domenica 29 novembre 2015

Adorno e la brutalità interpersonale

(mio piccolo studio monocromatico all'acquerello)


Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa è un'opera estremamente interessante e ne consiglio vivamente la lettura e (appunto) la meditazione.
Siccome oggi è domenica, ve ne regalo un pezzettino che mi è parecchio piaciuto.

Hume, cercando di difendere contro i suoi compatrioti, tutti rivolti alle cose del mondo, la contemplazione teoretica, la “pura filosofia” (che non ha mai avuto buona fama tra i gentlemen), si servì di questo argomento: “L’esattezza torna sempre di vantaggio alla bellezza, e il retto pensiero alla delicatezza del sentire”.
L’argomento, pur essendo a sua volta pragmatico, contiene implicitamente e negativamente tutta la verità sullo spirito della prassi. Gli ordinamenti pratici della vita, che pretendono di giovare agli uomini, determinano, nell’economia del profitto, l’atrofia di tutto ciò che è umano, e via via che si estendono eliminano sempre più ogni delicatezza.
Poiché la delicatezza tra gli uomini non è che la coscienza della possibilità di rapporti liberi da ogni scopo, che sfiora tuttora - consolante - gli uomini avvinti agli scopi: eredità di antichi privilegi che è la promessa di un mondo senza privilegi. La liquidazione del privilegio ad opera della ratio borghese finisce per liquidare anche questa promessa. Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, soprattutto il proprio, e si legittima questa parsimonia col riguardo per l’altro. Non si fanno più cerimonie. Ogni velo che si frappone nel commercio tra gli uomini è avvertito come una perturbazione nel funzionamento della macchina in cui non solo sono oggettivamente incorporati, ma con cui s’identificano con orgoglio. Che, anziché levarsi il cappello, si salutino con l’allò di una familiare indifferenza, o che, invece di lettere, si scambino “inter office communications” senza indirizzo e senza firma, sono sintomi, scelti a caso, di una paralisi del contatto.
Paradossalmente, l’estraneazione si manifesta negli uomini come caduta delle distanze. Poiché solo in quanto non sono sempre a ridosso gli uni agli altri nel ritmo di dare e prendere, discussione ed esecuzione, direzione e funzione, resta sufficiente spazio tra di loro per il tessuto sottile che li collega gli uni agli altri e nella cui esteriorità soltanto si cristallizza l’interiorità. Certi reazionari, come i seguaci di Jung, hanno osservato questo fatto.
“E’ un’abitudine caratteristica delle persone che non sono ancora completamente foggiate alla civiltà, quella di non affrontare direttamente un argomento, e di non nominarlo troppo presto; il colloquio deve dirigersi quasi da sé, a spirali, verso il suo vero oggetto” (G. R. Heyer, in un saggio su “Eranos”).
Oggi, invece, il collegamento più breve fra due persone è, come tra due punti, la retta. Come accade per le pareti delle case che sono gettate in un pezzo solo, il cemento tra gli uomini è sostituito dalla pressione che li tiene insieme. Tutto ciò che si scosta da questo modello, non è più compreso, ed appare, se non come specialità viennese e cortesia da maitre d’hotel, come confidenza infantile e illecito approccio. Nelle due o tre fasi sullo status di salute della consorte che precedono il colloquio d’affari al lunch, anche l’antitesi all’ordinamento degli scopi è stata afferrata e incorporata in quest’ultimo. Il tabù contro i discorsi professionali e l’incapacità di discorrere insieme sono, in realtà, la stessa cosa. Poiché tutto è affari, il loro nome non può essere fatto, come non si può parlare della corda in casa dell’impiccato.
Dietro la demolizione pseudodemocratica delle formalità, della cortesia vecchio stile e della conversazione ormai inutile e sospetta - non del tutto a torto - di non essere che pettegolezzo, dietro l’apparente chiarezza e trasparenza dei rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura brutalità. La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti.
La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è già diventata un’ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose.

(Adorno, 1944)

martedì 10 novembre 2015

Una regola d'oro del giornalismo


buonasera a tutti.
io sono nato nel mondo del giornalismo. mio padre lo è (da circa 50 anni, credo) e anch'io lo sono (cioè, ho scritto degli articoli in passato e ho il tesserino, ma non esercito).
stasera voglio enunciare una regola d'oro del giornalismo che è la seguente:

UNA NOTIZIA PRIMA SI VERIFICA, SI ACCERTA, SI APPURA E SOLO DOPO SI PUBBLICA.

mi potreste dire che non c'era bisogno di scrivere una cosa così ovvia.
e invece sì. primo perché per l'uomo proprio l'ovvio è il più difficile così come proprio quello che è più vicino è più difficile da vedere e secondo perché proprio in questi giorni mi è capitata la seguente storia.

una "giornalista"(?)"professionista"(?) pubblica una notizia pesantissima con un'accusa gravissima riguardante un famoso scrittore.
io, che conosco bene la storia perché sono uno che legge e studia proprio quello scrittore, le dico che quella notizia è falsa. assolutamente falsa e diffamatoria.
sapete la "giornalista"(?)"professionista"(?) cosa mi risponde? che per lei la notizia è vera e che comunque la verificherà. cosa???????
sì, avete letto bene. questa qua prima pubblica una notizia riportante un'accusa gravissima e solo DOPO la verifica. sì, lo so, sembra una barzelletta. ma è una storia verissima.
ora, premesso che dovete sempre tenere gli occhi aperti e il senso critico acceso perché il mondo è pieno di piatti vacanti e fulminati vi dico 3 motivi per cui è obbligatorio, per un giornalista, verificare PRIMA di pubblicare.
1. se pubblici una notizia prima di verificarla questa notizia può essere falsa e un giornalista NON può scrivere e diffondere il falso. giusto? sì.
2. se la notizia, che non hai verificato prima, contiene una diffamazione rischi una denuncia e una condanna per un reato penale. è bello essere denunciati e condannati per un reato penale? certamente no.
3. se poi la notizia che hai pubblicato è falsa sei costretto a smentire, perdi di credibilità e fai una bella figura di merda. sono piacevoli le figure di merda e la perdita di credibilità? certamente no.

