloom dalle pagine famose di Joyce e considerato l’epitaffio di Harry Morgan.

XII.

Sono le emozioni a guidare come un filo conduttore tutte le pagine hemingwayane; magari, come lui diceva, non tanto descritte quanto frugate per cercare la causa, ma sempre palpitanti di passione e di dolore, sempre represse nello under statement che fu la sua grande invenzione e che cambiò modo di scrivere in gran parte della letteratura occidentale.
Superato il momento di crisi contenutistica durato qualche anno sotto l’impatto della “narrativa proletaria” questo modo di scrivere tornò ad affascinare migliaia di giovani che cercarono inutilmente di imitarlo, facendo risaltare anche meglio lo splendore dei suoi dialoghi stellanti, la purezza di pagine incontaminate da facili aggettivi, la disperazione per la tragedia di un mondo dilaniato dal conflitto tra la bellezza della realtà naturale e la inesorabile caducità della condizione umana.
È stato uno scrittore tragico, un inimitabile cantore del rapporto tra uomo e donna e della sua disintegrazione in un destino senza via d’uscita. Che gli amanti si chiamassero Brett e Jake o Catherine e Frederik o Harry e Marie non cambiava il loro destino che restava senza speranza davanti allo spettro della morte, eterna protagonista di tutti i suoi libri.
L’unica speranza, l’unico spiraglio che permetta di vivere almeno con dignità il breve periodo concesso dal destino prima della fine è l’integrità, che per Hemingway vuol dire coraggio, vuol dire dignità, vuol dire onestà: vuol dire quella “grace under pressure” che lo ha guidato tutta la vita fino all’alba segreta in cui silenziosamente, discretamente, umilmente si dichiarò sconfitto e si tolse la vita.

sabato 29 giugno 2013

Appunti su Hemingway (5)

(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)

IX.

Sul seme gettato da Hicks e stimolato dalla Guerra Civile spagnola Hemingway riesaminò la situazione letteraria degli Anni Trenta, un decennio che da un lato produsse la letteratura rosa dell’ottimismo rooseveltiano e la narrativa sentimentaleggiante per esempio di William Saroyan (affermatosi nel 1934 con The Daring Young Man on the Flying Trapeze) e dall’altro produsse libri di denuncia che vennero poi definiti “romanzi della Depressione” o “narrativa proletaria” (alla quale avevano aperto la via i ritratti o stereotipi di Sinclair Lewis e H.L. Mencken) e un movimento di analisi economica e sociologica dal quale nacquero per esempio i romanzi ambientati fra gli Irlandesi di Chicago di James T. Farrell, affacciatosi alla scena letteraria con The Young Lonegan (1932), il primo volume della famosa trilogia Studs Lonegan. Tra i primi ad affermarsi nella narrativa di denuncia, o proletaria, o della Depressione, fu Erskine Caldwell con The Tobacco Road (1932), presto seguito da John Steinbeck con The Battle (1936) in una presa di posizione che culminò con The Grapes of Wrath (1939). In questa ondata di protesta si affacciarono Nelson Agren (che Hemingway ammirava enormemente) con Somebody in Boots (1935) e John Dos Passos con The Big Money (1936).
In questo periodo l’immagine pubblica di Hemingway subì gli attacchi anche violenti della Sinistra letteraria che lo accusò di individualismo e di indifferenza per “il destino degli uomini oppressi”. Il suo senso di colpa causato dalla fortuna economica della moglie Pauline e del suo famoso Uncle Gus (che nel dicembre 1935 propose di costruire un’arena per le corride a Cuba finanziandola con 800.000 dollari) cominciò a rivelarsi nel racconto The Snows of Kilimanjaro (1936) dove il protagonista Harry, probabilmente autobiografico, rimprovera o aggredisce con sarcasmi crudeli la moglie Helen accusandola di esercitare un’influenza corrotta col suo denaro; ma già nel 1933 Hemingway aveva cominciato a lavorare a un racconto che rivelava interesse per la lotta di classe. Il racconto, ambientato a Key West e presentato come una storia di contrabbando, uscì nell’aprile 1934 su “Cosmopolitan” e fu pagato 5.500 dollari, una cifra allora enorme. Era One Trip Across, al quale seguì la seconda parte col titolo The Tradesman’s Return che usci su “Esquire” nel febbraio 1936. Nel luglio 1936 quando iniziò la Guerra Civile spagnola Hemingway tentò di fonderli con una terza parte più lunga che in realtà aveva pochi elementi in comune con le altre due.
Hemingway volle sempre che la raccolta di questi tre racconti venisse considerata un romanzo, l’unico che pubblicò negli Anni Trenta e l’unico ambientato in America; eppure la Key West e la Cuba che Hemingway conosceva così bene per averci vissuto a lungo sembrano, nelle pagine di questo libro, meno sincere degli ambienti spagnoli e italiani dei libri che gli diedero la fama. Anche il tema sociopolitico del libro non sembra congeniale a Hemingway, che pure stava impegnandosi nella Guerra Civile spagnola dalla quale sarebbe nato For Whom the Bell Tolls, libero da populismi e demagogie ma ricco delle passioni e delle visioni tragiche che hanno costituito la base dell’ispirazione hemingwayana.

X.

Il libro diventò un best-seller e introdusse, nel descrivere i temi della disgrazia, una certa brutalità che ispirò Raymond Chandler, considerato da alcuni un suo “allievo”, in The Big Sleep (1939); e sull’onda della nuova popolarità raggiunta ora come scrittore “sociale” vagamente intonato alla moda del tempo, la rivista “Time” nell’autunno 1937 gli dedicò una copertina accompagnata da un articolo che però denunciava il suo stile come “datato”.
Ancora una volta le recensioni non furono concordi. Louis Kronenberger definì il libro “confuso” o “transizionale” pur ammettendo la magistrale realizzazione del personaggio di Morgan, il contrabbandiere protagonista; Donald Adams disse che il libro era nettamente inferiore a A Farewell to Arms; Bernard De Voto disse che “le affermazioni sociali sono così ingenue, frammentarie e casuali che non possono venir presentate come una critica dell’ordine stabilito”; Delmore Schwartz lo liquidò come “un libro stupido, una disgrazia per un bravo scrittore, un’opera che non avrebbe mai dovuto essere pubblicata”; Edmund Wilson, due anni dopo, fece notare con disapprovazione che “la Sinistra accolse questa narrazione pochissimo credibile come l’espressione di una nuova rivelazione”.
A sostenere il vecchio amico fu ancora una volta Malcolm Cowley. Cowley ammise che il romanzo mancava di “unità”, era difettoso nell’intreccio e nella descrizione dei personaggi fino a definirlo “il libro più debole di Hemingway eccetto forse Green Hills of Africa”, ma affermò anche che conteneva “alcune delle migliori pagine” mai scritte da Hemingway: “ci sono scene che sono realizzazioni tecniche superbe e altre scene che lo conducono in nuovi registri di emozioni”. Cowley insisté dicendo che le parole di Harry Morgan si potevano considerare “una traduzione libera di Marx e Engels” e dell’invocazione: “Lavoratori di tutto il mondo unitevi, non avete niente da perdere”. Risentito per l’animosità ancora una volta rivelata dai critici, Cowley concluse: “Le iene letterarie hanno detto che Hemingway era finito, ma il loro naso le ha tradite facendo sentire loro della fine dove l’odore non esisteva. A giudicare questo libro, direi che Hemingway sta solo cominciando una nuova carriera”.
Anche Alfred Kazin lodò il libro definendo Hemingway un vero artista che si era “aperto la via per uscire dal culto di un noioso disfattismo”. Cyril Connolly trovò il romanzo “moralmente odioso” ma non abiurò alla sua ammirazione per Hemingway e predisse che era “la persona capace di scrivere un grande libro sulla Guerra di Spagna”. Uno dei commenti che rivelò maggior comprensione delle intenzioni di Hemingway è forse quello di Philip Rahv quando affermò che “il tema favorito della sopportazione umana e del valore di fronte all’annientamento fisico” era ora “realizzato sulla scena degli avvenimenti mondiali”. Il colpo di grazia al libro lo diede William Faulkner quando ne ricavò una sceneggiatura poi interpretata da Humphrey Bogart e Lauren Bacall: nel film non restò niente né di Faulkner né di Hemingway ma la pubblicità si servì con profitto dell’unione dei due eroi e competitori letterari del tempo.

venerdì 28 giugno 2013

Appunti su Hemingway (4)

(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)

VII.

