giovedì 19 settembre 2013

Sogni e panno verde


I sogni...
I sogni sono sempre stati presenti nella mia vita. Nelle forme più varie.
I sogni che faccio mentre dormo che magari poi non ricordo bene. I sogni che leggevo nella Bibbia (sempre con angeli come protagonisti). I sogni che gli imperatori romani si facevano interpretare. I sogni che poi ci tiri fuori i numeri del lotto. I sogni di mia madre da cui ella rimane tanto, tanto colpita. I sogni brutti che racconti a tua sorella. I Greci, Artemidoro di Daldi e Onirocritica. I sogni divertenti che racconti a un amico. I sogni di Freud e di tutta la psicoanalisi successiva.
E potrei continuare, se non fosse che questo elenco serve solo a notare come la presenza dei sogni sia costante. Anche se l’importanza o il significato variano, la presenza è pacifica. Il sogno è proprio un fenomeno che sembra appartenere alla nostra cultura.
Ecco il perché del mio grande stupore quando lessi un passo di Krishnamurti.
Non conoscevo la posizione degli indiani, della cultura indiana, riguardo ai sogni, ma di sicuro me ne aspettavo una. E invece no.
Un giorno un uomo andò da Krishnamurti per raccontargli alcuni suoi sogni che lui non capiva e che tanto lo angosciavano. Krishnamurti per tutta risposta gli dice di pensare, prima di addormentarsi, a un panno verde. Pensando intensamente a questo panno verde, ci si addormenta e poi non si sogna. Secondo Krishnamurt, i sogni sono per i perditempo. Sono cose inutili, che distraggono, ecc.
Mi è rimasta davvero impressa questa cosa. È stato uno shock culturale. Abituato a ragionare, a leggere e a teorizzare sui sogni, questo completo metterli da parte mi ha lasciato molto da pensare.
Che avesse ragione lui?
Non lo so. Per ora ho messo da parte i sogni sulla vita, i cosiddetti sogni nel cassetto. Che cazzo tengo da sognare? Sto bene così.

lunedì 16 settembre 2013

Rivoluzionario e terrorista, una prima riflessione


Oggi pensavo: qual è la differenza tra un rivoluzionario e un terrorista? Ovviamente la prima cosa che ho fatto è stata quella di consultare il vocabolario che però non è che mi abbia dato chissà quali chiarimenti. Ecco le definizioni:

Rivoluzionario 1 di, relativo a una rivoluzione capo rivoluzionario tribunale rivoluzionario, operante durante una rivoluzione 2 (fig.) che rinnova profondamente, o mira a rinnovare radicalmente, un ordine prestabilito: atteggiamento rivoluzionario; idee rivoluzionarie – fautore di una rivoluzione.
Terrorista 1 chi appartiene a un gruppo o movimento politico che pratica il terrorismo; chi lo organizza: terrorismo di destra, di sinistra. 2 membro del governo del Terrore nella Francia rivoluzionaria. Usato anche come agg., in luogo di terroristico: un gruppo terrorista.

La riflessione è nata leggendo la pagina wikipedia di Renato Curcio laddove dice: Renato Curcio (Monterotondo, 23 settembre 1941) è un ex terrorista, editore e saggista italiano, tra i fondatori delle Brigate Rosse.
Ora: perché Curcio è un terrorista e non un rivoluzionario? Non aveva un programma e delle idee politiche Curcio? Non mirava a cambiare radicalmente un ordine prestabilito? Non era alla guida di uomini per fare una rivoluzione? Credo siano domande legittime. Si potrebbe dire che se vinci, sei un rivoluzionario. Se, invece, la tua sommossa perde sei un terrorista. Anche questo è un caso in cui le definizioni le fanno i vincitori?
Per quanto riguarda quel che è successo in Italia dal '68 e per tutti gli anni Settanta, io credo che stragi come piazza Fontana siano terrorismo e che le Brigate rosse siano rivoluzione. Magari non ne condividiamo le idee, magari abbiamo orrore di quel che è stato con i morti e i ferimenti, magari ci sembrano solo dei pazzi e dei criminali... però non so. Una riflessione più lunga ci vuole.
A presto.