spero di aver fatto capire ai giovani giornalisti e agli aspiranti tali perché una notizia prima va verificata appurata accertata e solo dopo pubblicata.

p.s. cercate sempre più fonti; lo so che non è sempre possibile ma sforzatevi perché al 99,9% una sola non basta.
p.s. ovviamente avevo ragione io. la notizia pubblicata da lei era falsa. (e la tizia ha pure avuto il coraggio che il sottoscritto diceva stupidaggini ahahahhahahahahahhahaha)

lunedì 9 novembre 2015

Seconda e definitiva vittoria contro una diffamazione su Pasolini

Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita.
Sono riuscito da solo, io, un signor nessuno, a sconfessare e a costringere un giornalista professionista e scrittore a modificare una frase che conteneva falsità e diffamazioni su Pier Paolo Pasolini.
Ho difeso la reputazione di Pasolini con la conoscenza, con la verità, con la storia e l'onestà intellettuale.
Riporto lo screenshot che mostra l'evolversi della frase. La prima frase è quella originale, poi c'è una correzione che non mi soddisfaceva manco per il cazzo e infine c'è la frase come è ora.
Notate bene i cambiamenti della frase.
Mi sono impegnato, ho lottato, ho scritto e insistito e alla fine ce l'ho fatta. Ora il web è un posto più pulito e almeno una munnezza su Pasolini è stata eliminata.
S'imporrebbero altre considerazioni, ma ora sono troppo stanco ed eccitato insieme per continuare.

Ecco lo screenshot.

domenica 8 novembre 2015

Prima vittoria contro una diffamazione su Pasolini

(screen della prima vittoria, della frase che ho fatto cambiare. ma non è finita qui)

ho vinto la prima battaglia: quella stronzata diffamante su Pasolini è stata cancellata.
però non credo di aver finito il mio compito. l'autore dell'articolo ha lasciato dentro la parola "pedofilia" nei riguardi di Pasolini e voglio lottare per farla sparire.
come fa Pasolini a rischiare un'imputazione per pedofilia se si parla di ragazzi di 15 o 16 anni? è questo che l'autore dovrà spiegarmi. e non lo mollerò finché non me ne renderà conto.
tra l'altro l'ha cambiata senza dare nessun riscontro a me che ero l'unico a protestare...cos'è? s'è vergognato o è l'orgoglio? vabbè, non mi interessa. mi interessa essere riuscito a cancellare quella infamia sul conto di Pasolini.
in realtà non sono completamente soddisfatto.
primo perché la battaglia non è finita, secondo perché sono stato molto deluso da un amico che conosco e che mi conosce da anni.
e vorrei dirgli: è possibile che in tutti questi anni tu non abbia capito che io so leggere, ci tengo alla verità e alla correttezza delle parole e dell'informazione? che se mi impegno in una battaglia è perché quella battaglia è giusta e l'ho studiata coi controcazzi? non sai quanto sia importante per me Pier Paolo Pasolini?
evidentemente frequentandoci abbiamo perso tempo perché tu di me in tanti anni non hai capito un cazzo. tra l'altro ormai abbiamo passato i 30 e ho provato pure a spiegarti la questione, ma tu niente. e non hai più alibi.
il rapporto ormai è troncato perché si è rilevato un amico scadente e debole di mente schiavo di pregiudizi e pieno di stronzate inculcate da santoni e gruppetti vari. mi spiace, ma non posso fare altro. la prossima volta, quando parlo di cose serie ti mando a comprare zeppole e panzarotti e una birra perché tu con le cose serie non c'azzecchi. ah, e pigliami pure un pacchetto di sigarette. ovviamente, siccome l'uomo è orgoglio e autoconservazione, lo stronzo sarò sempre io e lui il grand'uomo che ha ragione. e me ne frego. io mi tengo la realtà e dei pareri dei fulminati non so che farmene. tu tieni proprio i fili appicciati in capa ex amico mio.

per concludere, invito chi vuole salvare Pasolini dalla diffamazione (dopo che è stato calunniato e ingiuriato in vita) a recarsi nel blog di Federico Tulli e farsi spiegare perché non toglie la parola pedofilia da quella frase.
non ci andrà nessuno, già lo so, ma io ci provo.

venerdì 6 novembre 2015

Pasolini e l'imbecille


io sono un grande imbecille.

scrivo qualcosa per spiegare il senso di questa frase così lapidaria.

sono un imbecille perché credo che chi faccia il giornalista debba (non possa, debba) avere un'etica, una deontologia e un sacro rispetto per le parole e il significato di esse.
inoltre deve (deve; senza condizionali vari) tenere rigorosamente separati i fatti dalle opinioni.
e sono un imbecille perché tutte queste cose non hanno valore. oggi qualsiasi caprone fa il giornalista e se ne sbatte le palle di etica, deontologia, parole, fatti e opinioni. vale tutto; soprattutto vale lo scrivere a cazzo di cane senza un briciolo di onestà intellettuale e comprendonio.
sono un imbecille perché, appena posso, compro dei libri. faccio dei sacrifici, delle rinunce. vesto male, ho scarpe vecchie, non ho la macchina, non vado in vacanza e me ne frego. sopporto qualsiasi privazione perché per me i libri sono un grandissimo amore. e sono un imbecille perché leggere non serve a niente. oggi il massimo della lettura sono i cinque minuti di settimana enigmistica sul cesso prima di cacare e mezzo articolo di repubblica in metro. del resto leggere non serve a niente. oggi si può parlare di tutto, pur non sapendo un emerito cazzo, perché tanto basta dire la prima cosa che ci viene in mente.
sono un imbecille perché ogni giorno, vorrei dire quasi ogni ora, sono assillato dal voler imparare, dal voler apprendere, dal migliorarmi; ho voglia di sperimentare nuovi pensieri nuove ipotesi nuove visioni e di rigettare le vecchie se necessario. sono assillato dalla conoscenza e dalla varietà di essa. e sono un imbecille perché non serve a un cazzo. oggi la gente impara una filastrocca (seppur la impara) e la ripete come le pecore di Orwell. non riflette, non cambia, non allarga, non compara...niente di niente. il massimo della gente è la filastrocca; guai a volerli smuovere e spingerli verso il PENSIERO...te li farai nemici per sempre. ormai hanno trovato il santone, hanno imparato tre scemenze e per loro il lavoro è finito. hanno fatto già tanto del resto!
sono un imbecille perché consulto spessissimo il dizionario. qui è inutile commentare; uno che usa il dizionario per conoscere con precisione la grammatica, l'etimologia e il significato delle parole è proprio stronzo senza discussioni. nel 2015 il vocabolario? ma non farmi ridere, per cortesia.