Quando uscì Death in the Afternoon (tre anni dopo, nel 1932), il libro più legato alla saggistica e alle memorie che alla narrativa, Hemingway si ricordò della critica di Huxley e lo attaccò a sua volta a proposito del Cristo di Mantegna. È parso ad alcuni che il libro sia appesantito da affermazioni teoriche e frecciate contro gli altri scrittori: John Dos Passos gli suggerì di operare dei tagli ma purtroppo Hemingway non eliminò i riferimenti sarcastici per esempio a Faulkner, a Virginia Woolf e ad Aldous Huxley che lo avevano attaccato e neanche quelli a Maupassant, Cocteau, Gide, Wilde, perfino Withman colpevoli di una omosessualità che Hemingway ha sempre aborrito.
A parte queste stonature il libro è quasi un testamento letterario e contiene, per esempio nel capitolo sedicesimo, gran parte delle idee che fecero da base ai biografi e ai critici più famosi: l’idea delle omissioni, l’idea dell’iceberg che sporge dall’acqua soltanto per un ottavo della sua mole, l’idea che si deve scrivere di cose semplici, l’idea che lo scrittore deve creare gente viva e non personaggi, l’idea che la prosa è architettura e non arredamento, l’idea della differenza tra la descrizione giornalistica di una emozione e la scoperta dei fatti che hanno prodotto l’emozione (idea, questa, presentata nelle prime pagine del libro come una specie di introduzione).
Accanto a queste rivelazioni delle sue esperienze letterarie Hemingway svolge in un “crescendo” i temi del libro, (specialmente quello fondamentale che “la corrida non è uno sport ma un rito tragico”) fino a renderlo in parte didascalico ma subito immergendolo nella poesia con la descrizione della vera azione che si svolge nell’arena e che riduce il personaggio della “Vecchia Signora” (introdotto nel capitolo settimo e conservato fino al sedicesimo) quasi a un trucco per rendere accattivante questa specie di trattato. Per mesi studiò il capitolo conclusivo, opera di poesia con una decina di pagine completamente estranee alla tauromachia, intrise di flash-backs che preannunciano quelli del racconto famoso The Snows of Kilimanjaro. Di quelle splendide pagine però non fu mai soddisfatto; diceva: “Se fossi riuscito a fare un vero libro ci sarebbe stato dentro tutto”.
Ma il libro in generale fu accolto male dai critici, che attaccarono Hemingway per il suo atteggiamento fanfarone, che misurava gli uomini dal loro machismo e che pontificava sugli altri scrittori. H.L. Mencken scrisse che “spesso il libro scade in una meschinità rozza e irritante”; Robert Coates definì Hemingway un romantico “nella sua incapacità di accettare l’idea della morte come fine e completamento della vita”.
La stroncatura più famosa fu quella di Max Eastman del giugno 1933 intitolata Bull in the Afternoon, dove l’amico di giovinezza che aveva frequentato Hemingway durante il convegno di Genova del 1922 attaccò violentemente l’autore accusandolo di “posare” e di aver descritto gli aspetti brutali e ignobili della corrida, in cui “gli uomini tormentano e uccidono un toro”. A indignare Hemingway fu la ritorsione che Eastman fece di una frase in Death in the Afternoon a proposito di Sànchez Mejìas: “Era come se mettesse continuamente in mostra la quantità di peli che aveva sul petto”: Eastman la usò contro Hemingway dicendo che aveva raggiunto “uno stile letterario, per così dire, che portava falsi peli sul petto”.
Questa storia dei “peli sul petto” diventò un caso letterario: Hemingway si infuriò, Archibald MacLeish lo aizzò insinuando che Eastman aveva attaccato la sua capacità sessuale mostrandolo come impotente o omosessuale; e quattro anni dopo, nell’agosto 1937, avvenne la storica zuffa tra i due antichi amici narrata da Maxwell Perkins in una lettera a Fitzgerald. Tutti i giornali d’America ne parlarono ma nessuno accennò alle vere intenzioni di Eastman e alla sua affermazione che Hemingway “è uno dei giovani poeti più sensibili e acuti ma anche uno dei più appassionatamente intolleranti”.
La vera accusa di Eastman, e probabilmente quella che suscitò il risentimento di Hemingway, sembra l’affermazione che “Death in the Afternoon appartiene alle confessioni di orrore che sono la vera poesia di questa generazione”. Un orrore sottolineato dal fatto che chiamare la corrida una tragedia “è soltanto una sciocchezza romantica”, perché “non è tragico morire in una trappola”, “non è tragico fare trucchi crudeli a una bella creatura stupida e pugnalarla quando ha perso le forze”. Tutto questo, dice Eastman, “è un’uccisione resa più crudele, una morte resa più ignobile, uno spargimento di sangue semplicemente più disgustoso del necessario”.
È facile capire le ragioni del furore di Hemingway, certo alimentato dal finale dell’articolo che dice: “Lo abbiamo cacciato nel nostro posso di massacro e gli abbiamo detto di essere coraggioso di fronte all’uccisione. E ci aspettavamo che ne sarebbe uscito piangendo e tremando. Be’, invece ne uscì urlando per il sangue, gridando ai cieli la gioia di uccidere, l’estasi religiosa dell’uccidere: e più di tutto patetico, più di tutto pietoso, l’uccidere come protesta contro la morte”.
Quest’ultima denuncia di Eastman, di gusto quasi psicoanalitico, era molto sottile. Hemingway è sempre stato ossessionato dalla morte dal lontano giorno che venne drammaticamente ferito a Fossalta.

VIII.

La morte violenta, il sangue, sembrano protagonisti di The Green Hills of Africa, uscito tre anni dopo Death in the Afternoon. Anche se la quantità di riflessioni autobiografiche, l’inflazione della sua “persona” e la quantità di giudizi letterari quasi bloccano il libro, è chiaro che questa specie di macello che è la caccia grossa intricava Hemingway da molto tempo. Nell’autunno del 1930 scrisse a Maxwell Perkins dallo Wyoming che nonostante avesse ucciso molta selvaggina in qualche giorno di caccia continuava a sognare un safari in Africa; e Carlos Baker da minuzioso biografo ha affermato che l’interesse per l’Africa probabilmente nacque in Hemingway recensendo il libro del Premio Goncourt René Maràn che denunciava, da nero, la politica coloniale francese in Africa.
Hemingway parlò spesso della caccia, cercò di spiegare che molte volte puntava il fucile e quando era sicuro che avrebbe raggiunto la preda non sparava; come si legge più volte in Green Hills of Africa e come si legge in The Bear di Faulkner, dove il ragazzo di fronte all’orso non spara per non far finire il piacere della caccia.
Il sogno di Hemingway era di descrivere “con precisione e verità” il mondo dell’Africa e il mondo della caccia. Nella prefazione a Green Hills of Africa il curatore della prima edizione ha detto: “Ha tentato di scrivere un libro assolutamente sincero per vedere se l’aspetto di un paese e i gesti di un mese di azione possono competere con un’opera dell’immaginazione”. Questa idea di scrivere “dicendo la verità” ispirava Hemingway fin dalla prima giovinezza, quando imparò a intrecciare “la verità” con l’invenzione; e in questo libro la realizzò fino in fondo evitando qualsiasi invenzione.
Ma il romanzo è meno nitido di quelli precedenti, perché la vita domestica nel safari era un po’ fuori dalla sua vena: la sua vera abilità consisteva nel ritrarre amori romantici e tragici. In questo libro di tragico c’è solo l’eccidio di animali indifesi e alcuni recensori pensarono che l’apparente ossessione di Hemingway degli sports sanguinosi e soprattutto della guerra non costituiva tema altrettanto valido delle sue inventate storie d’amore.
Bernard De Voto rilevò gli attacchi di Hemingway ai critici letterari e, forse ispirato da risentimento in quanto critico letterario, disse che il libro era noioso e gli dispiaceva questa nuova esperienza di essere annoiato da Hemingway. Carl Van Doren gli perdonò l’esibizionismo machista grazie alla bella prosa e disse: “È un artista maturo che mostra la sua arte in una prosa capace di cantare come poesia senza mai cessare di essere prosa, facile, intricata e magica”. Edmund Wilson denunciò gli effetti della pubblicità sulla prosa del vecchio amico, chiedendosi se Hemingway non fosse rimasto imprigionato dal suo mito. “Forse” disse “sta cominciando a essere ingannato dalla leggenda cheè stata creata intorno a lui dalla pubblicità americana e che, come ha rilevato Kashkeen, ha poco a che fare con ciò che effettivamente si trova nelle sue storie”. È in questo articolo che Wilson, alludendo a Hemingway come protagonista del libro, ha fatto il famoso commento: “Fra tutte le sue creazioni è certamente il personaggio disegnato peggio”.
Il severissimo giudizio di Wilson gettò Hemingway in una grave depressione, anche perché Wilson aveva detto nella recensione che “l’unica cosa che impariamo sugli animali è che Hemingway vuole ucciderli”. A ridare una spinta alla sua ispirazione fu Granville Hicks, che dopo aver affermato sulla rivista comunista “New Masses”: “Ho sempre pensato che Hemingway fosse indubbiamente lo scrittore più chiaro e più forte non rivoluzionario della sua generazione” disse di essere deluso perché Hemingway si occupava di argomenti noiosi e poco importanti e si rifiutava di “guardare in faccia la scena americana contemporanea”.

giovedì 27 giugno 2013

Appunti su Hemingway (3)

(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)

V.

Il passare degli anni non fermò la produzione dei saggi. Il precursore Malcolm Cowley riprese il discorso su Exile’s Return che nel 1951 raccolse i suoi interventi degli Anni Trenta e incluse la celebre informazione che “le ragazze dello Smith College di New York si modellavano sulla Lady Brett di The Sun Also Rises e centinaia di brillanti giovani del Middle West cercavano di comportarsi come gli eroi di Hemingway, pronunciando duri understatements da un lato della bocca”. Con una testimonianza meno poetica e già intrisa di elementi storici Carlos Baker nella raccolta Hemingway: the Writer as Artist del 1952 dedicò al libro un capitolo che teneva già conto dei commenti fatti dai contemporanei più o meno testimoni di quella Generazione Perduta di cui i protagonisti avevano subito detestato la definizione.
Di tutte queste recensioni o saggi particolarmente significative sono le pagine di James T. Farrell, lo scrittore socialista popolarissimo negli Anni Quaranta, che nel 1943 commentò The Sun Also Rises in The League of Frightened Philistines facendo notare che l’azione del libro si svolge nel 1925 mentre il capitalismo europeo si era ristabilito, erano ricominciati i discorsi sul disarmo e i trattati di pace e l’America era nel pieno di un grande boom economico; una situazione che può far sembrare paradossale che potesse imporsi come un successo internazionale un simile romanzo nichilista e intriso di delusioni di guerra.
Farrell fa notare anche che questo aspetto paradossale è giustificato come segno di un ritorno alla prosperità mondiale post-bellica che recava con sé crescenti tracce di pacifismo mentre la delusione sulla guerra diventava un costume sociale. Naturalmente Farrell, fervente socialista, sostiene nell’articolo che una delusione di questo genere non può essere che nichilista e adolescenziale a meno che faccia da base a un orientamento radicale e progressista, insistendo che questo viene dimostrato nel libro, dove i personaggi “esprimono la loro amarezza e il loro disincanto con voluta temerarietà vantandosi entusiasticamente delle loro follie che possono diventare, come le loro azioni, pose e esibizionismi”. Infatti, sostiene Farrell, il libro influenzò i giovanissimi molto più che i coetanei: Hemingway “può avere descritto i sentimenti di tanti che avevano combattuto in guerra, ma la maggior parte di loro cercava in qualche modo di sistemarsi e di adattarsi agli Anni Venti”. Invece nelle università gli studenti parlavano come i personaggi di Hemingway e i giovani reagivano contro le regole e le convenzioni degli anziani, soprattutto contro le norme della società borghese, in una ribellione che restava rigorosamente apolitica. Secondo Farrell questa fu la ragione per cui Hemingway influenzò la nuova generazione; ma in una parentesi libera dall’influenza socialista Farrell riconosce che il libro era “stimolante e aveva uno straordinario potere di suggestione, convincendo il lettore della reale partecipazione di Hemingway alla vita di uomini e donne molto reali. Il suo uso del dialogo aiutava enormemente a creare questa impressione. Altri, specialmente Ring Lardner, avevano preceduto Hemingway nell’esplorare e rivelare le possibilità letterarie del vernacolare americano, ma Hemingway lo usava con abilità e originalità sorprendenti”.
Poi Farrell torna a immergersi nella sua ideologia e afferma che Hemingway “è uno scrittore di visione limitata, non ha una prospettiva vasta e fertile della vita”. I giovani imparavano da lui a trattare argomenti comuni e una parlata quotidiana, ma imparato questo avevano poco o altro da ricavare da lui. L’Europa descritta nel libro è una Europa da turisti degli Anni Venti e quando l’azione si sposta in Spagna e alla Fiesta il clima è quello di personaggi in vacanza.
Sono personaggi senza passato, dal quale fuggono e del quale non vogliono neanche parlare, dice Farrell: vivono nel presente cercando sensazioni nuove e fresche; in realtà non pensano e “il realismo di Hemingway tratta più che altro le sensazioni. A salvarlo dalle asprezze di un semplice behaviorismo è stata la sua capacità di suggestione e la sua abilità di understatement. La visione morale nella sua opera si pone su un piano di semplicità simile a quella dei suoi personaggi e dei suoi argomenti”.
Dimenticando di nuovo la sua ideologia Farrell conclude che Hemingway “è arrivato sulla scena letteraria maestro assoluto dello stile che ha fatto suo… e che The Sun Also Rises rimane uno dei migliori romanzi americani degli Anni Venti”.