lunedì 9 settembre 2013

8 settembre 1943, consigli letterari


Prendo spunto da un articolo di Dino Messina apparso ieri sul Corriere della sera. Ecco l’incipit:
“C’è uno scarto tra letteratura e storiografia sull’8 settembre 1943 e le sue conseguenze. Non importa di quale orientamento politico fossero, scrittori come Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Leo Longanesi, Curzio Malaparte, Mario Tobino, Alberto Moravia seppero raccontare, alcuni quasi in presa diretta, lo sbandamento di una nazione, sottolinearono subito il fattore spesso casuale nelle scelte di chi aveva deciso di stare dalla parte giusta, si accorsero che la lotta partigiana era opera di una minoranza, che la maggior parte degli italiani, come avrebbe raccontato Renzo De Felice sessant’anni dopo, si era messa in una posizione di attesa, in una zona grigia”.
Riassumendo, l’articolo mette in luce la differenza tra la lucidità dei romanzieri contro una storiografia che per decenni si è impegnata a costruire una vulgata non necessariamente basata su dati falsi, ma sicuramente distorti. Continuiamo a leggere.
“Per i romanzieri italiani la data dell’armistizio non fu così radiosa come per la storiografia nei primi decenni del dopoguerra. Nessuna autorappresentazione consolatoria, nessun omissis o rimozione dei fatti, che poi è il vero motivo della “storia che ritorna” ossessivamente sempre sugli stessi temi e che è stata uno dei problemi dell’immaturità collettiva italiana.”
“Gli scrittori italiani, come acutamente osservò Calvino, dopo la lunga parentesi retorica del fascismo avevano solo voglia di raccontare il vero, animati da una “carica esplosiva di libertà”. Gli storici invece a lungo lessero il passato prossimo con le lenti del presente, per dare una giustificazione agli assetti politici della nuova Italia. Raccontarono una storia che metteva in luce i protagonisti minoritari e trascurava comportamenti di massa, omettendo i lati sgradevoli e facendo coesistere anche aspetti tra loro contradditori.”
In questa sede non mi interessa tanto sviscerare il lato polemico della questione ma solo segnalare dei libri utili per approfondire l’8 settembre 1943 e tutto quello che ne seguì (resistenza, lotta partigiana, nazisti, repubblichini, ecc.) perché data fondamentale della nostra storia.

Cominciamo dai romanzi; tra parentesi la data della prima edizione.

Carlo Cassola, La ragazza di Bube (1960)
Curzio Malaparte, La pelle (1949)
Alberto Moravia, La ciociara (1957)
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (1947)
Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza (1959)
Mario Tobino, Il clandestino (1962)
Leo Longanesi, In piedi e seduti (1948)

Questi, invece, i testi di storia:

Roberto Battaglia, Storia della resistenza (1953)
Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana (1964)
Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia (1976)
Claudio Pavone, Una guerra civile (1991)
Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando (1993)
Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria (1996)
Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti (2003)
Gigi Di Fiore, Controstoria della liberazione (2012)
Gianni Oliva, L’Italia del silenzio. 8 settembre 1943 (2013) [il libro che ha dato spunto all’articolo]

domenica 8 settembre 2013

8 settembre 1943

(da Paolo Viola, Il Novecento, Storia moderna e contemporanea volume quarto)