che c'entra Pasolini in tutto ciò?
già.
ieri sera, una sottospecie di giornalista, in una sottospecie di blog, scrive una sottospecie di post su Pasolini e leggo questa frase:
"Pasolini nel 1949 fu condannato per pedofilia".
insomma, il tizio ci sta dicendo un fatto. non un'opinione. fatti e opinioni sono cose diverse. completamente diversi tra loro. proprio diverse dimensioni.
su facebook, scherzando, ho scritto che sono 2500 anni che l'umanità non afferra questa differenza e che ce ne vorranno altri 17500 di anni per capirla. sono stato ottimista; in realtà non la impareranno mai.
ora, siccome quella frase ci dice un fatto, possiamo appurare e verificare se quel fatto è vero o falso.
il fatto è che è falso. il "giornalista" ha scritto una infamante stronzata.
il fatto è che non esiste l'anno, non esiste la condanna, non esiste il reato.
sembrerebbe semplice. la frase è semplice, il fatto è semplice, appurarlo è semplice, la spiegazione è semplice.
eppure.
eppure non sono riuscito a farmi capire, anzi, sono stato accusato di dire stupidaggini.
uhm.
in realtà la stupidaggine c'è. anzi, l'imbecillità.
sono imbecille perché perdo tempo con l'umanità (eppure Nietzsche mi aveva avvisato...!), sono capace di infiammarmi e indignarmi di fronte alla falsità, all'ignoranza, alla malafede e alla presunzione.
ma chi me lo fa fare?
ecco, devo migliorarmi anche in questo, sti qui non son fatti per seguire virtute e canoscenza, ma son bruti di semenza...devo passare, guardare un secondo e proseguire.
vado a leggere Artisti in bottega di Ettore Camesasca.
alla prossima.

lunedì 7 settembre 2015

Mestiere e tradizione

vi pubblico questo scritto di Giorgio De Chirico datato 1920 anche se non capite e non meritate.