VI.

Non era ancora finito il clamore suscitato da The Sun Also Rises che, tre anni dopo, uscì A Farewell to Arms, un altro romanzo tragico, dove l’amore diventa monogamico ma non per questo si sottrae al destino di morte che sovrasta tutte le creazioni di Hemingway.
Il giovane tenente americano che dopo aver fatto “una pace separata” fugge da Caporetto, passa il confine con la Svizzera, vive in un’estasi di felicità una delle più grandi stagioni di amore letterario di tutti i tempi e vede morire di parto la splendida reincarnazione della dolce infermiera di Milano, dolce alla Kipling, dolce alla Hadley, dolce come erano gli “angeli del focolare” vagheggiati ancora in quegli anni del primo dopoguerra, resta un caposaldo delle invenzioni hemingwayane, magari autobiografico in certi momenti fino alla cronaca (a parte Caporetto che Hemingway non ha mai visto).
Ad accogliere il libro, questa volta, quasi con fastidio di Hemingway, fu un coro di lodi. A parte la più o meno dichiarata stroncatura di Edmund Wilson, i critici furono unanimi nell’accettare il romanzo.
Percy Hutchinson disse che A Farewell to Arms era “un grande successo in quello che si poteva definire il nuovo romanticismo”, Clifton Fadiman lo definì “l’apoteosi di una specie di modernismo”, Malcolm Cowley ritenne il titolo simbolico di un “addio a un periodo, un atteggiamento, e forse un metodo”, Henry Seidel Candy difese il linguaggio “sporco” che aveva preoccupato i censori di Boston, Allen Tate disse che il libro era un capolavoro facendo felice il suo autore. Dorothy Parker, quasi fanatica ammiratrice dell’amico con lei sempre scostante, pubblicò sul “New Yorker” un “profilo” famoso in cui disse che Hemingway era passato “dalla semplice fama nella leggenda vivente” e ribadì l’immagine ora famosa usata tre anni prima da Hemingway in una lettera a Fitzgerald, secondo la quale il coraggio è “eleganza nella difficoltà”, “grace under pressure”.
Molte recensioni furono tuttavia negativi, per esempio quella di Robert Herrick nell’articolo “What Is Dirt?” (Hemingway reagì scrivendo una lettera aperta al direttore della rivista su cui era uscito l’articolo), Aldous Huxley attaccò l’autore perché dopo una citazione del Cristo di Mantegna “torna a parlare di cose meno elevate… Non è insolito trovare gente intelligente e colta che fa del suo meglio per nascondere il fatto che non ha ricevuto un’educazione” (Hemingway che non aveva frequentato l’università si risentì e rispose all’attacco dello scrittore allora molto popolare), Robert McAlmon, l’editore di giovinezza, approfittò del libro per spargere pettegolezzi senza fondamento sul vecchio amico.
La stroncatura più illustre fu quella di Edmund Wilson, che nel luglio 1939 pubblicò sull’”Atlantic Monthly” il saggio famoso Hemingway: Gauge of Morale, poi ripreso nella raccolta The Wound and the Bow del 1947. La lunga carrellata di tutta l’opera di Hemingway deluse profondamente lo scrittore che si sentì attaccato dal vecchio amico. A proposito di A Farewell to Arms Wilson dice: “Naturalmente è scritto benissimo ed è molto commovente. Probabilmente nessun altro libro ha colto così bene la stranezza della vita nell’esercito per un americano in Europa durante la guerra”. Wilson accenna alla novità dei luoghi in cui un simile americano si ritrovava, gli stranieri scelti fra la gente di tutti i giorni quali li vedeva vivendo e lavorando con loro, i piaceri coi quali cercava di “imbrogliare la guerra” resi più intensi dall’incertezza e dall’orrore.
A Farewell to Arms, dice Wilson, è una tragedia; e infatti da tempo la critica è concorde nel considerare Hemingway soprattutto uno scrittore tragico. Gli americani sono visti come vittime innocenti avulse dalle forze che li muovono: Wilson ricorda che in una lettera Hemingway aveva detto che questo libro era il suo Romeo e Giulietta. In questo clima tragico Hemingway scrisse le pagine in parte responsabili dell’accanimento fascista contro il suo libro: Wilson dice: “Il racconto della ritirata di Caporetto è il brano di prosa più forte mai scritto da Hemingway”.
Ma subito dopo aggiunge il giudizio che ferì Hemingway: “Quando Catherine e il suo amante emergono dal fiume dell’azione… vediamo che non sono convincenti come personalità umane”. Wilson si mostra sorpreso dal fatto che Hemingway, così abile nel cogliere il tono dei vari tipi sociali e nel farli parlare in modo appropriato, non abbia mostrato un vero interesse per i due protagonisti e sembra risentito che “il centro della storia non consista nelle personalità ma nella emozione suscitata dalle situazioni”. Wilson insiste affermando che nei due amanti protagonisti “si può scoprire soltanto un rapporto idealizzato, le astrazioni di una emozione lirica”.
Il resto del saggio aggrediva con la stessa malevolenza gli altri libri dell’antico amico; Hemingway reagì chiedendo a Maxwell Perkins, riferendosi al titolo della raccolta in cui era stato pubblicato il saggio, se la Wound, la ferita, era l’omosessualità, l’impotenza o semplice cattiveria. Quanto al Bow, l’arco, ne aveva uno buonissimo “ed era questo che Wilson non gli perdonava: una volta o l’altra, quando avesse scritto le sue memorie personali, avrebbe accoccato una freccia e l’avrebbe tirata a Bunny” (era questo il nomignolo di Wilson).
Meno illustre di Wilson ma forte della sua posizione tra i letterati del Sud, Edgar Johnson nel 1940 affrontò i denigratori di Hemingway stimolati dalle riviste “serie” ma inflazionati dagli scimmiotta tori nei pettegolezzi dei giornali.
Johnson ricordò che uno di questi giornali scrisse di Hemingway: “Come essere pensante ha molto da imparare”; un’aggressione che il critico attribuì non tanto alle nascenti tendenze della politica di Sinistra quanto al fatto che Hemingway “è un intellettuale che ha rinunciato all’intellettualismo”, una colpa che nessun intellettuale è disposto a perdonare. Più avanti nel saggio Johnson affermò che in A Farewell to Arms “è la società nel suo insieme a venire respinta, come responsabilità sociale. Il tenente Henry vive nella guerra ma come uno spettatore, rifiutandosi di venire coinvolto e conduce una vita privata come individuo isolato”. “Ha respinto il mondo”, dice Johnson, ricordando la celebre frase hemingwayana citata in tutte le biografie e ripresa da una delle miniature di In Our Time: “Avevo fatto una pace separata”.

mercoledì 26 giugno 2013

Appunti su Hemingway (2)

(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)

III.

Hemingway aveva un suo modo irresistibile di essere generoso con la gente non importante. Un giorno uno dei suoi editori lo invitò a colazione a un lungo tavolo onorato da ospiti illustri e mentre veniva servito il cosiddetto “secondo” arrivò un ragazzo e dopo aver salutato l’editore sedette su uno sgabello del bar. Hemingway chiese all’editore perché il ragazzo non fosse seduto a tavola e l’editore gli rispose che era stato invitato soltanto per il caffè. Senza fare commenti Hemingway andò a sedersi accanto al ragazzo al banco del bar e rimase con lui finché tutti si alzarono.
Una volta a Cortina una guardarobiera dell’Hotel Poste venne ricoverata in ospedale e scrisse a Hemingway angosciata perché nessun dottore andava a visitarla. Hemingway la rintracciò in ospedale e rimase accanto al suo letto abbastanza a lungo perché tutti i medici di turno venissero a guardarlo come si fa con gli animali allo zoo. Lo scrittore non chiese niente a nessuno, ma la malata la sera stessa venne trasferita dalla corsia in una camera “singola” e ricevette una processione di medici che andavano a interrogarla su Hemingway ma in qualche modo si occupavano anche della sua malattia.
Hemingway lavorava ogni mattina cominciando all’alba proprio con “la disciplina e la pazienza” evocate da Cowley e a tavola raccontava l’episodio appena scritto cambiandolo da diverse angolazioni, per provarlo davanti a “un pubblico”. Uno dei suoi modi di essere generoso era quello di ascoltare con intensa attenzione qualunque cosa gli dicessero, importante o no: in realtà registrava nella memoria, che non lo ha mai tradito fino al massacro degli elettroshocks, ogni inflessione di voce, ogni espressione sui volti, ogni gesto di chiunque gli parlasse; prima o poi li avrebbe tradotti in un racconto o in un episodio. Quando era lui a parlare, lo faceva con la sua leggera balbuzie, che copriva con la voce sempre bassissima, come s confidasse un segreto in un’intesa tra complici, e spesso usava la sua “lingua franca”, un miscuglio di inglese, francese, tedesco e spagnolo che faceva davvero sentire complice chi lo capiva; se voleva rendere esplicita la complicità si posava un dito sotto l’occhio destro e sorrideva di sbieco, alla Clark Gable.


IV.

Hemingway parlava spesso di The Sun Also Rises che con Death in the Afternoon restò sempre il suo libro preferito; diceva che A Farewell to Arms era immorale mentre tutte le azione di The Sun Also Rises erano morali.
La storia di The Sun Also Rises, intrisa di ineluttabile tragedia, aveva tutti i segni del suo mondo poetico. La protagonista Brett, apparentemente ninfomane e alcolizzata, aveva conosciuto la guerra come infermiera, aveva visto morire l’uomo che amava, aveva sposato uno psicotico che la maltrattava e, precipitata nel declino fisico e psicologico, stava per sposare un playboy ma era innamorata di Jake, un reduce di guerra che una ferita aveva reso impotente, col quale conduceva un amore platonico cercando insieme di controllare la sua attrazione fisica per il giovanissimo torero Romero. Vincerà la “morale” e Brett rinuncerà a Romero rifugiandosi tra le braccia del fidanzato platonico perdutamente innamorato di lei. L’ultima scena del libro la vede poco dopo aver rinunciato al torero, abbracciata a Jake su un taxi, mentre gli dice: “Saremmo stati così bene insieme”. La battuta finale del libro è il famoso understatement di Jake: “Yes. Isn’t pretty to think so?” tradotto da Giuseppe Trevisani: “Già. Non è bello pensarlo?”.
Il libro suscitò scandalo e fu accolto da un fiume di recensioni. Il poeta Conrad Aiken parlò della “dignità nela raccontare una storia un po’ sordida ma intensamente tragica”, Herbert Gorman disse che il libro descriveva “una grande débacle spirituale, una generazione che ha perduto i suoi scopi”, Allen Tate scrisse che Hemingway aveva prodotto un romanzo di successo, popolare, dove “il sentimentalismo appare esplicitamente per la prima volta nella sua prosa” e aveva usato “la maggiore intensificazione possibile dell’oggetto osservato”, Edmund Wilson nel 1927 scrisse che il libro è “un cristallo di chiaroveggente” in cui si trova “l’immagine della comune oppressione”, che Hemingway “è un maestro della miniatura, essenzialmente un poeta non abituato alla vastità del romanzo e che ha perduto in parte il controllo dei suoi materiali”, Robert Liddell osservò che il libro “conquistò il succèss de scandale di un romanzo a chiave inondato di vino di seconda scelta”.

martedì 25 giugno 2013

Appunti su Hemingway (1)

(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)

I.