Il 25 luglio 1943, pochi giorni dopo lo sbarco alleato in Sicilia, Dino Grandi presentò al Gran consiglio del fascismo – l’organo deputato a proporre al re la composizione del governo – un ordine del giorno per la deposizione di Mussolini. L’iniziativa fu appoggiata da Galeazzo Ciano e venne approvata con 19 voti contro 7 e un astenuto. La casa reale aveva già predisposto la sostituzione del duce e nella notte lo fece arrestare. Al potere non fu chiamato un politico: né il fascista “moderato” Grandi, né un antifascista, ma invece il maresciallo Pietro Badoglio, in rappresentanza dei quadri anziani delle forze armate, esautorati dai generali più giovani asserviti al fascismo e responsabili della sconfitta.
La gente esultava nelle strade e nelle piazze. Sembrava finita la guerra e rovesciata definitivamente la dittatura. Non era così, e il peggio doveva ancora arrivare; ma per il momento, malgrado le sofferenze, una grande ventata di speranza percorse il paese. I fascisti sparirono dalla circolazione, si tolsero le camicie nere e le divise della milizia. I quadri militari non seppero più che ordini dare alle truppe. I dirigenti fascisti moderati che avevano provocato la caduta del duce si trovarono anch’essi estromessi dal potere, e i partiti antifascisti, che avevano cercato di sopravvivere nella clandestinità, cominciarono ad uscire allo scoperto, chiedendo un impegno dell’Italia a fianco degli alleati. I busti di Mussolini e i simboli del regime vennero sgombrati dagli uffici, rimossi dalle pubbliche piazze e distrutti.
Tuttavia il fascismo non era ancora finito. Il re diede ordine di reprimere le manifestazioni antifasciste, sperando di contenere la valanga che inesorabilmente avrebbe travolto anche la monarchia, in caso di radicalizzazione dello scontro politico. A Bari l’esercito sparò su una manifestazione antifascista e fece un massacro: 23 morti e 70 feriti. I soldati avevano eseguito un ordine terribile, dato per reprimere i cortei popolari: “non si tiri mai in aria, ma a colpire, come in combattimento”.
D’altra parte il governo non voleva allarmare l’alleato tedesco, benché facesse avviare in segreto le trattative con gli angloamericani per l’armistizio, e si affrettò a proclamare: “La guerra continua”. Seguirono settimane confuse. I tedeschi ebbero il tempo di concentrare un esercito d’occupazione in Italia, mentre il governo italiano trattava più o meno discretamente con gli alleati. Gli inglesi esigevano la resa incondizionata. Insieme ai sovietici rimasero sempre molto intransigenti con gli italiani. Ecco come la pensavano, i primi: “Gli italiani hanno accolto con gioia l’attacco all’Abissinia, l’assalto all’Albania e soprattutto il colpo alla schiena inferto ai francesi. Solo quando la guerra è andata male, hanno cominciato ad avere scrupoli morali”. E i secondi: “Per malvagi che fossero i dirigenti italiani, il popolo italiano non può essere assolto dalle sue colpe. È il popolo italiano che ha prodotto Mussolini”. Gli americani invece erano disposti a concedere un trattamento meno duro, in cambio di un impegno italiano contro la Germania: “Il destino del vostro paese dipenderà da ciò che saprete fare per aiutare la vittoria dei popoli liberi”. Erano influenzati dai loro concittadini di origine italiana e dalle pressioni del Vaticano. Si deve agli USA se l’Italia è stata trattata meglio della Germania e del Giappone, e se una distinzione è stata fatta fra il fascismo e il governo Badoglio.
Finalmente si arrivò, l’8 settembre, all’armistizio col quale l’Italia cambiava schieramento. Non diventava però alleata degli angloamericani, ma “cobelligerante”: cioè faceva la guerra insieme con loro contro i tedeschi, pur senza essere ancora loro alleata, ma anzi, soprattutto dagli inglesi, considerata un nemico da punire; come dire in attesa di essere riabilitata o meno. Lo stesso 8 settembre, il re e Badoglio, scapparono da Roma verso la Puglia, e si misero sotto la protezione degli alleati che negli stessi giorni sbarcavano a Salerno e occupavano l’Italia meridionale. Ancora negli stessi giorni di settembre, un commando tedesco riusciva a liberare Mussolini, detenuto in una località segreta del Gran Sasso, in Abruzzo. Lo portò in Germania, per utilizzarlo alla testa di un governo fantoccio da organizzare nell’Italia del Nord. L’Italia si spaccava in due per un anno e mezzo.
Per l’unità del paese, ancora fragile e recente, per un minimo di orgoglio nazionale era, almeno per il momento, la fine. La stessa identità degli italiani doveva essere ricostruita, rifondata. Da che parte stava l’Italia? Per che cosa si stava facendo la guerra? Il regime era in sfacelo. Il re e il governo erano scappati. L’esercito era allo sbando. I comandi o avevano tradito o venivano passati per le armi dai tedeschi. I soldati cercavano di tornare a casa in qualunque modo, oppure venivano fatti prigionieri e mandati a lavorare in Germania. Al Sud c’era l’esercito anglo-americano, al Nord quello tedesco. Nessuno sapeva più dire perché si era tanto creduto in un governo che aveva portato il paese ad un tale disastro. Nessuno voleva ammettere di essere stato fascista. I poteri pubblici in Italia avevano dato ancora una volta la prova della loro totale assenza: di un’incapacità profonda e radicata, morale e politica, di proteggere e rappresentare la società civile. Era un’altra Caporetto; ma nel ’17 il governo aveva cercato, in qualche modo, di correre ai ripari. Ora si era semplicemente dato alla fuga.

sabato 7 settembre 2013

Peccato che


Figura esemplare delle avanguardie storiche europee,
pittore fra i più inventivi del secolo,
narratore di sorprendente e affascinante fantasia,
prosatore di instancabile vitalità linguistica,
drammaturgo di travolgente impatto culturale,
pensatore geniale e profetico,
critico audace e puntuale,
intellettuale coraggioso e lungimirante,
un protagonista dell’arte e della letteratura del Novecento,
scrittore pionieristico e anticonformista che ha lasciato un segno indelebile della grandezza che diventa modello intellettuale e morale,
simbolo di libertà espressiva.
Peccato che scopasse poco.