MESTIERE E TRADIZIONE

Viviamo, in fatto d'arte, in un mondo di anarchia e di indisciplina. Nessuno per correggere, nessuno per giudicare, nessuno per consigliare, nessuno per insegnare, nessuno per dettare una legge, stabilire un principio.
L'opera mediocre non corre più i rischi che correva anticamente, poiché, essendosi spenta nei pittori d'oggi la vera passione, lo stesso fenomeno, per riflesso, s'è ripetuto nel pubblico; onde esso pubblico più non s'entusiasma per nulla di ciò che è pittura, non esalta con la lode, né inveisce col biasimo.
I recenti entusiasmi che animarono i giovani durante la genesi dei nuovi sistemi, non erano veri e propri entusiasmi per l'arte, ma bensì agitazioni dovute a collettivismi. Tali agitazioni facevano parte di tutto uno stato speciale della moderna psiche, basato sul movimento ed il divertimento. A tale stato non poco contribuirono i multiformi progressi della scienza ed il perfezionamento dei mezzi di locomozione che permettono rapidi spostamenti e rendono continuo il contatto tra città e città, paese e paese, popolo e popolo. Detti entusiasmi, ripeto, non riguardano l'imo fondo dell'arte. L'affannosa gara sorta tra i predetti giovani, il fervore che li istigava a sorpassarsi l'un l'altro, avevano per sola meta l'originalità e la conseguente personalità, l'ambizione di farsi un nome, ambizione resa facilmente appagabile ai giorni nostri mercé l'allagante sviluppo della stampa, specie nelle sue forme effimere e superficiali, come: opuscoli, giornali, riviste ecc. Non uno di tali giovani era mosso dal desiderio di "fare meglio" del prossimo, e questo specialmente pel fatto che in quanto a mestiere, in quanto a possessione in profondità della complicata scienza pittorica, erano tutti sullo stesso livello. L'emulazione in ciò che riguarda il reale valore pittorico esige l'esistenza di maestri: questa era la forza degli antichi. Oggi maestri non ce ne sono; se tra la schiera degli scalmanati uno emergeva, riuscendo a smerciare più degli altri, riuscendo più degli altri a divulgare il suo nome, riuscendo a interessare o intenerire o solleticare la vena lirica di qualche scrittore d'arte, ciò non accadeva mai pel fatto che le sue opere fossero plasticamente superiori a quelle degli altri, ma, a procacciargli il successo, intervenivano principalmente fattori come: scoperta di sistemi nuovi, o plagio e sfruttamento di sistemi già scoperti da altri ma rimasti oscuri per combinazioni di circostanze, oppure intervento nella sua attività artistica e commerciale di persone che per interesse, simpatia e vanagloria lo aiutavano col senno della borsa; s'intende, tra parentesi, che l'emergente, il più delle volte, possedeva alcune piccole qualità di cui gli altri erano sprovvisti.
Il genio non interveniva mai. Il genio non può intervenire che sul piano della grande arte: solo là dove la costruzione plastica emerge nelle masse delle sue forme, ripulita da ogni sensualità di collettivismo, immobile nel suo aspetto, controllabile in ogni suo lato. Solo allora appare la "metafisica dell'arte". L'opera geniale, nata dallo sforzo progressivo, umana, reale, si trova nello stesso tempo sopra i limiti invisibili delle cose eterne. Pertanto, giustamente osserva Schopenhauer essere l'artista di solo talento uno che raggiunge un bersaglio appartenente a tutti ma che pochi possono raggiungere, mentre l'artista geniale uno che raggiunge un bersaglio che nessuno vede.
La mancanza di maestri, come dissi già, ha tolto ai pittori d'oggi il grande entusiasmo per la propria opera; ripenso alle parole di Domenico Veneziano nella lettera che scrisse a Piero de' Medici esprimendogli la sua ammirazione per Fra' Filippo Lippi e Fra' Angelico: "Se vui sapesse," diceva infine "el desiderio che ho di fare anch'io qualche famoso lavorio!"
In quei tempi il maestro formava il discepolo, ma anche i discepoli collaboravano non poco al progresso del maestro; non alludo con ciò all'aiuto materiale che gli allievi porgevano in molti casi al maestro, ma all'aiuto morale. Oggi, benché vi siano tanti gruppi e tante sette, gli artisti sono tutti terribilmente isolati; nessuno può aiutare il suo vicino e nessuno può chiedere aiuto, poiché nessuno è sicuro di quello che fa e di quello che vuole e tutti versano in grande miseria.
Presso i pittori antichi la scuola del maestro era una vera famiglia. Tali scuole avevano diversi gradi secondo il valore del maestro che insegnava; in tutti però c'era lo stesso spirito d'intimità e di solidarietà, lo stesso ardore da parte del maestro di insegnare e da parte dell'allievo di imparare.
Alcune scuole d'ordine inferiore erano semplici botteghe ove lavorava insegnando un dipintore di immagini sacre. Il giovane desideroso d'imparare l'arte entrava, spesso in piena fanciullezza, in tali scuole, per imparare i prima rudimenta ed i principali segreti del mestiere. Va notato però che i principi ed i segreti insegnati dai pittori di secondo ordine erano i medesimi anche nelle scuole dei maestri, quindi non si correva il rischio di seguire false strade, né a ciascuno era lecito lavorare a vanvera come si usa ai giorni nostri. In queste scuole per principianti si entrava presto e si usciva anche presto; l'allievo desiderava imparare entro il più breve tempo possibile le prime leggi del mestiere, onde potere poi perfezionarsi sotto la guida dei grandi maestri. Cominciava a studiare con attenzione il modo di macinare i colori (tale modo variava secondo le scuole ed i maestri, ed ogni scuola custodiva gelosamente il suo segreto), stendere secondo tutte le regole dell'arte il gesso sulle tavole, o il fresco umido sopra lo spazio dei grandi muri, calcarvi velocemente ed esattamente i cartoni ove il disegno delle immagini era di prima rigorosamente fissato. Acquistate queste prime conoscenze, l'allievo cercava maestri più sapienti e spesso era il pittore-pedagogo che per primo ispirava al suo giovane allievo il desiderio degli orizzonti sconosciuti che la sua età avanzata o il suo talento modesto gli permettevano solo d'intravedere. Spesso lo esortava a cercarsi maestri migliori e tanto faceva senza alcuno spirito di recriminazione, ché anzitutto pel suo giovane discepolo egli era un amico e quasi un padre.
Uscito dalla scuola dei primi insegnamenti, principiava per il pittore-fanciullo il periodo veramente fecondo della sua formazione. Andava errando da città in città, da studio in istudio. Un po' ovunque portava la curiosità e l'entusiasmo della sua giovinezza; stava sempre in agguato per iscoprire i segreti dei maestri più rinomati onde poterli seguire da presso. Così, a venti anni, un pittore possedeva già un mestiere importante, aveva la via tracciata, conosceva i segreti dell'arte, non gli restava più che proseguire. Malgrado la sua giovane età poteva iscriversi nei registri di una corporazione, onorarsi del titolo di pittore, aprire a sua volta una scuola.
Il fatto di cominciare assai presto lo studio della pittura fece sì che oggi ci stupisce l'importanza e la vastità dell'opera di alcuni pittori antichi, morti relativamente giovani. Si pensi che il Perugino entrò nella scuola d'un maestro a nove anni e Andrea del Sarto a sette; non pare strano allora che alcuni artisti come Mantegna, Michelangelo, Raffaello, Leonardo, siano stati dei maestri a venti anni.
Entrando nella scuola, prima di passare al grado di discepolo, vi si rimaneva per un certo periodo preparatorio che finiva allorquando si era in grado di rendere al maestro qualche servizio notevole. In certe scuole il periodo di istruzione vera e propria era di anni sette; in altre era più lungo. E' facile immaginarsi quanta affinità spirituale e quanta sincera amicizia nascesse tra maestri e discepoli, specie quando i primi scoprivano nei secondi talento e genialità. I componenti la scuola sentivano che erano i custodi d'un che di sacro: "il segreto dell'arte"; quel segreto che andava dalla macinazione dei colori e della filtrazione delle resine alla complicata e dura tecnica della pittura.
Il maestro amava i suoi discepoli come figli e come fratelli; sapeva che mercé loro le sue fatiche non sarebbero andate perdute. A Bologna il Francia notava con queste parole la partenza d'un suo discepolo: "1496 - 4 aprile - Partenza del mio caro Timoteo Viti - Che Dio lo colmi di doni e favori". Nel Libro di ricordi del pittore fiorentino Neri de' Bicci si trova scritto come egli abbia accolto gratuitamente nella sua scuola il figlio di una vedova che non poteva pagare la retribuzione necessaria. Nelle scuole dell'Umbria l'allievo non retribuiva il maestro, solo s'impegnava (come risulta da un contratto stipulato nel dicembre 1441 e che regola le condizioni sotto le quali un certo Domenico Cecchi Baldi entrava nello studio del celebre Ottaviano Nelli) a consumare i suoi pasti presso il maestro, ad avere una continua preoccupazione di studiare l'arte del dipingere, e a servire il maestro ed obbedire ai suoi ordini in rebus licitis et honestis. Pochi obblighi insomma da parte dell'allievo, da parte del maestro invece gli obblighi eran maggiori. Non solo egli s'impegnava d'insegnare meglio che poteva l'arte della pittura, ma s'impegnava anche a sorvegliare continuamente il suo allievo, a nutrirlo, a calzarlo ed a vestirlo. Durante tutto il tempo della sua permanenza nello studio doveva provvedere alle sue spese e pigliarlo seco quando si recava in altre città. Dallo stato di allievo il giovane pittore passava a quello di aiuto o garzone; tale vocabolo, in quell'epoca, non conteneva alcun senso sfavorevole. Lo si trova spesso negli scritti del Vasari. Così egli rammenta con parole di lode il suo garzone Cungi del Borgo; lo condusse seco in quasi tutti i suoi viaggi e lo ebbe come principale collaboratore nei molti lavori che eseguì a Venezia.
Tutti i grandi artisti ebbero numerosi discepoli per aiutarli nella loro opera. Bernardino Pinturicchio, lo Spagna, Raffaello, Giannicola Mauni, Melangio da Montefalco furono i garzoni del Perugino. Ciascuno di questi pittori, a sua volta, ne adunava altri. Lo Spagna era circondato da una vera famiglia di onesti artefici che coprirono di pitture tutte le chiese de' dintorni di Spoleto. Pinturicchio, pare ne abbia impiegati un numero anche maggiore negli affreschi degli Appartamenti Borgia, aperti al pubblico nel 1900; sembra che solo una parte di tali affreschi debbasi attribuire al maestro. Ma l'Umbria fu il paese ove la solidarietà artistica e l'amore reciproco tra maestri e discepoli furono maggiormente coltivati. Fra tutti gli artisti del XV secolo, nessuno ebbe, come il Perugino, un sì gran numero di discepoli devoti al culto del maestro ed alla scrupolosa osservazione dei suoi insegnamenti e ben lo provò il Sanzio che in due suoi capolavori: la Trasfigurazione ed il Matrimonio della Vergine, seguì così da presso le orme del maestro, onde il secondo sembra essere quasi una copia di quel Matrimonio che il Perugino dipinse per la cattedrale di Perugia, e che oggi trovasi nel museo di Caen.
Nei tempi moderni la tradizione della scuola antica si protrasse fino a David ed a Ingres.
Pare che anche Courbet si sia servito di allievi per aiutarlo, specie negli ultimi anni della sua vita, quando, travagliato da una malattia di fegato ed oppresso dai dispiaceri che gli causavano i fatti politici della Comune e l'invidia di alcuni colleghi come il Meissonier, egli non poteva più lavorare con la sicurezza e l'ardore di prima. Fu infatti la collaborazione di tre pittori: Marcello Ordinaire, Cherubino Pata ed un certo Cornu, che permise al maestro di Ornans di intensificare, poco tempo ancora prima di morire, la sua produzione artistica.
Potremo oggi, coll'andamento che ha preso la pittura, tornare al culto delle scuole? A me sembra cosa ben difficile. Certo non è nelle differenti accademie del regno che rinascerebbe lo spirito delle scuole antiche e ciò per diverse ragioni: anzitutto, come dissi già, perché mancano i "maestri", e poi perché il metodo dell'insegnamento è pessimo o, per essere più precisi, non esiste. Il pittore stipendiato dal governo per insegnare in un'accademia si limita a fare un rapido giro, un paio di volte la settimana, a traverso i cavalletti degli allievi, dando qualche vago consiglio, distribuendo alcune dubbie correzioni. In tal modo l'allievo, dall'insegnante, non può imparare nulla ed è lo stesso come se lavorasse solo. E' da notarsi pure che nelle accademie d'oggi i maestri non hanno nessuna autorità; anche se possedessero un mestiere vero e proprio e se fossero degli artisti completi non potrebbero imporre nessun metodo e nessuna disciplina di lavoro, poiché oggi, nella gioventù artistica, sono ormai radicati certi principi di anarchia e d'indipendenza che impediscono qualsiasi prevalenza di dottrina.
Meglio sarebbe che dei pittori seri e coscienti del proprio valore, giunti a un buon punto di maturità e di mestiere, riunissero un certo numero di giovani disposti a seguirli ciecamente ed a lavorare disinteressatamente seco loro, senza prestare ascolto ai rumori di fuori; bisognerebbe che questi seguaci fossero profondamente convinti del valore del maestro. Si potrebbe così, a poco a poco, far sorgere una pittura su basi solide che sarebbe ottimo correttivo alla scemenza universale. L'Italia, forse, è il paese più adatto per tale principio, ché la scemenza della nostra pittura moderna è più alla superficie che nel fondo.
Vedremo chi darà il buon esempio.