Hemingway non abbe mai un buon rapporto con la critica e i saggi scritti su di lui. Li leggeva con diffidenza, sempre più convinto che i critici sono soprattutto dei parassiti degli scrittori e questo atteggiamento non gli attirò certo la benevolenza dei recensori, già esasperati da quel suo modo di essere “personaggio” almeno tanto quanto scrittore, una colpa sempre imperdonata dai letterati in tutti i tempi e in tutti i Paesi.
Uno dei saggi che invece Hemingway accettò con simpatia nel corso di una lunga amicizia fu A Tragedy of Craftmanship del critico e traduttore russo Ivan Kashkeen, attento conoscitore hemingwayano e traduttore di due racconti nel 1934. Piacque a Hemingway la definizione di Kashkeen Mens morbida in corpore sano con la quale il critico riassumeva come caratteristiche dello scrittore americano “l’affermazione della vita e il torpore di fronte alla visione della morte, il pessimismo sanguigno e la disperazione repressa, la sincerità cinica di tante sue pagine e il suo cattolicesimo scettico, l’abile rozzezza e la complicata semplicità, la brevità tautologica dei suoi dialoghi e la precisione dei suoi accenni, infine il suo spasmodico sorriso senza gioia: groviglio di conflitti che ha le sue radici nella tragica disarmonia Mensa morbida in corpore sano, la discordia mentale che minaccia di provocare la disintegrazione del corpo e la sua distruzione”.
Hemingway tenne una lunga corrispondenza con lui e ancora nel 1952 scrisse a Edmund Wilson: “Ho conosciuto i Russi soltanto attraverso Kashkeen che non avevo mai incontrato ma scriveva bellissime lettere e secondo me, dentro la sua camicia di forza dottrinaria, era un critico meraviglioso. Credo sapesse meglio di me quello che stavo cercando di fare”.
A Kashkeen fece confidenze letterarie e anche confidenza politiche importanti (“Non posso diventare comunista adesso perché credo in un’unica cosa: la libertà… Dello Stato non mi importa niente… Credo nel minimo di governo… Uno scrittore è come uno zingaro. Non può fare concessioni a nessun governo”).
La popolarità dei suoi libri nell’Unione Sovietica lo rese felice perché dimostrava che alla gente poteva piacere un autore a prescindere dalla sua posizione politica e lo legò ancora di più a Kashkeen che riteneva artefice del suo successo in Russia. Forse Hemingway esagerava; ma può darsi che questo lungo saggio di trentadue pagine che prendeva in esame “la figura leggendaria” dello scrittore e uno per uno i suoi vari libri abbia esercitato qualche influenza sugli intellettuali sovietici. Il saggio è ricco di annotazioni di prima mano, per esempio: “Non si trova più di un’immagine o di una similitudine in tutto un racconto”, “Hemingway cerca nuove armonie, instabili ma convincenti, di mezzi di espressione solo fissando gesti e situazioni esterni… Per esempio centrando tutto un racconto su un’unica parola non pronunciata”, “L’accumulazione dei particolari nei suoi racconti sembra non necessariamente naturalistica finché d’improvviso si scopre una frase gettata nel testo come per caso per fondere i particolari “non necessari” in un’unica catena logica”. Il saggio parlava di Hemingway “sempre senza gioia e sempre lo stesso sotto nomi diversi, tale da far immaginare lo scrittore morbosamente reticente, sempre represso e discreto, molto intento, molto stanco, spinto da un’estrema disperazione a sopportare dolorosamente il peso troppo greve delle complicazioni della vita”.
È perfino strano che un critico che ha conosciuto un autore soltanto attraverso i suoi scritti possa aver individuato così da vicino la personalità e le caratteristiche del suo autore; ed è ancora più strano che questo saggio abbia avuto così poca risonanza nell’ormai colossale quadro di commentari su Hemingway.

II.

Molto più popolare è il Portrait of Mr. Papa di Malcolm Cowley: Cowley era stato suo compagno nella fase della Generazione Perduta. Il ritratto, uscito nel 1949, conduce una carrellata critica e storica sulle opere sulle opere giovanili di Hemingway e fu la prima fonte attendibile per i volumi usciti fino allora. I commenti di Cowley presentano Green Hills of Africa come il suo “libro meno soddisfacente”, The Sun Also Rises come un successo immediato che offrì ai giovani “atteggiamenti e modelli di condotta da seguire come Lord Byron aveva fatto un secolo prima”, ricorda che For Whom the Bell Tolls durante la Seconda Guerra Mondiale veniva usato dai soldati americani e russi come libro di testo della guerriglia. A questi giudizi Cowley alternò notizie biografiche per la prima volta autorizzate da Hemingway, scegliendole in modo da formare un ritratto di vita vissuta: un ritratto molto meno teorico di quello di Kashkeen ma ricco della conoscenza diretta del compagno di giovinezza.
Nel suo “ritratto” Cowley ha parlato del gusto di Hemingway per le tavolate patriarcali dove allo scrittore piaceva pagare il conto a tutti, degli occhiali militari bordati di metallo che lo facevano sembrare un erudito e del sorriso irresistibile che lo faceva sembrare un ragazzino ormai con la parrucca grigia, del suo modo di parlare sottovoce in modo confidenziale, del consiglio dato in una lettera a un giovane scrittore: “Quando la gente parla ascoltala fino in fondo. Di solito non si ascolta mai”, delle qualità necessarie per essere suoi amici (coraggio fisico o morale, capacità di essere affidabili nei momenti di crisi), il suo modo di essere romantico di natura e di innamorarsi come “un grande abete che precipita nel sottobosco”, il suo puritanesimo che lo faceva rifuggire dai flirts e impegnarsi negli amori fino al matrimonio e gli faceva considerare un “personale fallimento” la fin di un matrimonio, “la disciplina e la pazienza” con cui ha guidato il suo talento e ha respinto qualunque cosa scrivesse che gli pareva inferiore alle sue qualità.
Ancora oggi, dopo tante biografie e tante analisi psicologiche, per lo più di studiosi che non hanno mai conosciuto Hemingway di persona, queste confidenze spontanee di Cowley restano le più aderenti alla figura privata dello scrittore ormai influenzata dalla pubblicità spesso involontaria della stampa.

mercoledì 19 giugno 2013

Fa caldo. Mortadella. Jarry. Spiritosone. Idea balzana


In realtà potrei fermarmi al titolo perché è tutto lì e anche perché, facendo un caldo della madonna, non è che abbia molto la voglia o la forza di scrivere.
Magari se avessi il pc fuori al balcone, con un po' di brezza e una granita...ma il pc è in casa e di granita manco per il cazzo.
Però non me la sento di privare il mondo dei miei post. Sono una persona altruista e responsabile.
Bene, del caldo puttano ho parlato anche troppo. Andiamo avanti che qui non siamo su una fottuta bacheca di facebook.
Oggi ho avuto una discussione con mia sorella per quanto riguarda i salumi che portiamo sulle nostre tavole casalinghe e che mangiamo con tanto gusto.
I salumi che si comprano più spesso sono essenzialmente quattro: prosciutto cotto, prosciutto crudo, mortadella, salame. Sì, ce ne sono anche altri, ma non cacate il chezz. Pigliamo questi quattro come esempi. La teoria dice quattro salumi, ma cosa dice la pratica?
La pratica ci dice che il 90% delle volte finiamo per comprare il fottuto prosciutto cotto.
A me il prosciutto cotto (quello chiaro, per intenderci) comincia veramente a starmi sul cazzo. Lo odio.
Allora sapete che ho deciso? Che compro sempre e solo mortadella. Perché? Perché mi piace un casino.
Mia sorella la menava con la varietà, che è stupido comprare sempre lo stesso salume.
No, le ho risposto. TU ERRI. La varietà ce l'hai SOLO nel cervello, ipoteticamente.
In realtà finisci per comprare solo il prosciutto cotto. Non vari mai o quasi mai.
Da qui la decisione: si compra sempre e solo mortadella.
Stamattina sono andato a Napoli a fare una radiografia particolare (sai, quelle nuove stronzate computerizzate) e il medico ha fatto lo spiritosone sulla mia corporatura. Eh eh eh, la dobbiamo rifare, eh eh eh sei grosso, non ti ho inquadrato bene eh eh eh ci vai giusto giusto nella radiografia eh eh eh...ora: 1. io non sono grosso, sono robusto. 2. se tu non sai fare le cazzo di radiografie son problemi tuoi. 3. chi ti dà tutta 'sta confidenza? Ma vaffanculo va'.
Comunque non ho pagato perché è un metodo nuovo e sperimentale. Fottiti.
Passiamo ora all'idea balzana. Vorrei scrivere un racconto che cominciasse con "Dio cane!". Sì, lo so, è un'idea balzana ma tant'è, che ci posso fare? Ovviamente il racconto dev'essere bello, non mi va di fare il coglione e scrivere una scemenza solo per soddisfare la voglia di avere un incipit blasfemo.
Promesso. Solo un racconto bello. Però sono intrigato, gli artisti son fatti anche così.
Chiudiamo ora con Jarry che mi ha fatto compagnia nella sala d'attesa del medico con Messalina.
"...Si arriva così alla sera del 10 dicembre 1896: Ubu si materializza sulla scena dell'Oeuvre, lancia il suo famoso Merdre! e scatena il putiferio fra il pubblico. Jarry capisce che il borghese ha un unico punto in comune con il teatro: la poltrona su cui è seduto."

lunedì 17 giugno 2013

Appunti su Pirandello (6)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la sesta e ultima parte.)


Nei due romanzi che con Il fu Mattia Pascal restano le prove più impegnative tentate nel genere (I vecchi e i giovani e Uno, nessuno e centomila), Pirandello affronta due tecniche e due concezioni diverse. Rispetto al Fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, pubblicato in volume nel 1913, segna un passo indietro. Impegnandosi nel grande romanzo sociale, nel grande affresco storico della sua regione, in un “amarissimo e popoloso romanzo” ov’era raccolto il dramma della sua generazione, egli si rifaceva ai Viceré di De Roberto. Interrompeva l’applicazione nella narrazione dei suoi tipici procedimenti dialettici, e di scomposizione della realtà psicologica individuale. È una realtà più vasta che lo interessa: la realtà politica, che gli individui in quanto partecipi di quella società in crisi, divisa, nel periodo dei Fasci siciliani (1893), esprimono nelle lotte e nei tumulti sanguinosi. Ma la conclusione cui s’avvia quell’insieme di fatti ed esperienze contraddittorie non cambia: l’insoddisfazione di una giovinezza tradita, il fallimento. Si possono individuare nel romanzo l’acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’Unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale. E insieme si ha la storia dei fallimenti individuali: dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno, dei giovani che si sentono soffocare in una società ormai cristallizzata che non permette l’azione trasformatrice e, quindi, il libero esprimersi della personalità. Ma, per quanto degno di considerazione, il romanzo resta lì fermo nella produzione pirandelliana, e quasi non permette, nella linea sicura che disegna, possibilità alcuna di svolgimento.
S’inserisce invece assai problematicamente nello sviluppo dell’attività teatrale di Pirandello e nel gioco delle sue forme l’altro romanzo: Uno, nessuno e centomila.
Il romanzo uscì a puntate sulla “Fiera letteraria” (dicembre 1925 – giugno 1926), con un lungo sottotitolo: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri. Il figlio Stefano, in una sua appassionata presentazione, tenne a dichiarare che il padre lavorava a quel romanzo da quindici anni. E dichiarazioni in tal senso non mancano neanche da parte dell’autore, che già nel 1912 diceva d’aver per le mani, dopo I vecchi e i giovani, un altro romanzo. Stefano Giogli, uno e due (1909), novella da cui nacque l’idea del romanzo, non è soltanto una “traccia” del romanzo. Alcune scene (quale quella della moglie che si pettina) le avevamo già lette nel racconto: Moscarda e Dida mantengono rapporti non dissimili da quelli tra Stefano e la moglie. Stefano scopre in sé una personalità nuova data dal “disgregamento” del proprio essere; nel romanzo si parla di “scomposizione”.
Ma quel passaggio dalla novella al romanzo resta alquanto nuovo e isolato nella storia di Pirandello. Si giustifica solo collocandolo entro una nuova fase della sua produzione. Sviluppare il tema significava approfondire quel rapporto di gelosia-amore tra moglie e marito per colpire l’essenza stessa della personalità; e ciò era, in quegli anni e in vista del lavoro futuro, particolarmente attraente. “Scomporla” per aver, dentro, la rivelazione del nulla, in quell’essere “tanti” che significa essere “nessuno”. Non solo una novella si sarebbe potuto scrivere su quel tema, ma un grande romanzo, ricco d’incontri e di personaggi, con andamento ironico progressivo, che avrebbe raggiunto i limiti dell’ossessione. Dal caso banale, tratto dalla vita d’ogni giorno: guardarsi allo specchio con insistenza e scoprirvi un’imperfezione fisica (il naso, vago spunto letterario), fino al buio dell’essere, quasi sradicato, nella sua coscienza, nella sua fermezza. I più famosi santoni della narrativa ottocentesca s’erano industriati a costruire il loro personaggio pezzo per pezzo. Egli quel personaggio si sarebbe “divertito” a smontarlo, con umorismo, con ironia crudele, di chi vede l’uomo inghiottito dall’ombra che lo segue dappresso. Non è più l’uomo, come in Schlemihl, come in Mattia Pascal, che ha ceduto l’ombra, bensì l’ombra che ha perduto l’uomo: ombre vane spettrali, in cerca d’un corpo. I Sei personaggi sono già silenziosamente in marcia verso il palcoscenico del loro teatro.
Ma, se il modello ideale di Mattia Pascal era Schlemihl, Gengè Moscarda e il suo romanzo possono vantare progenitori ben più complessi. Senza andar tanto lontano, è al Tristram Shandy di Sterne che bisogna guardare. Al suo ritmo mobilissimo e continuamente interrotto, ai suoi brevi capitoletti staccati, all’uso smodato dell’”opinione” che ostacola l’azione, alla tessitura umoristica e disordinata di tutto l’insieme, che fa pensare l’ultima e travagliata fatica narrativa di Pirandello (richiamo tanto più significativo in quanto solo pochi anni prima il romanzo di Sterne aveva avuto la sua completa traduzione in italiano). L’ombra sfuggente e inafferrabile del personaggio inglese già può riconoscersi nel lungo sottotitolo: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri che richiama l’esempio settecentesco: La vita e le opinioni di Tristram Shandy (in nove tomi). E la trasformazione di questo agilissimo personaggio nella figura tanto più greve e isterica di Gengè, può essere suggerita anche da alcuni temi centrali.
Ad esempio, chi non conosce la ricca letteratura umoristica e burlesca su quell’insigne attributo della nostra personalità che è il naso, da Erasmo, a Bruscambille, a Cyrano? È difficile per chi segua Gengè nella rivelazione che provocherà il cataclisma romanzesco (il suo naso pende verso destra) non pensare a Gogol. Ma l’autentico antenato del naso di Moscarda è lo sfortunato naso schiacciato di Tristram, fonte di dotte dissertazioni erudite e di fantasie. Le opinioni sterniane sono del tutto diverse dalle elucubrazioni di Gengè, ma servono a turbare, a interrompere, come aveva scritto Pirandello, il movimento spontaneo della narrazione: un procedimento fluttuante e discontinuo, nelle sabbie mobili dell’essere, consentito dall’interpretazione umoristica del personaggio, che si abbandona a un movimento circolare da cui egli non potrà più uscire. Pirandello ai brevi capitoletti sterniani ha aggiunto titoli colloquiali e ironici: ma essi apparivano già in traduzioni settecentesche del Tristram Shandy: senza essere sua invenzione, si rivelano mezzo efficace per fermare la pluralità d’atteggiamenti dell’homo absurdus.
L’incubo del fallimento di questo libro (che si trascina per anni nella mente, e sullo scrittoio, di Pirandello) si risolse in una fortuna di cui l’autore ebbe coscienza solo più tardi. Anche in questo caso Pirandello si rivelò inadatto a scrivere il romanzo-capolavoro, il libro unico che possa suggellare tutta una vita. In un eterno vagabondaggio tra la riflessione e la cronaca, si trovò a sperimentare la sua stessa concezione, esercitandosi in una serie di tentativi, che andavano dal fatto quotidiano al caso clinico. E Uno, nessuno e centomila, già relegato sul tavolo dello scrittore come un rimorso, diventò col tempo, come scrisse Stefano, non un fardello ma una ricchezza: continuo punto di riferimento, eccitazione, per frammenti, di scene ed apoftegmi che si sarebbero sviluppati, con maggiore assolutezza e vigore, sul palcoscenico. Quel romanzo raccoglieva un po’ di tutto: sfoghi sentimentali, illuminazioni dialettiche, considerazioni, cose viste; era un lungo diario di sensazioni, paesaggi, ricordi, indirizzato al silenzioso personaggio pirandelliano (una variazione colloquiale del tu montaliano) che a teatro si chiamerà “caro signore”, ma in cui non si riconosce mai un reale interlocutore: ad esso qui viene riservato l’indistinto plurale nebbioso: “belli miei, cari miei, signori miei”. Da un romanzo da fare sempre in fieri, nascevano pagine, battute, che verranno trasportate sia nelle novelle, in una pur ridotta misura ideale di svolgimento, sia in lavori drammatici, oggi famosi.
La critica si è accorta solo in parte di questa tecnica mutevole di trasposizioni che sono alla base, ancor più che in altre opere, di Uno, nessuno e centomila e della produzione novellistica e teatrale di Pirandello tra il 1910 e il 1922 circa. Sono rapporti precisi: veri e propri “plagi” da se stesso. Vi sono pagine che appaiono prima in una novella; poi, sviluppate, ricompaiono in un articolo di rivista del 1915, col titolo Ricostruire, e infine prendono il loro posto definitivo nel romanzo. La descrizione minuta della casa paterna di Gengè, l’eroe del romanzo, l’avevamo già letta, con scarse varianti, in una novella pubblicata sul “Corriere della sera” nel 1923 (Ritorno). Si ritrovano gli stessi nomi, come se lo stesso Pirandello non volesse nascondere quelle tracce, nel romanzo e in novelle anteriori: monsignor Partanna, Antonio Sclepis, don Arturo Filomarino; le stesse situazioni, gli stessi temi (la coperta di lana verde che nella fantasia del malato diventa un prato o un campo di grano, in una novella, in un atto unico e nel romanzo); certe sensazioni irritanti (come le zampine del canarino che raspa sullo zinco della gabbia), e, per finire, addirittura intere celebri battute che nel romanzo sono messe in bocca al monologante Gengè e in teatro appartengono a Enrico IV e al Padre dei Sei personaggi.
Da questi rapporti si possono ricavare indicazioni ancora più precise, di quanto non è stato fatto finora, sul modo con cui lavorava Pirandello. Penso che non sia da accettare quel che fu più volte riferito: che egli componesse tutto nella testa, precisando fino ai minimi dettagli, che riteneva magi per anni, con memoria portentosa. “Poi finalmente si metteva a tavolino, e dattilografava come sotto dettato, senza più tornare sul lavoro se non per correzioni di parole”. Le citazioni prese dagli stessi scritti di Pirandello, le varie redazioni dell’Enrico IV e tutta la lunga e frammentaria elaborazione di Uno, nessuno e centomila smentiscono questa tradizione. Era lo stesso concetto del personaggio “scomponibile” nella sua realtà psicologica e morale che ne rendeva possibile l’utilizzazione su piani diversi.
E il procedimento ch’egli seguiva era ben diverso da quello creduto da alcuni critici, fedeli alla data di pubblicazione del romanzo. Non le pagine di Uno, nessuno e centomila sono state riprese da novelle già pubblicate. Ma più d’una volta quelle stesse pagine hanno dato lo spunto o hanno offerto la citazione ad alcune novelle e a momenti dei suoi drammi. È assurdo credere, badando soltanto alle date, ch’egli ad esempio, riprendesse nel 1925 dai Sei personaggi, ormai famosi, pezzi di dialogo per inserirli nel grosso calderone del romanzo. È vero se mai il contrario: che quel manoscritto, nelle continue presene e assenze dal suo tavolo, avesse cominciato a servirgli come una ricca miniera da sfruttare. In Uno, nessuno e centomila si possono ricostruire i frammenti di un grande, interminabile monologo interrotto.
Sarà stata una delle ragioni per cui egli tanto stentò a pubblicare un’opera ove motivi vecchi e nuovi s’intrecciavano, e una modernità d’impianto veniva non di rado schiacciata da una pesante tematica. “Il dramma per me è tutto qui, signore”, sembra che dica Pirandello rivolgendosi non al capocomico ideale ma all’editore che cerchi di convincerlo a dar finalmente alla luce il suo Moscarda. “Questo personaggio doveva annunziare i grandi personaggi del mio teatro, e ne è oggi, di essi, soltanto l’eco.” E quando quel manoscritto fu dato finalmente alle stampe, la sua pubblicazione coincise con il lungo addio al romanzo e con il tramonto della felice stagione dello scrittore. Malgrado recenti rivalutazioni, il vero Pirandello, narratore e scrittore di teatro, è tutto precedente al 1925: l’anno in cui uscì Uno, nessuno e centomila.

domenica 16 giugno 2013

Appunti su Pirandello (5)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la quinta parte, in totale saranno sei.)