lunedì 24 agosto 2015

Valentina commuove la commozione commossa

stamattina, lo storico quotidiano napoletano il Mattino, ha riportato un post scritto da una certa Valentina.
Valentina è del nord Italia ed ha lavorato qualche anno al sud. prima di andarsene ha scritto questa roba davvero emozionante. ci dispiace che l'abbia scritta dopo l'uscita del capolavoro filmico Benvenuti al sud, altrimenti l'avrebbero presa come sceneggiatrice.
siccome, però, sono un prof. con l'anima del prof. ho esaminato questo post con gli occhi del prof. e devo dire che alla commovente lettera mancano espressioni fondamentali quali 'o mar, 'o sang, 'e vven, ll'uocchie (per tacere del mancato riferimento 'a mammà)...ma devo altresì aggiungere che l'impegno e la chiusa finale le assicurano un'ampia sufficienza.
ecco il testo:

venerdì 14 agosto 2015

Pensa agli altri


in questi giorni, grazie ai ragazzi dell'Ex OPG Occupato, ho scoperto una meravigliosa poesia di Mahmoud Darwish.
credo che di Darwish leggerò al più presto qualche altra cosa e penso che l'anno prossimo approfondirò un po' la storia sia della Palestina che di Israele.
nel frattempo ricordatevi sempre di non fare i tifosi del cazzo pro o contro qualcuno o qualcosa.
i tifosi sono sempre dei poveri stronzi. al massimo potete essere partigiani, ma sempre dopo aver almeno letto capito approfondito confrontato un minimo.
leggiamo.