Il “dispositivo” della novella, genere in cui s’esercitò dagli inizi della sua carriera fino, con vuoti e ritorni sempre più fiochi, a pochi anni prima della morte, servì a Pirandello anzitutto per saggiare attraverso scorci violenti o incerti spiragli, la ricchezza, la vastità, la densità, più che la qualità del “mondo” da rappresentare. Uno strumento di conoscenza, messo in opera con costante e tranquilla sicurezza: come di uno cui non spetti altro che guardare, che attendere. Nell’itinerario di Pirandello narratore dall’inizio fino alla maturità non si denunciano momenti d’incertezza e di crisi. Egli corre per la sua strada, come sulle linee di ben bilanciate e lucide rotaie. Le stroncature non lo smuovono perché, sembra, ha altro cui pensare. La proliferazione ininterrotta di fatti, di eventi che formicolano nelle sue novelle e che provocano risse, pianti, dolori, amori, risa, indica entro quale ridda di voci l’umanità battesse davvero alla sua porta, come egli dice dei suoi personaggi.
Nessun altro scrittore dell’epoca denuncia un così vivo e diretto rapporto con il “caso” umano, in quel suo aggrovigliato ragionare, rendersi conto, domandare, interrogare, in quei suoi tentativi di sistemazione dialettica, in quel suo passaggio dal “caso” al “problema”.
La prima impressione che si riceve dalla lettura delle novelle riguarda l’invenzione. Si ripeterebbe volentieri una frase: qui “l’invenzione denuncia se stessa. C’è qualcuno che inventa”. E si sa che chi inventa non va troppo per il sottile. Anche la natura non ha tempo per i capolavori che le nascono quasi per caso. E questo accordare il suo ritmo a quello della natura, impedisce all’autore sforzi in senso ascensionale, verso qualcosa di perfettibile cui affidare tutto se stesso. Il concetto di “vita nuda”, cui rimase fedele, implicava la visione, come egli disse, di una materia senz’ordine apparente, irta di contraddizioni, quale appunto si conviene ad un umorista, lontanissima dal congegno ideale delle “comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano”. Il grande artista tende all’armonia attraverso il “capolavoro”, dalla ferma oggettività formale, ove tutte le incrinature vengano saldate nel bronzo: luogo di riferimento e di protezione per l’umanità infreddolita dalle tenebre, immersa nel buio.
Pirandello costruisce pezzi disarmonici. Utilizza la dissonanza come scatto di ripresa per una soluzione che viene di continuo rimandata. Il suo ideale consisterebbe nel raggiungere una scrittura di cose, perché il gusto della forma, se egli lo perseguisse, stonerebbe con la sua arida e nuda concezione del mondo, suonerebbe ambiguo e falso compiacimento, orribile “letteratura”. Nei momenti di più scarna oggettività non una novella sulle cose egli desidererebbe scrivere, ma la cosa stessa. E invece dietro quella cosa s’indovinano risonanze vacue e dolorose. C’è il vuoto, quel vuoto sospeso pirandelliano tanto più greve quanto più pesanti, densi gli oggetti che sono stati scelti ad evocarlo. Non s’intravedono tappe possibili di un cammino per cui il caos diventi cosmo; ma figurazioni apparenti di un falso cosmo che ricominci ad essere caos. Si aprono le infinite suggestioni dell’anarchia.
La stessa sua sintassi ripugna dalle forme concluse e sonore, da tutto ciò che si configurerebbe come ineccepibile e durevole figura stilistica. Piega il discorso a una discontinuità che gli permetta di riprodurre mimeticamente gli aspetti della realtà umana, giungendo ad una forma di teatralizzazione del linguaggio, se così può dirsi, quale forma spinta di “dialettalità”. L’uso del parlato asintattico, della lingua quotidiana, opposta alla “lingua dei morti” che dorme nei grandi testi della tradizione letteraria, la stessa banalità di un lessico, preso nei suoi valori contemporanei, privo di profondità storica, e l’uso degli esclamativi, degli interrogativi, delle interiezioni e degli avverbi e degli infinitivi, dettero indubbiamente la migliore sostanza di ardente sorpresa al suo teatro, fino all’afasia, alle suggestive interruzioni della parola. Ma non fino al punto che in quel celebre stile di cose (di cui vedeva l’esempio più grande in Giovanni Verga), di cose che “nascono e vi si pongono davanti sì che voi ci camminate in mezzo, vi respirate dentro, le toccate: pietre, carne, quelle foglie, quegli occhi, quell’acqua”, in quello stile che testimonia “lo sforzo lucido che deve durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire”, non s’inserisca, come il folletto di una rappresentazione popolare, il piacere dell’effetto. La teatralizzazione del linguaggio s’aggrava in istrionismo in quel rapporto tra l’effetto e la parola, come di una prosa che si appoggi, teatralmente, sulle stesse inflessioni della voce.
Due sono essenzialmente gli ambienti in cui il congegno della novella ha modo di scattare; da cui i fatti umani, in massima parte privati, bui, possono essere estratti, interpretati, come per opera di un curioso avvocato che compulsi in archivio polverosi registri: Roma e la Sicilia.
La Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio. Letterariamente, Roma era per d’Annunzio l’orto d’Academo: per Pirandello un portacenere, di materia vuota. D’Annunzio trasformava le chiede barocche, oscurate dal tempo, in pezzi d’oreficeria, i palazzi patrizi in grandi clavicembali d’argento; Pirandello mette un certo impegno a voltar loro le spalle. L’arte e tutta la grande tradizione dell’estetismo a lui contemporanea, da Pater a Ruskin, a Wilde, a Proust, sembra che non abbia diritto d’ingresso nel suo mondo, ove magre citazioni di Raffaello e di Tiziano sono soltanto pigre reminiscenze scolastiche. Paesaggi romani, visti dall’alto, sembrano cavati fuori per l’occasione da qualche vecchio baedeker. Certi notturni, a piazza San Pietro, diventano notturni di morte, in cui è viva soltanto l’acqua delle fontane e tutto il resto è quasi spettrale “nella silenziosa immota solennità”. E che Roma sia una città morta, chiusa nel sogno del suo maestoso passato, e che non voglia saperne di “questa vita meschina che si ostina a formicolarle d’intorno” è certezza per Pirandello inveterata. Nessuna malinconia decadentistica, fascinosa: ma una pesante tristezza esistenziale, che si nutre di una realtà che la città stessa rigetta. La Roma moderna, umbertina, quella di via Alessandria o dei quartieri della stazione, è come la “nausea” dell’altra Roma che non esiste più. In essa non c’è posto per balli a corte o nelle ambasciate: non c’è tempo per sentir musica di Bach nell’oratorio di via Belsiana, né per aspettar le fanciulle passare sulla piazza di Spagna infiorata. Ed è ragione di autenticità che egli non sia ricorso alle consuete “rispolverature” che fanno bello e che costano poco.
La società siciliana fu per Pirandello un condensato, entro specchi deformati, della società umana: un luogo di prove, di esperimenti e di visioni. In quello specchio curvo, ove le immagini apparivano lancinate in un’espressione non di rado grottesca, e in cui s’operava implicitamente la critica e il superamento del verismo, si rifletteva l’arretratezza di una società, vincolata ai pregiudizi e alle superstizioni, al parere più che all’essere, dilaniata dall’amore della “roba”, chiusa nell’ordine sacro della famiglia. Il nucleo famigliare è l’oscuro germe da cui nascono gli infiniti casi pirandelliani, in combinazioni sempre nuove e fortuite. È nella famiglia che le forme della vita e della morte appaiono strette, legate fino a togliere il respiro; è in essa che coesistono il presente, il passato e l’avvenire, i vivi e i morti, i vecchi e i giovani così che anche il romanzo che porta tale titolo, sembra l’allargamento, su un piano politico-sociale, di quel rapporto. Una società sottosviluppata ha di fronte lo spettro della miseria, e pur coltiva umoristicamente l’atavico e insulso sentimento dell’onore. “Iettatori” e “cornuti”, eletti a personaggi di prima grandezza, vengono patentati e disprezzati, mentre la terra, senza più nulla di turistico, respinge gli esseri umani: una terra bollente e arida, di vulcani, di zolfo e di polvere, ove le colonne dei templi greci guardano impassibili, entro l’ordine musicale scandito sul cielo puro, i disastri del caos, le fatiche degli uomini, i delitti della miseria, del sangue, delle spoliazioni, delle ruberie; una terra ove gli antichi pastori di Teocrito sono divenuti i briganti. Eppure, al di là di tutto, nell’uomo sempre più solo s’avvera il ritrovamento di una forza primigenia, dionisiaca, un’energia vitale che il dolore, le miserie civili non hanno fiaccato.
Ma Roma e la Sicilia, nelle novelle e nei romanzi, non divengono che rare volte teatro della condizione umana. Più spesso restano teatro della condizione sociale; ché per l’umorista Pirandello è la società che dà luogo al personaggio e al suo dramma. Egli segue ansiosamente le immagini della vita costretta a divenire teatro, ma non concepisce “l’uomo solo” in senso pascaliano. Se il personaggio tenterà di risalire gli anelli della catena del vivere sociale per arrivare per arrivare a quell’uno, scoprirà che “la solitudine non è mai con voi, è sempre senza di voi”. E se i suoi “eroi” non diventano personaggi crepuscolari, dai contorni indecisi, impegnati in una delectatio morosa, è che lo stato sociale di negatività fallimentare in cui vegetano è in stretto rapporto con una forza di vita repressa, che può scoppiare nel dolore, nella smorfia, nella pazzia, nell’insospettata sensualità, da una vita psichica sotterranea e infelice, in improvvisi paesaggi di una lontana e immensa felicità. La cartella clinica di questi “eroi”, letta in profondità, farebbe scoprire oscure ragioni delle loro nevrosi o dei loro isterismi e la gelosia e la pazzia: la pazzia, grande tema pirandelliano, che esercita su di lui un’attrazione d’orrore e di sgomento.
“Più geloso di una tigre, il padre le aveva inculcato fin da bambina un vero terrore degli uomini.” “Il corpo di lei nell’incoscienza prese a fremere tutto, d’un fremito voluttuoso.” Ferma a quell’inizio, un’ottima e castissima sposa si prepara a una irrefrenabile crisi sessuale. E sarà il sogno a svelarle la forza dei sensi, protetti fin allora dalla corteccia troppo spessa del suo pudore. Il grande tema simbolista del viaggio, dell’invito verso la luce di una terra lontana, un’isola, si apre nella stanza, ricca di tetri oggetti, ove il figlio veglia la madre moribonda, addormentandosi con sotto gli occhi il libro di geografia della figliuola, aperto a pagina 75. La testa sul libro, sgorbiato nei margini e con una bella macchia d’inchiostro cilestrino su l’emme di Giamaica, sogna felice, accanto alla madre che muore, d’essere stato nell’isola di Giamaica, “dove sono le Montagne Azzurre dal lato di tramontana…”: sviluppo narrativo in chiave piccolo-borghese della Vie antérieure o della Chevelure di Baudelaire. La bellezza del mondo, nel ricordo di una vita intatta, viene ricondotta nella stanza del computista, ricolma di note, libri mastri, partitari, stracciafoglia, dal fischio di un treno: “quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.” Sogno burocratico simile a quelli di qualche dolente e grigio personaggio di Maupassant. Morte-vita allacciate, l’una che rinnega e insieme esalta l’altra. La morte nelle cose, quell’odore che “cova nei luoghi che hanno presa la polvere, dove la vita è appassita da tempo” eppur immessa nell’ordine e regolata da utili e uggiose abitudini, e poi lo scatenarsi dell’istinto fino alla tragedia, come per una forza quasi demoniaca, perché “la vita”, dice un personaggio di Ciascuno a suo modo, “dentro e fuori di noi, - andateci, andati appresso! – è una tale rapina continua, che non han forza di resistervi neppure gli affetti più saldi”.
È in questa dialetti che s’inserisce il momento dell’anarchia assoluta, la “bella gioia spaventosa” della distruzione: in atti di maniaci delusi che covano odio spietato e disprezzo verso l’umanità. Distruzione del mondo come in Svevo, ma senza quell’enfasi cosmica profetica e pura, di liberazione dalla materia come malattia. Far tabula rasa di ogni cosa, dei piccoli bruti che in senso quasi nietzschiano vivono per vivere, senza sapere di vivere. Sognare personaggi che siano cioè simboli della distruzione. “La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecentosedici morti in una sola notte….” È la propria metamorfosi guardata in uno specchio ilare e spaventoso. “L’epidemia! L’epidemia! Non ero più io; ora finalmente lo capivo; ero l’epidemia, a tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via” (Soffio). Tale potenza di annullamento terrorizza e affascina Pirandello. Quale gusto “far saltare tutto il mondo con una dinamite”! E la gradazione degli effetti di questo demone della perversità, della crudeltà pura (La mosca) raggiunge le zone nebulosa dell’inconscio (Il chiodo; Cinci), mostrando una compassione che non è pietà, una pietà che non è amore.