Pensa agli altri

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e di': magari fossi una candela in mezzo al buio.

giovedì 13 agosto 2015

a volte la vita è..


a volte la vita è come la storia di quell'attrice che cominciò la carriera girando Piacere tra le cosce e si diceva ok, è l'inizio, è per cominciare.
poi però girava Alla randa non si comanda, Alle hawaii lo prendi e lo dai, Alì Babà e i 40 guardoni e mai niente altro di diverso.

certo, può andare pure peggio perché magari in aggiunta ti sei accollatto pure qualcuna o qualcuno che ti sta col fiato sul collo e ti rompe i coglioni, e te lo fa pesare e te lo rinfaccia ecc.
ma del può andare pure peggio stasera non ci frega un cazzo.

martedì 11 agosto 2015

dunque dove eravamo rimasti?

(opera di Aleksandra Ekster)

una sera stavo facendo sesso con la mia ragazza. cioè non era la mia ragazza, ma una ragazza con cui stavo facendo sesso.
a un trattò squillò il suo cellulare, lei interruppe le manovre sessuali e andò a rispondere.
quando terminò la telefonata, tornò in camera e con un'aria mezza maliziosa mi domandò: "dunque, dove eravamo rimasti?"
io le risposi che dove eravamo rimasti non contava perché la telefonata me lo aveva fatto ammosciare (giustamente) e che quindi dovevamo tornare indietro e cioè al rapporto orale di lei a me.
detto questo, la domanda è retorica per
a. non me ne fotterebbe niente della vostra risposta
b. a voi non fotte niente né della mia assenza né della mia presenza.

però sono tornato e so che molti bloggers stanno già strisciando di marrone le mutande. a domani.

lunedì 27 aprile 2015

Michel Pastoureau e i colori


A forza di averli sott’occhio, si finisce col non vederli più. Insomma, non li si prende sul serio. Errore! I colori non sono irrilevanti, tutt’altro.
Veicolano dei codici, dei tabù, dei pregiudizi cui obbediamo senza saperlo, possiedono significati reconditi che influenzano profondamente il nostro ambiente, i nostri comportamenti, il nostro linguaggio e il nostro immaginario.
I colori non sono immutabili. Hanno una storia, movimentata, che risale alla notte dei tempi e che ha lasciato tracce perfino nel nostro vocabolario: non per caso vediamo rosso, siamo al verde, diventiamo bianchi come un lenzuolo, neri di rabbia, abbiamo una fifa blu… Nell’antica Roma, gli occhi azzurri erano una disgrazia; addirittura, per una donna, un segno di dissolutezza. Nel Medioevo, la sposa era vestita di rosso, come le prostitute. Lo si sarà già intuito: i colori la dicono lunga sulle nostre ambivalenze. Sono dei formidabili rivelatori dell’evoluzione della nostra mentalità.
Nel corso della storia, la religione li ha posti sotto il suo controllo, così come ha fatto con l’amore e con la vita privata. Come la scienza abbia detto la sua, sopravanzando la filosofia: onda o corpuscolo? Luce o materia? Come anche la politica se ne sia impadronita: i rossi e gli azzurri non sono sempre stati quelli che conosciamo. E come, oggi, ci portiamo ancora dietro quello strano retaggio. L’arte, la pittura, la decorazione, l’architettura, la pubblicità, naturalmente, ma anche i nostri prodotti di consumo, i nostri indumenti, le nostre auto…
Tutto è retto da un codice non scritto di cui i colori detengono il segreto.
Non è facile districarsi nel labirinto simbolico delle tinte; i colori infatti sono lunatici.
Non si lasciano facilmente imprigionare in categorie. Quanti sono, del resto? I bambini ne nominano spontaneamente tre; Aristotele ne contava quattro, e per uno “scherzo” di Newton, si è decretato che ce ne fossero sette ufficiali. Per Michel Pastoureau, uno dei maggiori studiosi contemporanei, non ci sono santi: ne esistono sei, non di più.
In primo luogo, quel morigerato del blu, prediletto dai nostri contemporanei perché sa farsi benvolere da tutti. Poi l’orgoglioso rosso, assetato di potere, che governa il sangue e il fuoco, la virtù e il peccato. Ecco il bianco virginale, quello degli angeli e dei fantasmi, dell’astensione e delle nostre notti senza sonno. Poi il giallo del grano, un bel complessato, a disagio nei suoi panni (va scusato: per lungo tempo è stato segnato dal marchio dell’infamia). Viene poi il verde, a sua volta malfamato, traditore e scaltro, re del caso e degli amori infedeli. Infine, il sontuoso nero, doppiogiochista, umile nell’austerità, arrogante nell’eleganza…
Poi? Per Michel Pastoureau, c’è un secondo livello; i comprimari, insomma: viola, rosa, arancio, marrone, e il grigio, un po’ appartato… Cinque mezze tinte, che portano nomi di frutti, di fiori… Sono riuscite a dotarsi di simboli propri, a darsi un’identità, come quel rosa insolente che si prende per un colore a tutti gli effetti o quell’arancio che esibisce una vitalità sfrontata… Dietro, vengono la servitù, il corpo di ballo, l’interminabile filza delle sfumature: lilla, magenta, sabbia, avorio e greggio… Inutile cercare di contare: ogni giorno se ne inventano di nuove.
Imparate a pensare a colori, e vedrete il mondo in un altro modo! Ecco una delle lezioni più belle di Pastoureau. In passato, si diceva ai bambini che c’era un tesoro nascosto ai piedi dell’arcobaleno. È vero: là, nel crogiolo dei colori, c’è uno specchio magico che, se sappiamo blandirlo, ci rivela i nostri gusti, le nostre avversioni, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri pensieri reconditi, e ci dice cose essenziali sul mondo, e su noi stessi.

lunedì 23 febbraio 2015

I sette Io


Nell'ora più tranquilla della notte, mentre giacevo semiaddormentato, i miei sette io si sedettero a colloquio e così conversarono sussurrando:
Primo Io: Qui, in questo folle, ho io abitato tutti questi anni, non facendo altro che rinnovare la sua pena di giorno e ricreare il suo dolore di notte. Non riesco a tollerare la mia sorte, e ora mi ribello.
Secondo Io: La tua sorte, fratello, è migliore della mia, giacché a me è dato di essere l'io gioioso di questo folle. Rido il suo riso e canto le sue ore liete e con il piede tre volte alato traduco in danza i suoi pensieri più scintillanti. Sono io che vorrei ribellarmi contro la mia tediosa esistenza.
Terzo Io: E che dire di me, dominato dall'amore, segnato dal marchio fiammeggiante di selvagge passioni e fantastici desideri? Sono io, malato d'amore, che voglio ribellarmi contro questo folle.
Quarto Io: Tra tutti voi, sono il più infelice, giacché nulla mi fu dato se non esecrabile odio e rovinoso disgusto. Sono io, simile a tempesta, nato nelle nere caverne infernali, che voglio protestare contro la mia servitù e questo folle.
Quinto Io: No, sono io, l'io pensante, l'io immaginoso, l'io della fame e della sete, condannato ad errare senza riposo alla ricerca di cose ignote e di cose non ancora create; sono io, non voi, che voglio ribellarmi.
Sesto Io: Ed io, l'io che lavora, addetto alle più penose fatiche, io che con le mani pazienti e occhi anelanti plasmo i giorni in immagini e conferisco agli elementi informi nuove ed eterne forme - sono io, il solitario, che voglio ribellarmi contro questo folle irrequieto.
Settimo Io: Com'è strano che voi tutti volete ribellarvi contro quest'uomo per il fatto che ciascuno di voi ha un predeterminato compito da adempiere. Ah, potessi io essere come uno di voi, un io con un compito predeterminato! Ma io non ne ho alcuno, io sono l'io che non fa nulla, quello che siede nel muto e vuoto non-luogo e non-tempo, mentre voi siete indaffarati nel ricreare la vita. Siete voi, o sono io, amici, che dovrei ribellarmi?
Quando il settimo Io ebbe così parlato, gli altri sei lo guardarono con commiserazione, ma senza dir nulla; e mentre la notte si faceva sempre più profonda, uno dopo l'altro si recarono a dormire avvolti in un senso di sottomissione nuova e felice. Ma il settimo Io rimase a fissare e a guardar il nulla che è dietro tutte le cose.

lunedì 16 febbraio 2015

Daniele Luttazzi e i concetti di "comico" e "comicità"

(una splendida Valentina Lodovini)

Mentre voi comuni mortali il giorno di san Valentino perdevate tempo a festeggiarlo o a sbeffeggiarlo (anche denigrare san Valentino è inutile ed è un modo per essere "normali"), il vostro affezionatissimo se ne fotteva alla grande e comprava l'ultimo libro di Daniele Luttazzi, Bloom. Porno-Teo-Kolossal.
Siccome sono generoso e magnanimo, condivido con chi vorrà questo breve testo sui concetti di "comico" e "comicità" che ho trovato estremamente stimolante.
Ora che ci penso, per il festival di Sanremo è lo stesso. C'è chi lo segue, si esalta e commenta e chi sbeffeggia, ironizza, ecc. ma fate come me, dio cristo: FOTTETEVENE.
Ciao e appena finisco il testo di Luttazzi, ne parlerò qui.
Ecco il testo:

All'interno di quell'espressione peculiarmente soggettiva
che è il comico, Aristofane può stare accanto a Woody
Allen, come Rabelais vicino a Moliere, o Plauto a Mel
Brooks, senza timore di confronti. Sotto la maschera delle
differenze individuali, e il costume versicolore del genere,
l'immagine fondante è quella di Dioniso, segno-sogno del
comico come epifania formale ed ontologica. Dioniso è il
comico come immediatezza-animalità; e come logos.

Rifarsi a Dioniso equivale ad accettare la sua sostanza
ambigua ed enigmatica, equivale ad ascoltare il rifrangersi
e moltiplicarsi della sua voce e delle sue gesta nelle
voci e nelle gesta di chi modula la propria vocazione
artistica entro il sistema frammentato e complesso del
comico. In questa presenza, metafora di un mistero non
concettualizzabile che agisce come linguaggio e attraverso
il linguaggio, risiede il segreto che rende esemplare
l'esperienza storica del comico nella civiltà occidentale.

La comicità occidentale crede e vive nel kairòs,
nell'occasione; a questa presiede l'urgenza di una
tyche, di una necessità che interviene, senza apparenti
giustificazioni, a dettare le azioni del protagonista.

Nata dall'occasione e in essa interamente conchiusa, la
comicità vive in un rapporto particolare con il pubblico,
complice, partecipe e co-autore di un'esperienza che
travalica l'esperienza soggettiva del singolo autore. E'
un'arte che, in virtù di un forte potere di suggestione
esercitato da precise tecniche del ritmo, non potrebbe
esistere, senza il suo doppio autore: l'artista/pubblico.