venerdì 14 giugno 2013

Appunti su Pirandello (4)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la quarta parte, in totale saranno sei.)

La biblioteca del signor Anselmo Paleari, personaggio del Fu Mattia Pascal, non è la biblioteca di Don Ferrante (personaggio dei Promessi sposi di Manzoni).
La Mort et l’au delà. L’homme et ses corps. Les sept principes de l’homme. La clef de la Théosophie. ABC de la théosophie. La doctrine secrete. Le Plan Astral, ecc. Di queste opere citate nel romanzo viene a bella posta nascosto il nome degli autori. Ma non è impossibile identificarli. Sono libri che figurano quasi tutti nel catalogo delle “Publications Théosophiques” edite a Parigi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in parte tradotte dall’inglese. Ne erano autori Annie Besant e Elena Petrovna Blavatskij, Théophile Pascal e C. W. Leadbeater, il cui libro Le Plan Astral era stato tradotto dall’inglese nel 1899. E queste opere non erano i testimoni di una cultura da rifiutate, come per il Manzoni buona parte dei trecento volumi della biblioteca di Don Ferrante. Erano letture che avevano interessato Pirandello con uno slancio non meno curioso del suo Paleari.
E non fu forse soltanto un caso se egli per il protagonista del suo romanzo, Il fu Mattia Pascal, scelse il nome di uno di quegli autori.
I giochi verbali del signor Anselmo sulla luce e sull’ombra, con i suoi lanternoni e gli uomini lucciole nel buio della sorte umana, e la illusione, gran mercantesca di vetri colorati, e le Rivoluzioni, fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni (bonarie trovate narrative per rendere commestibile un discorso già espresso in altra sede con le stesse parole: Pirandello non aveva molta fiducia nella memoria dei suoi lettori), riposavano su una certezza: non spegnere quel “maledetto lumicino piagnucoloso”, ma fargli se mai cambiar direzione, rovesciarlo in rapporto all’ombra in cui siamo immersi noi vivi: “Il filo per uscire da questo labirinto, il lume insomma; […] deve venirci di là, dalla morte […] un po’ di luce per la morte […]”. E dello sviluppo che ha avuto secondo varie direzioni e interpretazioni il fondo esoterico, spiritistico, magico nella sua opera, si sono fatte solo alcune congetture, respinte subito da chi voleva relegare Pirandello nella stretta area che gli compete: il dramma della creazione, condensata nell’infelice formula, che, come ogni formula, ha avuto troppa fortuna: il binomio Forma-Vita.
Ma fu lo stesso Pirandello a voler staccarsi sempre di più dal suo Paleari, quasi ad evitare ogni possibile tentativo di identificazione delle idee del personaggio con le sue; a disperdere, man mano che si avviava verso una concezione filosofica meno artigianale, quei possibili rapporti con la creazione dei suoi personaggi. Tenne a far vedere insomma che il fondo della sua cultura non aveva più nulla da dividere né con la teosofia dilettantesca di Paleari, né con la insistente atmosfera magica di cui aveva bagnato la fisionomia di altri personaggi.
Nella redazione definitiva del romanzo L’esclusa, la figura della sorella Sidora all’inizio del romanzo era posta lì come il segno pur incisivo da offrire al lettore-spettatore, per una sommaria didascalia teatrale. Ma nelle pagine pubblicate la prima volta sulla “Tribuna” (1901) e poi soppresse, quella sorella Sidora, chiamata la vecchia Pentàgora, veniva presa di mira con irritante attenzione quasi che in essa, eternamente dialogante col fuoco, fosse racchiuso qualcosa di sovrannaturale e di stregonesco. Era evidente che, entro il tessuto di un esasperato naturalismo descrittivo, Pirandello cercasse di suggerire debolmente che nei suoi rapporti con le cose una presenza abitasse in quell’orribile vecchiaccia.
Quella presenza era svelata dalle pagine di una seconda redazione del romanzo anch’esse soppresse, e che appartengono all’edizione Treves in volume (1908), ove i gesti, i movimenti, le parole della vecchia non sono più da “povera mentecatta” ma di un essere invasato. “Scopriva talvolta… non si sapeva che cosa, nei muri, per terra, per aria: si arrestava incantata a mirare con gli occhi chiari, ilari, parlanti […]”. La figura appariva già matura per la sua metamorfosi.
Nella figura di Sidora delle prime stesure, la magia popolare, retta sulle credenze e sui riti, sostituisce la pratica religiosa. È atto religioso, associato all’adorazione, sostituire alle normali immagini sacre sull’altarino, altri oggetti, carichi di forza magica: tre spighe secche, tra sacchetti scarlatti pieni di sale. Sono queste pratiche religiose che consentono alla “vecchia matta” la liberazione: vedere oltre la vista naturale, nel commercio misterioso con le Donne che la chiamano per la metamorfosi della sua anima in uccello, animuccia appesa alle campane. La magia per Pirandello, come per Grimm, era una specie di religione fatta per i bisogni inferiori della vita domestica.
Gli studiosi non ritengono che Pirandello avesse in gran dimestichezza le opere di Annie Besant, della Blavatskij: opere che senza nome d’autore spiccano nella bibliotechina del signor Paleari. Nata su basi magiche, dall’osservazione scarsamente sistematica di pratiche, d’incantesimi in cui sono le cose ad agire come dotate di particolari proprietà (vegetali, minerali, oggetti capaci di guarigione) quasi per una legge di simpatia, la sua “dottrina” vagava tra magia, teosofia e spiritismo.
Sempre resterà in lui la consapevolezza della disfatta della scienza come regno naturalistico della certezza. La nebbia che invadeva i confini dell’essere e li rendeva sempre più incerti e indefinibili, l’allargamento di quei limiti in forza di una coscienza divisa (e qui interveniva il suo Binet medico e scienziato), l’alterazione della personalità dovuta anche a disastri psichici, una quasi definitiva sfiducia sulla funzione equilibratrice e risanatrice della logica: questi e altri motivi possono averlo spinto verso il bisogno di scoprire altre leggi, altre forze, altra vita nella natura, sempre nella natura, per cui dirà, come aveva detto Séailles, che anche l’arte è la natura stessa, la quale prosegue l’opera sua nella natura umana. Così, un metodo positivo sperimentale, che inseguiva il fenomeno della pluralità delle anime, s’innestava in uno spiritualismo, che esaltava la creazione individuale, e che affrontava persone “vive, libere, operanti” per farne personaggi.
Pirandello è giunto (in un itinerario che non risulta per nulla complicato dalla concezione spirituale dell’azione magica) all’idea dello “spirito” come di un agente personale, un doppio, o un ausiliare.
Gli “spiriti” invadevano il nostro spazio come forme, modellate plasticamente, dei nostri pensieri e dei nostri desideri: prima concezione larvale di “personaggi”. E il testo che in tal senso forniva a Pirandello pasto abbondante era il libro di Leadbeater, The Astral Plane, del 1897, tradotto in francese sotto il titolo di Le Plan Astral.
In un brano che appare soltanto nella prima edizione del Fu Mattia Pascal, quando il romanzo uscì a puntate (1904) nella “Nuova Antologia” (e nell’edizione Treves, 1910, era già eliminato), all’inizio del capitolo intitolato “Maturazione”, Pirandello attingeva a piene mani al libro del Leadbeater, senza peraltro indicarne la fonte. “Ho letto testé in un libro” scriveva Pirandello prestando sue proprie letture a quelle del protagonista “che i pensieri e i desiderii nostri s’incorporano in un essenza plastica, nel mondo invisibile che ne circonda, e tosto vi si modellano in forma di essere viventi, la cui apparenza corrisponde all’intima loro natura. E questi esseri, non appena formati, non sono più sotto il dominio di chi li ha generati, ma godono d’una lor propria vita, la cui durata dipende dall’intensità del pensiero o del desiderio generatore. Per fortuna, i pensieri della maggior parte egli uomini son così vaghi e indeterminati, che gli esseri che ne risultano han labilissima vita e momentanea: bolle di sapone. Ma un pensiero che spesso si riproduca o un desiderio vivo e costante formano un essere che può vivere anche parecchi giorni. E poiché naturalmente i nostri pensieri e i nostri desiderii spessissimo son per noi stessi, avviene che attorno a noi dimorino tanti di questi esseri, che tendono a provocar di continuo la ripetizione dell’idea, del desiderio ch’essi rappresentano, per attinger forza e accrescimento di vita. Chi dunque insista e batta costantemente su un desiderio, viene a crearsi come un camerata invisibile, legato a lui dal proprio pensiero, quasi un cagnolino incatenato, senz’obbligo di museruola ed esente da tasca. Questo camerata, però, potrà anche essere un canaccio che morde, un vile mastino; e allora son guai! Ma dipende da noi.”
Pirandello non fa che tradurre, o parafrasare, il testo di Leadbeater, fermandosi su alcune linee: “l’essenza plastica”, “la ripetizione dell’idea”. Il suo “camerata” è il “compagnon astral” del testo francese. Ed egli sarà stato fortemente colpito dall’affermazione che “une masse chaotique énorme d’entités semi-intelligentes, aussi différentes entre elles, que le sont les pensées humanies” è prodotta, consapevolmente o no, dalla forza psichica di ogni uomo. Ma è ancor più importante che in un altro saggio scritto in collaborazione con Annie Besant lo stesso Leadbeater trascini sul palcoscenico mentale un essere che fino allora nessuno aveva toccato, tranquillo nel docile sopore della coscienza: il romanziere.
Si possono scorgere accenni e svolgimenti delle idee di Besant-Leadbeater in altri articoli e novelle (come nelle pagine Da lontano, del 1909, in Stefano Giogli, uno e due dello stesso anno; in Una piastra e quattro centesimi, e che poi avrà come titolo Lo spirito maligno del 1910; e nella Tragedia d’un personaggio, del 1911). Forse fu lo stesso Pirandello, sempre più immerso nella sua piena maturità entro il problema della creazione letteraria, a voler bruciare dietro di sé le sue fonti salvando solo quelle che fossero inerenti all’azione e alla concezione del Fu Mattia Pascal: e così non cancellò il riferimento all’autore di un libro sulla “reincarnazione”, uno dei prediletti, aggiunge, del signor Anselmo (forse della Besant) e che dà il titolo al penultimo capitolo del romanzo.
Ma ciò su cui egli insistè con sempre maggior accanimento è che immagini di un’altra vita prendessero corpo, s’installassero nell’esistenza dello scrittore come forze ossessive, cui, una volta evocate, non si sfuggiva, e che quanto più si tentasse respingerle tanto più era facile ritrovarsele nelle più dense oscurità dell’immaginazione. Le fasi di queste apparizioni e il modo come esse vengono controllate e utilizzate in molte pagine narrative, fanno pensare ad una tecnica, di cui non soltanto nel Fu Mattia Pascal egli mostra conoscenza.