La comicità, come tutta l'arte, ci serve: da una parte, per
costituire e ricostituire la nostra natura di esseri umani,
coinvolti in pratiche sociali; e, dall'altra, per criticare
incessantemente tali costituzioni. Quando funziona,
introduce nel mondo qualcosa di nuovo: un nuovo modo
di interagire col mondo.

martedì 3 febbraio 2015

una poesia di Salinas e nulla più


Conoscete Pedro Salinas? no? bè, non posso farvene una colpa - primo perché non si possono conoscere tutti i poeti del mondo, secondo perché in effetti Salinas non è “famoso” da noi come Giacomo Leopardi, Alda Merini o Sandro Penna…
Quello che potete fare da oggi, secondo me, è correre in libreria e comprare il volume di Salinas “La voce a te dovuta” perché è un testo meraviglioso pieno di poesie che incantano emozionano e fanno sognare.
In effetti, sempre secondo me, queste tre cose incantare emozionare sognare sono le principali funzioni della poesia fatta perbene.
Saltate a pie’ pari le masturbazioni sulla problematica gnoseologico-amorosa, la presenza dell’amata nel ricordo, la volubilità dell’amata e le riflessioni sull’usura del linguaggio amoroso e tuffatevi subito nelle poesie.
Stasera vi posto quella che mi è piaciuta di più e a cui più sono affezionato.

[XXXIX]

Il modo tuo d’amare
è lasciare che io ti ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole o abbracci
mi diranno che esistevi
e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’amarti solo io.

lunedì 2 febbraio 2015

Barbabietola? no, grazie


alla fine il popolino americano che si esalta per obama, fa schifo al cazzo ed è uno spettacolo umiliante. però, rifletto, quei cazzo di yankee si esaltano perché obama è giovane, è nero, yes we can e altre cazzate. un poco di alibi lo tengono.
ma sti stronzi di italiani? si esaltano per mattarella...per un vecchio democristiano del cazzo figlio del patto tra renzi e berlusconi...non solo si esaltano e si sdilinquiscono, che sarebbero già da fucilare, ma parlano addirittura di cambiamento!!!
parlare di cambiamento con mattarella è come parlare di champions league alla casertana...ma andate affanculo, poveri rincoglioniti.

un ultimo pensiero politico.
ci sono tre parole tre che da come vengono usate capisco se chi mi sta davanti merita la mia attenzione oppure è un povero cretino rimasto davanti alle vetrine che non ha mai oltrepassato quella linea che porta alla conoscenza e non alle minkiate che gli hanno messo in testa.
le parole sono: politica-partiti-presidente della repubblica...se uno le usa, e le usa pure convinto, lasciatelo perdere; è un fesso.
le parole giuste da usare sono: sistema-bande-cap e lignamm (testa di legno)...e tutto il sistema, poi, gira intorno al SOLDO. stop.

col puffo è finita.
in realtà non è mai cominciata. può finire qualcosa che non ha mai avuto inizio? evidentemente no.
poi c'è teresa, altra storia impossibile ed estrema.
mi butto in storie impossibili, estreme e che manco cominciano.
lo faccio di proposito, così sto tranquillo che non mi faccio incastrare da nessuna femmina.
andiamo avanti.

da quello che ho capito, io sono fatto di incanto e disperazione.
due sentimenti abbastanza difficili da gestire.
secondo me, quando vidi lei ebbi tanto di quell'incanto e tantissima di quella disperazione da aver fatto naufragio. amen.

a proposito di lei e del passato...il problema non è tanto il tanto tempo che è passato, ma che è passato il nostro momento. è passata la magia che avrebbe potuto fare il miracolo.
dico bene? certo che no, ma non mi ricordo più qual era la formula giusta.

oggi ho ascoltato Physical Graffiti dei Led Zeppelin e per il resto me lo potete pure sukare.

mercoledì 14 gennaio 2015

Mi sono innamorato di un puffo


Sono un ragazzo pieno di problemi.
Innanzitutto non sono più un ragazzo perché ho superato la trentina e quindi che mi definisca ancora un ragazzo è un primo segno che sto a problema/i.
Ma non solo.

Mi sono innamorato di un puffo.
Come si fa ad innamorarsi di un puffo?
Non è un essere umano, è un fumetto, un cartone animato...non ci puoi parlare, non ti ci puoi confrontare...non ci possiamo guardare negli occhi, scherzare, abbracciare, toccare...non si può avere nessun tipo di rapporto o di esperienza con un puffo.

Poi un puffo quanto sarà alto? 5 centimetri? non lo so, ma io sono alto 1,83 e quindi fisicamente non ci siamo proprio.
Poi teoricamente è pure di genere maschile e io non sono omosessuale.
Poi quanti anni ha un puffo? Non è che passerei pure per pedofilo?

Sì, è impossibile e stupido innamorarsi di un puffo ma io ne sono innamorato. E' dolce, simpatico, io lo capisco e lui capisce me (mi sembra). Penso a lui tutti i giorni e tutte le ore. Mi viene voglia di abbracciarlo e di stringerlo a me. Di accarezzarlo. Ma non si può.

Ora devo togliermelo dalla testa, anche perché la mia vita è l'arte non l'amore. L'amore comporta alcuni obblighi e sacrifichi che io ho scartato a favore dell'arte.
Mi sobbarco solo gli obblighi e i sacrifici che comporta l'arte.

Per il resto dopo cena, prima di andare a letto, ho preso il vizio di:
- godermi una zuppa di caffè e latte coi biscotti
- guardare del porno su internet
- farmi una sega
- fumare una sigaretta

E di questo tran tran notturno ne parlaremo altra volta.

Ti amo puffo, so che è stupido e so che è infantile e impossibile e inutile però ti amo.
Non ti chiedo scusa di ciò.