martedì 11 giugno 2013

Appunti su Pirandello (3)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la terza parte, in totale saranno sei.)


I primi romanzi di Pirandello mostrano fin con troppo spicco l’impianto naturalistico. Si vedano nell’Esclusa, finito di scrivere nel 1893 (ma pubblicato alcuni più tardi per difficoltà, si crede, di carattere editoriale), l’accuratezza con cui all’inizio son collocati oggetti e personaggi, la precisione impersonale della messa in scena, e come vien colto quell’attimo di immobilità prima dell’azione, prima che i personaggi comincino a muoversi quasi per una carica d’orologeria. Antonio Pentàgora, seduto a tavola, è illuminato dalla lampada che scende dal soffitto basso.
“Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po’ stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero. Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l’altro figlio, Rocco […]”
È insieme la pagina di un romanzo e la minuta didascalia per una commedia. Con un necessario mutamento di tempo – dall’imperfetto della narrazione al presente della rappresentazione scenica – Pirandello travasò in quegli anni i suoi “casi” dal racconto al teatro, secondo la poetica naturalistica, che situava la forma teatrale su un gradino più alto nel processo d’impersonalità inflitto all’azione. I suoi primi esperimenti in tal senso non furono tra i più fortunati. Dalla novella La paura nacque un dramma in un atto che s’intitolò L’epilogo e poi La morsa, ed ebbe uno sviluppo infelice che la novella non aveva.
Ma quell’impianto “impersonale” già appare sfigurato, nei primi romanzi, dal contenuto e dall’impostazione della vicenda, da un ispido furore dimostrativo per cui essi rientrano nei canoni pirandelliani delle opere umoristiche. Una donna scacciata dalla società quando è innocente, vi è riammessa quando è colpevole (L’esclusa). Un uomo creduto e poi fintosi morto, quando “risuscita” s’accorge che non può essere riammesso nella società, nella famiglia, perché per la società, per la famiglia egli è morto davvero (Il fu Mattia Pascal). Quale prova più scintillante del sentimento del contrario? Disonestà e purezza, vita-morte nel grande caleidoscopio della certezza sociale, che bolla come sicuro quello che non esiste e come inesistente quello che vive. E entro una tessitura umoristica, elementi riflessivi e irrazionali sconvolgono quella quarta parete, che nel teatro come nel romanzo dovrebbe essere protezione d’impersonalità, come se l’autore stesso e il pubblico non esistessero.
E già si costruisce il romanzo come sede accogliente di idee germinate su quel nucleo narrativo o depositate da precedenti mediazioni: un genere medio dai confini larghi e incerti, che accoglie e raccoglie tutto, costituito, sembra, da una sostanza porosa, che assorbe, come l’animale di una fauna primitiva, qualsiasi cosa possa calmare la sua voracità: campo di squallida rappresentazione oggettiva e di esasperate meditazioni e dimostrazioni. Quasi un intero articolo già pubblicato da Pirandello finisce nell’Esclusa (articolo dal titolo Rinunzia) e la parte più bella del saggio sull’umorismo si può rileggere nel Fu Mattia Pascal.
E le prime avvisaglie di quel personaggio diabolico, che riproduce il verbo dell’autore e che agisce come volontà disgregatrice nella finzione compatta dell’azione, il cavilloso sofista, avvocato di se stesso, o il mefistofelico evocatore di fantasmi, che avrà tanta fortuna in teatro, qui ha pallidi annunciatori. Pallidissimo nella figura dell’intellettuale, lo scrittore Alvignani, il quale però s’impegna a professare tesi poco naturalistiche sulla scienza che insieme con la nuova filosofia aveva deluso, perché non aveva saputo rispondere allo “spirito liberato” se non con ragionate negazioni, viete credenze, e lo spirito era rimasto “quasi tra le rovine di queste e le nebbie dell’avvenire”: dov’è consegnato pur flebilmente il malessere di Pirandello giovane, soffocato da un’”aspra, continua discordia di voci”. Nel Fu Mattia Pascal il grafico di quel malessere è disegnato su una figura che non conserva più nulla del magro profilo dell’intellettuale di una volta.
È un dilettante versato nelle scienze teosofiche, iscritto alla scuola teosofica, che tenta con passione esperimenti spiritici: un personaggio più importante della parte che l’autore (secondo le sue abitudini riduttive, ironiche) gli assegna, perché raccoglie molte suggestioni che erano dello stesso Pirandello in quegli anni. È il signor Anselmo Paleari della pensione omonima in via di Ripetta.
Il significato che Il fu Mattia Pascal assume nello sviluppo dell’opera pirandelliana è ben lontano dall’essere riconosciuto ancor oggi pienamente, pur trattandosi di un’opera che ebbe gran fortuna. E nemmeno si è tenuto in debito conto la sua importanza nella storia della cultura, ed i suoi agganci con la letteratura europea. Dietro di essa non c’è soltanto Capuana, con le sue sedute spiritiche e i suoi medici (autori di libri come Fisiologia e patologia delle passioni) e le sue esigenze scientifiche e spiritualistiche ed i profumi di zàgara. E non c’entra molto, come possibile derivato, il Cadavere vivente di Tolstoj. Gli esemplari sono da ricercare tra i romantici tedeschi del primo Ottocento, in opere immerse nel fantastico puro, in incredibili esperienze di cui Pirandello manipola la trascrizione in chiave borghese, realistica. È una “farsa trascendentale” (nel senso che F. Schlegel dette all’espressione), retta sull’assurdo. E ne avviliva certo il significato lo stesso autore, quando, per difendersi dai sostenitori del verosimile, pubblicò in appendice di altre edizioni del romanzo la notizia giornalistica di un caso simile a quello ch’egli aveva raccontato. Era da vedere in quella precisazione una prova del suo esasperante ossequio della cronaca, al fait divers, o una sfida alla realtà che imita l’arte?
Il saggio sull’umorismo si chiudeva con un omaggio a Peter Schlemihl, l’uomo senz’ombra, immortale creazione di Chamisso. E Schlemihl è il progenitore infiammato, indocile di questa figura tipica d’inetto, con il suo io frustrato, l’uomo comune, che il diavolo predilige, perché dietro la sua debolezza c’è l’amore delle decisioni improvvise e cieche, un ingenuo e quasi infantile desiderio di godimento: quel desiderio terribile della vita che tortura i personaggi pirandelliani anche i più abietti. Pirandello sempre ha almanaccato sulla proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffa proiezione d’ogni gesto tragico, e Mattia vicino al ponte Molle contempla la propria ombra, col desiderio impossibile di calpestarla: due ombre, “l’ombra di un morto, ecco la mia vita”. Il cancellarsi dalla storia, del bibliotecario Mattia, non è capriccio molto lontano da chi voglia perdere, come Schlemihl (in cambio di un fallace fantasma di libertà: il denaro), la propria ombra, quale proiezione sociale del personaggio. E la scena della roulette, e tutte le pagine su Montecarlo gremite di personaggi, più che reportage da inviato speciale, come fu detto, sono la trasposizione nel mondo moderno di una volontà diabolica, preparata da personaggi-apparizioni (lo spagnolo dalla barbetta), volontà nascosta dietro il caso, cui il protagonista arde di sottomettersi.
La roulette, per il meridionale Pirandello che s’affaccia sui misteri del gioco d’azzardo, è la proiezione meccanica del diavolo, l’uomo in grigio di Schlemihl, che appare una volta e a cui non puoi più restituire quel che egli, senza lavoro, senza fatica, ti ha regalato. Ed è ancora il ricordo di quel mondo diabolico (o di un aldilà) che circonda l’esperienza romana di Mattia, il quale, nella lurida pensione borghese, è in attesa di una rincarnazione. In quella pensione si preparano esperimenti spiritici, si leggono libri dove si discute del piano astrale e del piano mentale, si allestiscono spettacoli per le apparizioni: un contrasto e un avvicendarsi del mondo della luce e del mondo dell’ombra, ove s’inserisce non a caso la malattia oculare di Mattia, che lo costringe a rimanere per giorni immerso nell’oscurità, mentre Don Anselmo legge Leadbeater, Allan Kardec (citato da Pirandello anche in una novella). Chamisso pensava all’Anello fatato; e nella lettera a Fouqué, Eduard Hitzig aveva citato Le avventure della notte di S. Silvestro di Hoffmann dove Erasmus Spikler perse la sua immagine nello specchio. Significativo in un libro e nell’altro il gusto delle dediche e delle epigrafi. Chamisso dedica il libro “Al mio vecchio amico Peter Schlemihl” e Pirandello la prima edizione del suo Umorismo (1908) “Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”. Schlemihl legge il suo nome scritto a grandi caratteri d’oro su una targa di marmo nero, con latre due righe di lettere che non riesce a decifrare. E Mattia legge la lapide sulla fossa del povero ignoto che s’uccise alla Stìa, nel cimitero di Miragno: “Colpito da avversi fati Mattia Pascal […]”. E invece di finire, ombra di se stesso in Sicilia, egli sarebbe volentieri scappato come Peter Schlemihl nei deserti della Tebaide.

lunedì 10 giugno 2013

Che cosa è normale?


Niente. Chi è normale? Nessuno.
Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa a un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: “I normali, tra virgolette”. Oppure: “I cosiddetti normali”.

La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo. Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma.

Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde “razza umana”, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera.
È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza.