giovedì 31 maggio 2012

Atom Heart Mother, ovvero un compendio di storia della politica attraverso le mammelle di Lulubelle III

Se fossi un cigno me ne sarei già andato
Se fossi un treno sarei in ritardo
E se fossi un buon uomo
Parlerei più spesso con te
Quanti avevo? Diciassette o diciotto? Non me lo ricordo, sinceramente. Ricordo solo che era il mio compleanno e un amico mi chiese cosa mi sarebbe piaciuto ricevere come regalo (si facevano le collette, allora). Io risposi senza esitazioni: The dark side of the moon.
A volte penso che potrei vivere con un po’ di vino, i libri di Céline e gli album dei Pink Floyd e fanculo tutto il resto. Chissà, magari un giorno sarà proprio così…
Comunque se cercate in giro info sull’album Atom Heart Mother, uscito nel 1970, vi piazzano subito l’espressione “album di musica psichedelica (o progressive o spaziale)” ed è sicuramente vero.
Io, però, ritengo molto più calzante la definizione “opera sinfonica”. Le lunghe suite, l’orchestra, i fantastici cori...pare proprio di ascoltare Beethoven o Mahler versione rock.
Ora diamo un’occhiata alla struttura dell’album.
a. Father's Shout: introdotta dai corni, si dipana imperante il tema principale; ad un certo punto entrano in scena il rombo di un motore, cavalli al galoppo, esplosioni e poi - solo sul canale destro - il rombo di una moto; dopo ritorna l’armonia portante e si insinua una bellissima melodia dominata dapprima da un suadente violino e dopo dalla chitarra elettrica;
b. Breast Milky: caratterizzata dal duetto organo/violoncello con tanto di cori; solo successivamente entrano in azione gli altri strumenti;
c. Mother Fore: parte molto dinamica dove la ritmica è quasi jazzata fino all’ennesima ripresa del tema portante;
d. Funky Dung: dall’andamento psichedelico intessuto su una melodia già sperimentata dai Pink Floyd nelle sedute di registrazione del film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni del 1970;
e. Mind Your Throats Please: riparte l’armonia principale ed è importante evidenziare per la prima volta la presenza di un piano amplificato per mezzo di altoparlanti Leslie;
f. Remergence: gran finale nel quale tornano tutte le precedenti melodie della suite.
Il lato B inizia con l’eterea quasi folk If, composta da Roger Waters, dove bellissimi e semplici arpeggi di chitarra acustica ti portano in una dimensione onirica.
Segue Summer '68 dove predominano le tastiere di Wright - il refrain di questo brano ti trasporta con la mente alla fine degli anni ’60, musica acida, la Summer of Love...
Fat Old Sun sembra un brano di ispirazione beatlesiana dove Gilmour dimostra pienamente tutto il suo estro chitarristico.
Chiude l’album la stupenda strumentale Alan's Psychedelic Breakfast divisa in tre parti unite tra loro da dialoghi e strani effetti sonori con bellissime parti di tastiere e chitarra.
Orbene, con Atom Heart Mother in sottofondo, diamo un’occhiata a questo compendio di storia della politica che vede la mucca come protagonista.
Musica e lettura, what else?

COMUNISMO
Hai 2 mucche. Il governo te le prende e ti fornisce il latte in teoria secondo i tuoi bisogni... in teoria.

FASCISMO
Hai 2 mucche. Il governo te le prende e ti vende il latte, speculandoci.

NAZISMO
Hai 2 mucche. Il governo prende la vacca bianca e uccide quella nera.

FEUDALESIMO
Hai 2 mucche. Il feudatario prende metà del latte e si tromba tua moglie.

DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
Hai 2 mucche. Si vota per chi eleggerà la persona che deciderà a chi spetta il latte.

ANARCHIA
Hai 2 mucche. Lasci che si organizzino in autogestione.

CAPITALISMO
Hai 2 mucche. Ne vendi una per comprare un toro ed avere dei vitelli con cui iniziare un allevamento.

CAPITALISMO SELVAGGIO
Hai 2 mucche. Fai macellare la prima ed obblighi la seconda a produrre tanto latte come 4 mucche. Alla fine licenzi l’operaio che se ne occupava accusandolo di aver lasciato morire la vacca di sfinimento.

BERLUSCONISMO
Hai 2 mucche. Ne vendi 3 alla tua Società quotata in borsa, utilizzando lettere di credito aperte da tuo fratello sulla tua banca. Poi fai uno scambio delle lettere di credito, con una partecipazione in una Società soggetta ad offerta pubblica e nell’operazione guadagni 4 mucche beneficiando anche di un abbattimento fiscale per il possesso di 5 mucche. I diritti sulla produzione del latte di 6 mucche, vengono trasferiti da un intermediario panamense sul conto di una Società con sede alle Isole Cayman, posseduta clandestinamente da un azionista che rivende alla tua Società i diritti sulla produzione del latte di 7 mucche. Nei libri contabili di questa Società figurano 8 ruminanti con l’opzione d’acquisto per un ulteriore animale. Nel frattempo hai abbattuto le 2 mucche perché sporcano e puzzano. Quando stanno per beccarti, diventi Presidente del Consiglio.

MONTISMO
Hai 2 mucche. Tu le mantieni, il governo si prende il latte e ti mette una tassa su: la stalla, la mangiatoia, la produzione. A te rimane lo sterco. Intanto è in approvazione un disegno di Legge sulla tassazione dei rifiuti organici animali.

mercoledì 30 maggio 2012

Cecco Angiolieri è stato punk 7 secoli prima di Johnny Rotten

Cosa fa un poeta? ...quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis...
Immagino Cecco Angiolieri insofferente verso il padre banchiere del papa Gregorio IX; immagino Cecco costretto a vivere quella vita borghese, insofferente verso obblighi ed etichette.
Immagino Cecco costretto a partecipare a guerre di cui non gliene fregava un cazzo. Fu multato più volte per essersi allontanato dal campo senza permesso. Nel 1282 fu multato per ben tre volte, una delle quali perché trovato a vagabondare di notte dopo il coprifuoco. Nel 1291 fu implicato in un’oscura vicenda, il ferimento di un certo Dino di Bernardo da Monteluco, con la complicità di un calzolaio, Biccio di Ranuccio; soltanto quest’ultimo, però, ebbe la condanna.
Nel 1302 vendette per 700 lire una sua vigna. Scopava come un riccio ed ebbe molti figli.
La morte può venir localizzata attorno al 1312: nel febbraio di quell’anno, infatti, i suoi numerosi figli rinunciarono alla scarsa eredità perché già gravata dai debiti; e nel marzo del 1313 dovettero rassegnarsi a pagare una somma che Cecco doveva al Comune.
Ha vissuto come un poeta, Cecco. Libero, scapestrato, rissoso, prodigo ogni oltre limite - fuori dagli schemi.
Godiamoci il sonetto “S’ì’ fosse foco” a cui premetto la spiegazione professorale (per chi fosse interessato).

Il più angiolieresco sonetto di Cecco, che tanto contribuì a formare di lui la falsa immagine romantica di un “poeta maledetto”, è in realtà fra i migliori esempi della realizzazione dello “stile comico” in modi letterari abilissimi. Ma v’è anche l’innegabile inclinazione di Cecco allo scherzo da taverna, pronto a degenerare in rissa; la sua insofferenza corrucciata e irridente; la sua passione per la parodia scritta sul serio; il suo temperamento poetico, insomma.
Non c’è frattura tra la chiusa e il resto del sonetto: se non nel modo a lui abituale, di “sorpresa” epigrammatica e irriverente, per scandalizzare i benpensanti e divertire gli amici. Effetti ed immagini, così vivaci nel ritmo e nelle simmetrie, sono di un gusto tutto medioevale; così come medioevali sono gli elementi, acqua e fuoco, papa e imperatore, giovani e vecchie: un contrasto realistico, ma insieme stilizzato, metafisico, inevitabile. La luce è diversissima, diversissimo l’animo; ma queste sono le gerarchie, questi sono i gironi, i sorprendenti ordini strutturali dell’Inferno di Dante.
LXXXVI

S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristiani imbrigherei;
s’ì’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’ì fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

martedì 29 maggio 2012

David Harvey e la crisi del capitalismo

(David Harvey di cui prossimamente discuterò l'opera L'enigma del capitale)

Esistono diversi modelli per spiegare la crisi che c’ha colpito ed è interessante capire di che genere sono.
Il primo genere fa riferimento alla fragilità umana. È il modello usato da Alan Greenspan, economista americano, ex presidente della Federal Reserve. La crisi fa parte della natura umana, ci dice, e non possiamo farci nulla. Ma esiste un intero mondo di spiegazioni simili che associano la crisi all’istinto predatorio, all’istinto del controllo, alla delusione degli investitori, all’avidità e così via. Questa linea di ragionamento è molto diffusa perché si tratta di fattori che regolano la vita quotidiana di Wall Street; quindi, possiamo immaginare che queste spiegazioni contengano una buona parte di verità.
Il secondo genere ci dice che ci sono state delle mancanze da parte delle istituzioni; i regolatori si sono addormentati nella stanza dei bottoni, il sistema bancario si è modificato senza che loro se ne accorgessero, ecc. ecc. E quindi le istituzioni devono essere ristrutturate, ci deve essere uno sforzo globale del G20 o di consessi del genere; insomma, se si guarda al sistema istituzionale, non si può che constatarne il fallimento e decidere di ristrutturarlo.
Un terzo genere sostiene che tutti si sono fissati su una falsa teoria. Hanno letto troppo Hayek e creduto nell’efficienza del mercato ed è ora di ritornare a qualcosa tipo Keynes e di riprendere sul serio la teoria di Minsky sulla instabilità intrinseca delle attività finanziarie.

(Hyman Minsky e la teoria dell'instabilità intrinseca delle attività finanziarie)

Per un altro genere ancora, la crisi ha origini culturali. Non è molto diffuso negli Stati Uniti, ma in Francia e in Germania sono in molti a dire: “Questo è un male anglosassone che non ha nulla a che fare con noi”. E quando sono stato in Brasile, Lula diceva qualcosa tipo: “Grazie a Dio finalmente gli Stati Uniti sono puniti dal Fondo Monetario Internazionale. Noi ci siamo passati otto volte negli ultimi venticinque anni e ora tocca a loro”. “Fantastico!”, diceva Lula… ed intanto gli Stati Uniti dicevano: “Stavolta colpirà te più che noi”. E così è successo e all’improvviso la musica è cambiata.
Comunque c’è una tendenza a riconsiderare gli aspetti culturali come è avvenuto nel caso della Grecia dove la stampa tedesca ha scritto: “È colpa del carattere greco, dei difetti del carattere greco” e tutta una serie di schifezze di questo tipo. Insomma, gli aspetti culturali sono diventati parte del discorso sulla crisi. Ad esempio, per gli Stati Uniti si è parlato della passione per la casa di proprietà considerato un valore culturale profondo per il fatto che il 68% delle famiglie statunitensi sono proprietarie della loro casa, contro il 22% in Svizzera. Questo supposto valore culturale degli Stati Uniti è stato sostenuto dalla deduzione fiscale degli interessi dei mutui. Si tratta di un enorme sussidio introdotto negli anni ’30, sulla base della teoria che i proprietari di casa, con un debito che incombe, non entrano in sciopero.
Infine, c’è l’idea che ci sia stata una mancanza di politiche e che quindi spetta alla politica oggi intervenire. Sta emergendo una strana alleanza tra Glenn Beck della Fox News e la Banca Mondiale. Entrambi dicono che il problema è che c’è troppa regolazione del tipo sbagliato.
Ci sono tutti questi modi di spiegare la crisi, quindi, e ognuno di loro contiene una certa parte di verità.
Qualsiasi bravo saggista può prendere l’una o l’altra di queste idee, costruire la storia e scrivere un intero libro su di essa.
Io mi sono chiesto: che tipo di storia potrei scrivere che sia plausibile, ma diversa da tutte quelle che abbiamo raccontato? (che poi è quello che mi chiedo sempre).
Non è difficile da fare, in particolare se si fa da una prospettiva marxista perché non sono in molti a fare questo tipo di analisi.
Un’idea mi è venuta da quello che è successo alla London School of Economics quando un anno e mezzo fa sua maestà la regina ha chiesto agli economisti: “Come mai non vi siete accorti di quello che stava per succedere?” (non ha detto proprio così; è giusto per rendere l’idea)
Loro si sono molto agitati. La regina, allora, ha telefonato al governatore della Banca d’Inghilterra e gli ha chiesto: “Come mai non te ne sei accorto?” Allora l’Accademia Britannica è venuta fuori con un’incredibile lettera scritta dagli economisti alla regina: “La cosa ci ha stupito molto. Un sacco di gente zelante, intelligente, preparata, ha dedicato la sua vita allo studio con grande serietà, ma ci siamo dimenticati di un aspetto: il rischio sistemico”. E lei: “Che cosa?”
Ora non vi parlerò della politica del Nilo e di cose simili. Il rischio sistemico ha a che vedere con la contraddizione interna dell’accumulazione capitalista. E io mi sono detto che forse avrei dovuto scrivere qualcosa sulla contraddizione interna dell’accumulazione capitalista, di capire il ruolo della crisi nella storia del capitalismo e che cosa c’è di speciale nella crisi in cui ci troviamo ora.
Mi hanno detto che ci sono due modi per leggere la crisi attuale: uno, è di guardare a cosa è successo dal 1970 ad oggi. Ne viene fuori che la forma della crisi attuale è per molti versi determinata da come siamo usciti dalla crisi precedente. Il problema negli anni ’70 era che il lavoro aveva un potere eccessivo rispetto al capitale, quindi la soluzione è stata quella di punire il lavoro e sappiamo come è stato fatto: con la delocalizzazione, gli off shore, con la Thatcher e Reagan, con la dottrina neo liberista – è stato fatto in molti modi diversi.
A metà degli anni ’80, la questione del lavoro era stata essenzialmente risolta nel senso che tutti i capitalisti avevano ormai accesso al mercato mondiale del lavoro. Nessuno, nella situazione attuale, dice che è colpa dell’avidità dei sindacati o che il potere del lavoro è eccessivo… al contrario, si dice che è il capitale ad avere un potere eccessivo e in particolare il capitale finanziario che è la radice del problema.
Ma come è successo? Bene, negli anni ’70 siamo entrati in una fase di regressione dei salari. La quota di salari sul totale delle entrate nazionali nei paesi dell’OCSE è costantemente diminuita persino in Cina, ovunque. Così, viene fuori che la recessione è stata pagata dai salari; ma i salari sono anche i soldi con cui si comprano i beni per cui, se diminuiscono i salari, ci si ritrova con il problema di capire da dove può venire la domanda. La risposta è stata: bene, ci sono le carte di credito. Così si è superato il problema della domanda reale pompando l’economia del credito. Le famiglie americane, inglesi, le famiglie in molte parti del mondo negli ultimi venti/trent’anni si sono indebitate e una larga parte di questo debito è stato contratto nel mercato della casa.
Qui, interviene la teoria che dice: il capitalismo non risolve mai le sue crisi, le sposta da un luogo all’altro.
E quello a cui assistiamo oggi è un movimento geografico del debito. Tutti dicono: “Ok, ci sono inizi di ripresa negli Stati Uniti” e la Grecia esplode. E tutti si chiedono: “Che ne è dei pix?”

(Marx, sempre indispensabile per capire la nostra era capitalista)

È interessante; abbiamo una crisi finanziaria che abbiamo quasi risolto per metà, ma a spese di una crisi del debito pubblico.
Se guardiamo al processo di accumulazione del capitale, vediamo un certo numero di limiti e di barriere. E Marx, nei Grundrisse, spiega che il capitale non può sopportare un limite, lo deve trasformare in una barriera e cercare di aggirarlo per trascenderlo. E quando guardiamo al processo di accumulazione, cerchiamo di capire dove possono essere le barriere e i limiti.
Il modo più semplice per spiegare questo è che il tipico processo di accumulazione funziona così: si inizia con dei soldi, si va al mercato e si compra lavoro e mezzi di produzione. Quindi, li si mette all’opera con una data tecnologia e una data organizzazione, si crea una merce, la si vende e si ricava il denaro originario più un profitto. A questo punto, si prende una parte del profitto e lo si ricapitalizza per espandersi. Ora ci sono due cose da dire: una, è che esistono una serie di barriere. Come ha fatto il denaro a mettersi insieme e andare al posto giusto, nel momento giusto e nella giusta quantità? E questo fa escludere che la finanza sia ingenua.
Per cui l’intera faccenda del capitalismo ha a che vedere con l’innovazione finanziaria. L’innovazione finanziaria ha anche la capacità di rendere più potenti i finanzieri e l’eccessivo potere dei finanzieri fa sì che questi diventino avidi. Su questo non c’è dubbio.
Se si guarda ai profitti dei finanzieri negli Stati Uniti, questi sono cresciuti così tanto negli anni ’90 che sono arrivati fin qui, mentre i profitti degli industriali sono scesi. Potete vedere il disequilibrio nel Regno Unito. Il modo con cui la città di Londra si è sviluppata contro l’industria manifatturiera dal 1950 in poi ha avuto implicazioni molto serie per l’economia del paese. L’industria viene distrutta per fare contenti i finanzieri.
Ogni persona di buon senso, ora, dovrebbe entrare in un’organizzazione anticapitalista e lo dovete fare perché altrimenti la cosa andrà avanti e continueranno anche tutti i vari aspetti negativi. Per esempio, l’accumulazione della ricchezza. Ci si sarebbe aspettati che la crisi l’avrebbe fermata, invece l’anno scorso in India c’erano più miliardari che mai – sono raddoppiati in un anno!
La crescita della ricchezza dei ricchi si è accelerata. L’anno scorso i maggiori possessori di hedge funds hanno ricevuto una remunerazione personale di 3 miliardi. Ora, io pensavo che fosse osceno e folle già qualche anno fa quando presero 250 milioni, ma ora hanno preso 3 miliardi!
Questo non è il mondo in cui voglio vivere e se neppure voi ci volete vivere, siete miei ospiti. Io non so come discutere e dibattere su questo, non ho la soluzione. So qual è la natura del problema e bisogna che ci prepariamo ad avere una vera e ampia discussione e prendiamo le distanze dal tipo di questioni che normalmente fanno parte delle campagne politiche tipo: ogni cosa andrà bene se l’anno prossimo voterete per me. Quelle sono PUTTANATE, voi dovete sapere che sono PUTTANATE e dirlo. Noi abbiamo un compito in quanto accademici seriamente impegnati nel mondo: cambiare il nostro modo di pensare.

lunedì 28 maggio 2012

Eraclito, logos mon amour


Eraclito è in assoluto il pensatore greco più affascinante che io abbia mai incontrato.
Proveniva da una famiglia aristocratica ma non aveva né castelli né soldi né tutte la altre minchiate che noi moderni siamo abituati ad associare alla parola "aristocratico".
Aristocratico deriva dalla parola greca aristoi ed era una distinzione che si dava alle persone che eccellevano nel campo della saggezza, nell’igiene, nel saper consigliare, nel dirimere questioni e litigi, ecc. Insomma era sempre la saggezza, la fronesis che i Greci onoravano.
Eraclito dopo aver vissuto svariati anni ad Efeso e tra gli efesini, mandò tutto e tutti a cacare e si ritirò in disparte, sui monti. Visse in una specie di eremitaggio; è il primo esempio di filosofo solitario. Poteva diventare basileus, ma se ne fregò.
Di lui non ci rimane nessun testo, solo frammenti sparsi di un’opera che Eraclito sotterrò nel tempio di Artemide perché non ritenne i suoi scritti adatti al popolino.
Ci sono varie parole chiave che possono guidarci all’interpretazione di Eraclito: logos, physis, pòlemos, mondo, fuoco, uno-unico, ecc.
Visto che questo è il primo post dedicato a Eraclito, cominciamo dal frammento 1 (secondo l’edizione Diels-Kranz) che contiene la parola logos, nostro termine guida per “entrare in contatto” con Eraclito. Leggiamolo per intero:
“Ora, riguardo al logos, all’ente nel suo essere, gli uomini continuano a rimanere al di fuori di ogni intendimento, sia prima di porgervi orecchio, sia una volta che hanno ascoltato; infatti, mentre tutto accade secondo il logos che dico, essi invece assomigliano a chi è senza esperienza, quando si cimentano in parole e opere tali quali vado spiegando, io che distinguo ciascuna cosa secondo la sua essenza e la dico così com’è. Ma agli altri uomini sfugge ciò che fanno da svegli, proprio come rimane loro celato ciò che era loro presente nel sonno”.
Il frammento 1 viene confermato su questo punto dal frammento 72, come lo riporta Marco Aurelio:
“Ciò a cui soprattutto si accompagnano è ciò da cui si dividono, e perciò: le cose in cui si imbattono ogni giorno sono quelle che ad essi appaiono in una luce estranea (xeina)”.
Il testo sembra contenere un paradosso. Le cose in cui ci si imbatte quotidianamente non sono piuttosto le cose del tutto familiari? In che senso dovrebbero quindi mostrarsi in una luce estranea?
Nel senso che gli uomini, una volta che si sono divisi dal logos, vedono solo un lato di ciò che incontrano, e nella stessa misura la cosa incontrata è per così dire estranea a se stessa.
Il frammento ci parla così degli uomini in quanto si allontanano dall’essere per ricadere da esso nell’ente ( si può confrontare questo allontanarsi dall’essere come decadimento o una caduta [nell’ente] in Essere e tempo di Heidegger).
Ciò che dice Eraclito non ha comunque niente a che vedere con il peccato originale, ma appartiene alla differenza stessa tra essere ed ente, in relazione alla quale gli uomini sono ancora più originariamente riuniti. L’interpretazione della decadenza come peccato originale, al contrario, è in se stessa l’eliminazione di questa differenza. Ma poiché qui viene mantenuta saldamente la differenza tra essere ed ente, anche il platonismo, insieme al discredito che getta sulla mera apparenza, è ancora di là da venire. Gli xéna di Eraclito non sono affatto un qualcosa che è in un senso minore, ma l’ente stesso così estraneo quale si mostra a coloro che si allontanano dalla differenza. Eraclito non nutre ancora, come Platone, sentimenti ostili nei confronti di ciò che è estraneo.
Se adesso dal frammento 72 ritorniamo al frammento 1, possiamo aggiungere che tutto quanto vi si dice degli “inesperti” è parimenti confermato dal frammento 2: “Bisogna dunque seguire ciò è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vive come se avesse un propria e particolare saggezza”, in cui essi vengono chiamati di nuovo axùnetoi, “coloro che non vanno insieme”. Insieme a che cosa essi non vanno? Insieme al logos da cui sono separati. I “divisi” del frammento 72 sono questi “disgiunti”.
Per questo il logos può essere per noi il filo conduttore per leggere i frammenti di Eraclito.
Ah, un'ultima cosa. Lasciate perdere chiunque traduca o parli di logos traducendo questa parola con "ragione". È gente che parla tramite i romani e che non si sforza di ascoltare l'autentico "parlare greco".

venerdì 25 maggio 2012

Obama c'ha la forfora?


Washington, Stati Uniti d’America.

Prima o poi doveva succedere.
Nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirglielo, soprattutto da quando, tre anni e mezzo or sono, divenne il 44° presidente degli Stati Uniti e quindi l’uomo più potente del mondo.
Proprio come nella fiaba Gli abiti nuovi dell'imperatore scritta da Hans Christian Andersen, solo un bambino ha avuto il coraggio, ma è un termine improprio, di parlare.
Ma veniamo al fatto.
Carlton Philadelphia è un marine ricevuto con la famiglia dal presidente Obama per la foto di rito al termine del suo servizio alla Casa Bianca. Mentre si fanno i soliti convenevoli e si consuma un breve lunch a base di tartine e coca cola, il piccolo Jacob, 5 anni, prima si trattiene mettendo due mani sulla sua boccuccia, poi comincia a ridere mettendo in mostra i suoi dentini bianchi.
Ovviamente la madre di Carlton, Patricia, cerca di calmare il piccolo per non mettere in imbarazzo il presidente, ma il bambino, oramai incontenibile, non cessa di ridere.
Obama dapprima rimane un po’ sorpreso, in attesa degli eventi, quindi chiede al piccolo il perché di quell’irrefrenabile ilarità. Jacob, allora, prima si schernisce, poi visto che il presidente insiste gli grida in faccia: "Ih ih ih! c'hai la forfora!"
Dopo questa frase nella Casa Bianca cala un pesante silenzio.
John Dumpit, capo della sicurezza, avverte le teste di cuoio di stare pronti a intervenire mentre Oliver Strumbler avvisa l’aviazione e la marina di mettersi in stato di guerra ed emana un dispaccio per la CNN che il Paese è sotto attacco.
Obama, nel frattempo, ha ripreso il suo self control e dice a Jacob che non è vero che ha la forfora perché fa lo shampoo tre volte alla settimana e va dal barbiere una volta al mese.
Jacob, però, non ci crede e chiede di controllare da vicino.
Ed ecco che Obama fa un gesto di grande umanità che sorprende il mondo intero. Si avvicina al bambino, si inchina e gli dice: “Ecco, controlla”.
Jabob mette le sue manine sulla testa del presidente e poi dice: “Hai ragione, non c'hai la forfora, c'hai la segatura! Ih ih ih!”.
Obama torna in posizione eretta e ride di cuore, ridono i genitori della piccola peste, ridono i collaboratori di Obama, gli agenti dell’FBI e della CIA. Ridono tutti. Il clima torna sereno, l'aria divente di nuovo respirabile, persino Michelle Obama pare vestita quasi decentemente.
I militari sono dirottati su un paese africano qualunque e la CNN fa un servizio rassicurante che tranquillizza l’America.
Pete Souza, il fotografo ufficiale della Casa Bianca, immortala questo momento storico. La foto fa il giro del mondo e il Congresso americano emana una legge che prescrive che tutti gli americani ne abbiano una copia incorniciata sul comodino.
In Italia, la foto finisce in PRIMA PAGINA sul Corriere della Sera che io ringrazio perché senza il Corriere non sarei mai riuscito a conoscere questa importantissima notizia.











Ma andate a cacare.

giovedì 24 maggio 2012

Parole d'amore per Dante

Un pessimista spera sempre di avere torto perché non si può essere pessimisti e desiderare di aver ragione.
E oggi nel blog debutta messer Dante Alighieri attraverso le splendide parole d’amore dello scrittore Juan Rodolfo Wilcock (anch’egli al debutto).
Ho usato l’espressione “parole d’amore” non a caso, perché lo scritto di Wilcock non è né ragionevole né logico, ma irrazionale, estremo, travolgente e passionale come solo l’amore, il vero amore, può essere.
Le parole che seguono sono uno stralcio del pensiero che Wilcock aveva su Dante (e sulla poesia in generale) che mi ha molto colpito soprattutto perché per Wilcock Dante non è IL poeta o il poeta per antonomasia. Per lui Dante è l’ultimo e il più grande di tutti i poeti occidentali. E, attraverso queste meravigliose frasi, ci faremo un’idea del perché di questa forte e controversa affermazione.
“Che cosa significa per Lei, oggi, Dante?”, chiesero a Wilcock, che così rispose:
Poiché Dante fu il poeta massimo della letteratura europea, per me è come se mi domandassero: “Che cosa significa per Lei, oggi, la poesia?”.
La domanda su Dante, cioè sulla poesia, non solo mi riguarda, ma mi coinvolge.
Allo stesso modo coinvolge migliaia di persone che scrivono o hanno scritto poesie, che si occupano o si sono occupate di poesia. Non è una domanda locale, italiana: è una domanda intorno a una grande cosa finita, compiuta, senza seguito: la poesia in Europa, nelle due Americhe e in tutte quelle parti del mondo che si servono delle lingue europee. Non si tratta di Leopardi o di Torquato Tasso, si tratta del miglior poeta che ebbero le nostre lingue.
Ossia il più grosso produttore di un prodotto che non si produce più. La domanda interessa quasi tutti noi, perché fino a poco tempo fa quasi tutti noi partecipavamo, sia pure come consumatori, a questa produzione, o al suo simulacro, e l’abbiamo vista scomparire sotto i nostri occhi. Scomparire come mestiere per diventare vizio. Ora siamo in molti a sostenere che i vizi non vanno regolati, che si possono praticare in qualunque modo, e che di questo modo di praticarli si può pure parlare in pubblico. Che è lecito dunque dire che nella pratica del vizio poetico A. si dimostra più estroso di B., o che C. farebbe meglio a levarsi il vizio. Ma il mestiere era un’altra cosa.
Il mestiere consisteva nello scrivere «Dolce color d’oriental zaffiro» e consegnare al linguaggio quest’alba nuova e memorabile; il vizio sta nello scrivere di nuovo «Dolce color d’oriental zaffiro» e infilarcelo nel taschino, o legarlo alla coda del gatto; perché, dove altro possiamo metterlo? Dante si serviva della poesia per attestare la sua convinzione, gloriosa ma scaduta, che non siamo nati per vivere come bruti. Scaduta, dico: adesso sappiamo, o sospettiamo, di essere nati per vivere come bruti.
Perché? Immagino che la risposta, se sentimentale, potrebbe accennare alla morte di Dio; se concreta e statistica, all’aumento della popolazione e alla sua naturale conseguenza, la minaccia atomica. Un giorno la popolazione scemerà, le bombe scoppieranno o non scoppieranno, qualche sorta di Dio rinascerà, e avrà inizio un altro ciclo; col quale Dante forse non avrà nulla a che fare. Può darsi che sia stato il punto più alto di qualcosa che si chiamò poesia, in un ciclo ormai chiuso. Ma chiuso già ai tempi di Mallarmé e di Lewis Carroll: che non si illudano nemmeno i più pieni di buona volontà come Montale o T.S. Eliot di averne sfiorato i confini. Né gli altri che per bontà contribuirono a far credere ai giovani che il ciclo era ancora aperto.
Il pericolo peggiore (ma perché pericolo? Semplicemente prospettiva) è questo: che una miliardaria proliferazione di esseri umani, come dice Morante: «soprannumerari conciati, televisati e lustrati per la bomba atomica», estenda il nominalismo delle ideologie puerili a oggetti sempre più complessi, fino a mummificarli e convertirli in puri nomi, semmai connessi a piccoli riti: «San Marco», un posto dove si entra e dopo un quarto d’ora si esce; «Golfo di Napoli», golfo bello da guardare; «Debussy», musica che faceva la borghesia mentre decadeva; «Cechov», attività dei teatri sovvenzionati; «Shakespeare», varietà di dialoghi e vestiti del Seicento con delitti; «Picasso», disegni storti per appartamenti; «Tiziano», quadri per musei; «Leonardo», «Michelangelo» e «Raffaello», navi e geni; «Dante», poeta nazionale. E una volta svuotati di ogni senso, al contrario del Geova ebraico, di loro non sia permesso dire o sapere altro che il nome.

mercoledì 23 maggio 2012

Giovanni Falcone 23 maggio 1992 - 23 maggio 2012


Avevo tredici anni il 23 maggio del 1992 quando furono ammazzati col tritolo, Giovanni Falcone Francesca Morvillo Vito Schifani Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Sapevo che Falcone era un giudice con la faccia buona che combatteva i cattivi, combatteva contro la mafia, contro la merda.
Io la mafia la conoscevo con il nome di camorra, ma sapevo istintivamente che mafia e camorra erano solo due nomi diversi che indicavano la stessa merda.
Ricordo distintamente il dolore che provai quando vidi le edizioni straordinarie dei telegiornali. Un dolore sordo, figlio dell’impotenza e della sconfitta che la morte di Falcone mi provocava.
Quando poi, dopo nemmeno due mesi, ammazzarono anche Borsellino, ricordo di aver pensato che per l’Italia non c’era più nessuna speranza. Un pensiero che ho tuttora e che non mi ha mai abbandonato.
Avevo deciso di non fare polemiche oggi, ma solamente di ricordare Giovanni Falcone, ma una cosa voglio dirla.
Nel 1992 ammazzarono Falcone e Borsellino e quale fu la risposta del Paese? Berlusconi presidente del consiglio. Ebbene, vergognatevi, vergognatevi davvero, li avete ammazzati due volte.
Ok, l'ho detto e si fottano tutti i servi, i magagnoni e poveri ebeti.
Visto che gli anniversari per essere utili devono prolungarsi altri 364 giorni oltre la ricorrenza, ho deciso di postare dei libri che devono essere letti per conoscere meglio la storia, la nostra storia.
Solo leggendo e studiando, diamo un vero contributo alla società civile. Leggere, studiare, ricordare sempre, solo questo rende uomini e degni cittadini.
Che andiate oggi a fare una fiaccolata e poi nient’altro, non serve a un emerito cazzo.

Cose di cosa nostra, è il libro irrinunciabile per conoscere Giovanni Falcone. In venti interviste raccolte dalla giornalista francese, Marcelle Padovani, Falcone ci racconta la mafia e lo Stato. La prima edizione è del 1991.

Giovanni Falcone un eroe solo, il ricordo di Maria Falcone sorella di Giovanni e presidente della Fondazione Falcone, è raccolto da Francesca Barra.

Le ultime parole di Falcone e Borsellino, curato da Antonella Mascali, con la prefazione di Roberto Scarpinato, è un omaggio, attraverso appunti, interviste e interventi dei due giudici ammazzati da Cosa Nostra.

Quarant'anni di mafia, il libro enciclopedico di Saverio Lodato, racconta gli ultimi quarant'anni di mafia. Aggiornato di volta in volta ("Dieci anni di mafia", "Venti anni di mafia", "Tranta anni di mafia").

Antonino Caponnetto. Non è finito tutto, un fumetto di Luca Salici e Luca Ferrara, ci racconta attraverso gli occhi del giudice Antonino Caponnetto la Palermo del '92. Prefazione di Camilleri.

Volevo nascere vento. Storia di Rita, il libro di Andrea Gentile racconta la tragica storia di Rita Atria, che, diciassettenne, decise di dissociarsi dalla sua famiglia di mafia.

martedì 22 maggio 2012

Programma politico Movimento 5 Stelle 2. Energia


Chissà se stavolta l'ha sentito il BOOM del Movimento 5 Stelle il signor presidente dei partiti italiani (e non del popolo italiano e basta...).
Io l'ho sentito e me ne sono ampiamente rallegrato. Ho goduto per la sconfitta del PDL, ho goduto per il 7 a 0 subito dalla Lega, ma soprattutto ho goduto come un porco per l'elezione, a Parma, del primo sindaco del Movimento: Federico Pizzarotti.
Complimenti a lui, ai suoi collaboratori e alla magnifica città di Parma che ha avuto una reazione di grandissima civiltà. L'avevano etichettata come "città più corrotta del nord" e l'elezione di Pizzarotti è un grosso vaffanculo a tutti i magagnoni e ai politicanti di merda.

Veniamo ora alla pubblicazione della seconda parte del programma politico del Movimento 5 Stelle. Riguarda l'energia ed è la parte più corposa e tecnica del programma.
Le linee guida sono essenzialmente due: riduzione dei consumi e degli sprechi energetici e lo sfruttamento di nuove risorse energetiche con minore impatto ambientale.
Come sempre non basta solamente leggerlo, ma informarsi, confrontare, studiare e fare tante altre azioni che fanno le persone e i cittadini per bene.
Buona lettura.

Se venisse applicata rigorosamente la legge 10/91, per riscaldare gli edifici si consumerebbero 14 litri di gasolio, o metri cubi di metano, al metro quadrato calpestabile all’anno. In realtà se ne consumano di più. Dal 2002 la legge tedesca, e più di recente la normativa in vigore nella Provincia di Bolzano, fissano a 7 litri di gasolio, o metri cubi di metano, al metro quadrato calpestabile all’anno il consumo massimo consentito nel riscaldamento ambienti.
Meno della metà del consumo medio italiano.
Utilizzando l’etichettatura in vigore negli elettrodomestici, nella Provincia di Bolzano questo livello corrisponde alla classe C, mentre alla classe B corrisponde a un consumo non superiore a 5 litri di gasolio, o metri cubi di metano, e alla classe A un consumo non superiore a 3 litri di gasolio, o metri cubi di metano, al metro quadrato all’anno. Nel riscaldamento degli ambienti, una politica energetica finalizzata alla riduzione delle emissioni di CO2, anche per evitare le sanzioni economiche previste dal trattato di Kyoto nei confronti dei Paesi inadempienti, deve
articolarsi nei seguenti punti:
• Applicazione immediata della normativa, già prevista dalla legge 10/91 e prescritta dalla direttiva europea 76/93, sulla certificazione energetica degli edifici
• Definizione della classe C della provincia di Bolzano come livello massimo di consumi per la concessione delle licenze edilizie relative sia alle nuove costruzioni, sia alle ristrutturazioni di edifici esistenti
• Riduzione di almeno il 10 per cento in cinque anni dei consumi energetici del patrimonio edilizio degli enti pubblici, con sanzioni finanziare per gli inadempienti
• Agevolazioni sulle anticipazioni bancarie e semplificazioni normative per i contratti di ristrutturazioni energetiche col metodo esco (energy service company), ovvero effettuate a spese di chi le realizza e ripagate dal risparmio economico che se ne ricava
• Elaborazione di una normativa sul pagamento a consumo dell’energia termica nei condomini, come previsto dalla direttiva europea 76/93, già applicata da altri Paesi europei.
Il rendimento medio delle centrali termoelettriche dell’Enel si attesta intorno al 38%. Lo standard con cui si costruiscono le centrali di nuova generazione, i cicli combinati, è del 55/60%.
La co-generazione diffusa di energia elettrica e calore, con utilizzo del calore nel luogo di produzione e trasporto a distanza dell’energia elettrica, consente di utilizzare il potenziale energetico del combustibile fino al 97%. Le inefficienze e gli sprechi attuali nella produzione termoelettrica non sono accettabili né tecnologicamente, né economicamente, né moralmente, sia per gli effetti devastanti sugli ambienti, sia perché accelerano l’esaurimento delle risorse fossili, sia perché comportano un loro accaparramento da parte dei Paesi ricchi a danno dei Paesi poveri. Non è accettabile di per sé togliere il necessario a chi ne ha bisogno, ma se poi si spreca, è inconcepibile. Per accrescere l’offerta di energia elettrica non è necessario costruire nuove centrali, di nessun tipo. La prima cosa da fare è accrescere l’efficienza e ridurre gli sprechi delle centrali esistenti, accrescendo al contempo l’efficienza con cui l’energia prodotta viene utilizzata dalle utenze (lampade, elettrodomestici, condizionatori e macchinari industriali).
Solo in seguito, se l’offerta di energia sarà ancora carente, si potrà decidere di costruire nuovi impianti di generazione elettrica. Nella produzione di energia elettrica e termica, una politica energetica finalizzata alla riduzione delle emissioni di CO2 anche accrescendo l’offerta, deve articolarsi nei seguenti punti:
• Potenziamento e riduzione dell’impatto ambientale delle centrali termoelettriche esistenti
• Incentivazione della produzione distribuita di energia elettrica con tecnologie che utilizzano le fonti fossili nei modi più efficienti, come la co-generazione diffusa di energia elettrica e calore, a partire dagli edifici più energivori: ospedali, centri com-merciali, industrie con processi che utilizzano calore tecnologico, centri sportivi ecc.
• Estensione della possibilità di riversare in rete e di vendere l’energia elettrica anche agli impianti di micro-cogenerazione di taglia inferiore ai 20 kW
• Incentivazione della produzione distribuita di energia elettrica estendendo a tutte le fonti rinnovabili e alla micro-cogenerazione diffusa la normativa del conto energia, vincolandola ai kW riversati in rete nelle ore di punta ed escludendo i chilowattora prodotti nelle ore vuote
• Applicazione rigorosa della normativa prevista dai decreti sui certificati di efficienza energetica, anche in considerazione dell’incentivazione alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili che essi comportano
• Eliminazione degli incentivi previsti dal CIP6 alla combustione dei rifiuti in base al loro inserimento, privo di fondamento tecnico-scientifico, tra le fonti rinnovabili
• Legalizzazione e incentivazione della produzione di biocombustibili, vincolando all’incremento della sostanza organica nei suoli le produzioni agricole finalizzate a ciò
• Incentivazione della produzione distribuita di energia termica con fonti rinnovabili, in particolare le biomasse vergini, in piccoli impianti finalizzati all’autoconsumo, con un controllo rigoroso del legno proveniente da raccolte differenziate ed esclu-dendo dagli incentivi la distribuzione a distanza del calore per la sua inefficienza e il suo impatto ambientale
• Incentivazione della produzione di biogas dalla fermentazione anaerobica dei rifiuti organici.

lunedì 21 maggio 2012

Come salvare concretamente la Grecia


Paesi come Cina, India, USA, Germania hanno i conti in regola, i bilanci a posto, sono veri e propri potentati economici, imperi finanziari, son bravi a fare gli affari. Speculazioni borsistiche, fabbriche d’armi e relativi traffici, trust petroliferi, industrie farmaceutiche, guerre in Iraq, in Afganistan e tanto altro ancora.
Sanno gestire lo spread, non vengono toccate dal default, non conoscono crisi.
E sticazzi? Conta solo l’economia a questo mondo? Onoriamo i paesi e le politiche che fottono il prossimo? Per me tutto questo conta zero, o quasi.
La Grecia è un paese piccolo con alcune isole e isolette, che magari non è bravo a fottersi il Kuwait o a rovinare la propria gente con i mutui subprime.
Però, la Grecia possiede la vera ricchezza: quella culturale, quella filosofica, quella artistica…la Grecia è l’anima dell’Europa, e le genuine radici europee non sono cristiane di sta ceppa né economiche: sono GRECHE.
O forse credete che l’Europa si fondi o si possa fondare sull’Euro, sulla BCE o su altre mostruosità veri moloch dei pezzenti e mezzi pazzi dei nostri tempi?
È nostro dovere, dovere di tutte le persone per bene, aiutare e difendere la Grecia.
Dobbiamo reagire contro gli speculatori e i banchieri de sto cazzo che la vogliono soggiogare, affamare, distruggere.
Bisogna, visto che viviamo in un’epoca di merda, trovare il modo di monetizzare il patrimonio culturale che gli antichi Greci ci hanno lasciato in eredità.
Io ho una proposta concreta da fare che ho mutuato da Enzo Savino.
La proposta è questa: far pagare un centesimo di euro a tutti quelli che usano parole coniate dai Greci antichi. Savino propone di abbonare parole di genealogia greca usate da tutti quali democrazia (potere del demo, del popolo), economia (le regole della casa), politica (il reggimento di una polis, un città, o per estensione di uno Stato).
Io sono più radicale e non le regalo, che si paghino anche queste parole.
Altra parola da pagare è “spread” che è il differenziale, lo scarto tra valori finanziari. Si camuffa, come al solito, da parola anglosassone, ma è una parola che risale ai contadini arcaici di Omero ed Esiodo. Nel loro linguaggio, speiro significava “io semino”, un atto maestoso, che sa di terra, di sudore sui solchi, di fiducia nell’arrischiare i chicchi preziosi in vista del raccolto. Il ventaglio di semi gettati con sapienza sulle zolle era lo “spread” antico, l’arco del grano che scintillava nell’aria. Ieri una festa di lavoro, di speranza, di vita, oggi una truce minaccia di miseria.
Prendiamo “default”. È il crollo, il fallimento, la bancarotta, lo spettro che ci incatena all’ansia. È un altro vocabolo greco, che chiamavano sphàllein (ecco la sinistra radice di de-fault) l’atterrare un avversario con lo sgambetto, il farlo rovinare a terra.
Arriviamo alla parola più ricorrente di questi tempi (che ha anche rotto abbondantemente i coglioni): crisi. È l’antica krisis, l’atto drammatico del krìnein, il “decidere”, la scelta fatale, il colpo di spada che dirime una situazione allo stremo. E molte altre parole ancora…
Ecco la proposta. Una volta tanto pagheremmo una tassa giusta, una tassa bella contenti di aver salvato un Paese (invece di sfruttarlo o distruggerlo come al solito) e di aver ricambiato la Grecia di tanti tesori d’intelligenza e di spirito.

sabato 19 maggio 2012

Pena di morte

Voglio la pena di morte per quelli che hanno messo la bomba alla scuola di Brindisi, per i mandanti e per tutti i mafiosi e i terroristi.
Basta con le cazzate cattoliche i nessuno tocchi caino e altre minchiate.
Pena di morte per queste bestie.

venerdì 18 maggio 2012

Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale. Un incipit straordinario


Mi sto letteralmente innamorando dei pensieri della filosofa ebrea francese Simone Weil (1909-1943) e dopo averne letto le Lezioni di filosofia (ed. Adelphi), sono alle prese con l’opera Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale.
Le Riflessioni furono scritte nella prima metà degli anni ’30, ma uscirono postume solo nel 1955.
Oggi parlo solo dell’incipit; il prossimo post, invece, sarà dedicato alla Critica marxista.
Le prime parole sono dedicate al presente dove io ho ritrovato la medesima “condizione emotiva” di cui parla Weil.
Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione.
Tutto va rimesso in questione, mi sembra un’ottima parola d’ordine per il nostro presente e forse per il presente di tutti i tempi. Una scossa per ripartire, per non abbattersi e per non precipitare in una micidiale accidia.
Altro punto estremamente attuale riguarda il lavoro che è uno degli argomenti più dibattuti e discussi in assoluto e uno dei pensieri, o meglio ossessioni, costanti di tutti noi.
Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utili, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto.
Non serve aggiungere altro.
Poi Simone fa un accenno al rapporto problematico che si è instaurato, a partire dal Novecento, tra il progresso tecnico e la fede in esso da parte degli industriali, progresso che ha apportato alle masse, in luogo del benessere, la miseria fisica e morale.
È messo in questione anche il progresso scientifico. A cosa può servire, si chiede Weil, accatastare ulteriormente conoscenze su un ammasso già fin troppo vasto per poter essere abbracciato dal pensiero stesso degli specialisti? L’esperienza mostra che i nostri antenati si sono ingannati credendo nella diffusione dei lumi, poiché non si può divulgare fra le masse che una miserabile caricatura della cultura scientifica moderna, caricatura che, lungi dal formarne la capacità di giudizio, le abitua alla credulità.
La prima parte dell’incipit si chiude con queste parole:
…la vita familiare è diventata solo ansietà, a partire dal momento in cui la società si è chiusa ai giovani. Proprio quella generazione per la quale l’attesa febbrile dell’avvenire costituisce la vita intera vegeta in tutto il mondo con la consapevolezza di non avere alcun avvenire, che per essa non c’è alcun posto nel nostro universo. Del resto questo male, al giorno d’oggi, se è più acuto per i giovani, è comune a tutta l’umanità. Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia.
La seconda parte dell’incipit è dedicata a una parola magica che sorregge, come una stampella, molte persone alleviandone le pene: rivoluzione.
Da oltre un secolo, scrive la Weil, ogni generazione di rivoluzionari ha di volta in volta sperato in una rivoluzione prossima; oggi [ed è il cambiamento da analizzare], questa speranza ha perso tutto ciò che poteva servirle di supporto. Né al regime nato dalla rivoluzione d’Ottobre, né nelle due Internazionali, né nei partiti socialisti o comunisti indipendenti, né nei sindacati, né nelle organizzazioni anarchiche, né nei piccoli gruppi di giovani sorti in così gran numero negli ultimi tempi è possibile trovare qualcosa di vigoroso, di sano o di puro [bè, basterebbe pensare agli anni di piombo…]; già da molto tempo la classe operaia non dà alcun segno di quella spontaneità sulla quale contava Rosa Luxemburg, e che sempre del resto, quando si è manifestata, è stata subito annegata nel sangue; le classi medie sono sedotte dalla rivoluzione unicamente quando essa è evocata, a fini demagogici, da apprendisti dittatori [o gli imbonitori televisivi piduisti].
Infine, la Weil ha un dubbio estremamente stuzzicante su capitalismo e rivoluzione:
…il primo dovere che il presente ci impone è di aver sufficiente coraggio intellettuale per domandarci se il termine rivoluzione è altro che una parola, se ha un contenuto preciso, se non è semplicemente una delle numerose menzogne suscitate dal regime capitalista nel suo sviluppo e che la crisi attuale ci aiuta a dissipare.
Spero di aver suscitato curiosità per queste Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, perché questo è il mio obiettivo.

giovedì 17 maggio 2012

È ufficiale: condannate l'Ermeneutica e la filosofia Postmoderna

(un filosofo postmoderno viene fucilato da un plotone di filosofi realisti)

Non seguo nessun maestro di pensiero, odio i guru, i capi carismatici e altra gentaglia.
Non appartengo a nessuna scuola, non ho mai fatto lo zerbino di nessun professorone, non ho mai creduto né mi sono mai piaciuti gli –ismi, gli –isti e tutte le etichette della minchia. Ho fatto tutto il possibile per uscire al più preso da qualsiasi discepolato. I maestri cercano seguaci, cioè cercano zeri e io uno zero non sono. Ho il mio gusto e il mio cervello, non mi comanda nessuno e a tutti i maestri, i professori e gli insegnanti ho sempre mostrato il dito medio quando si pigliavano un’eccessiva confidenza o esageravano nel volermi influenzare.
Io sono Ingestibile, lascio fare i i coglioni boccaloni ad altri.
Non capisco la gente che dedica la vita a un solo pensatore, quelli che si consacrano ad un solo filosofo, insomma quelli che per forza devono avere un Cristo da adorare e un Vangelo da leggere.
Ma che senso ha?
Mi si potrebbe dire che così va il mondo accademico, che la cultura funziona così, l’università, gli studi, le monografie…ma sticazzi!
Io leggo ciò che mi pare e tutto quel che mi pare. Leggo Kant senza essere kantiano, Nietzsche senza essere nicciano, Sartre senza essere esistenzialista ecc. ecc. Io svario da Eraclito e Parmenide a Platone e Aristotele, da Giordano Bruno e Cartesio a Leibniz e Hegel, da Marx e Stirner a Foucault e Deleuze e molti, molti altri ancora.
In questi giorni ho letto che sono stati condannati due metodologie di pensiero: l’ermeneutica e il pensiero postmoderno che hanno avuto una certa popolarità negli ultimi decenni, mentre si inneggiava al realismo come pensiero filosofico da preferire e coltivare in questi tempi così difficili.
Io me la spasso troppo a seguire queste diatribe tra vecchi filosofanti, alla fine della lettura mi ritrovo sempre a ghignare e a sussurrare quasi tra me e me un bel emmecojoni!
Comunque veniamo a noi e vediamo un po’ il perché di questo ostracismo filosofico.
Il pensiero postmoderno, si dice, non è che è fallito, ma si è realizzato troppo bene, e in maniera perversa, cioè contraria alle intenzioni dei suoi teorizzatori filosofici. L’idea era che la decostruzione di una realtà piena di costruzioni sociali sarebbe risultata emancipativa.
Il risultato, però, è stato il realitysmo mediatico (e poi non dite che non vi faccio divertire con queste buffissime espressioni), dove l’ironia e la critica dell’oggettività non sono emancipazione, ma oppressione. Il risultato sono state guerre scatenate sulla base di menzogne, crisi economiche prodotte da una finanza creativa che non faceva differenza tra realtà e immaginazione, e, nel minimo farsesco, Berlusconi che si inventa nipoti di Mubarak. Bisogna, si dice, riconoscere l’arco che dal postmoderno conduce al populismo.
Ecco, io non sono un pensatore postmoderno, il solo nome “pensiero debole” mi fa cacare, ma imputare al postmoderno la nascita dei reality show e della tv di merda, le guerra contro Saddam e l’avvento di Berlusconi in politica mi pare proprio ‘na strunzat’.
Occupiamoci ora dell’ermeneutica.
Nessun filosofo realista nega l’importanza dell’ermeneutica nelle pratiche sociali e conoscitive. Quello che appare inaccettabile è la formulazione di Nietzsche: “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Perché anche qui, sulle prime appare come una grande promessa di emancipazione, l’idea di una umanità che si libera dalle ombre della caverna platonica, dai falsi idoli e dalle illusioni. Ma poi si rivela per quello che è, un perfetto strumento reazionario, la traduzione filosofeggiante e scettica del “La ragione del più forte è sempre la migliore”, l’idea che chi ha il potere, per ingiusto e disumano che sia, può imporre le sue interpretazioni, con la forza dei suoi avvocati o dei suoi eserciti o dei suoi soldi. Immaginate, si dice, un tribunale in cui, invece che “La legge è uguale per tutti”, trovaste scritto “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Ci sarebbe certo da aver paura, ci sentiremmo peggio di Josef K. de Il processo di Kafka. C’è un filo continuo che dal disprezzo dei fatti, dal considerarli banali e modificabili, porta alla negazione dei fatti. “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” significa, se le parole hanno un senso, che anche Auschwitz è solo una interpretazione.
Io non sono un ermeneuta, ma tutta sta tiritera sul “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” va fuori strada. Non c’entra una beata fava tutto ciò con Nietzsche e il suo pensiero.
Vabbè, vorrà dire che nei prossimi post mi dovrò occupare di questa presunta vera e vincente filosofia realista e ristabilire la verità storica e filosofica della frase nicciana.
Au revoir.

mercoledì 16 maggio 2012

Facciamo la conoscenza dell'indaco


Visto che voglio inaugurare una sezione del blog dedicata ai colori e alla teoria dei colori, come primo post ho deciso di parlare dell'indaco. Colore il cui nome ci accompagna sin da bambini perché è uno dei sette colori che compongono l'arcobaleno che è composto da rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, violetto e, appunto, indaco.
L'indaco è un blu molto complesso che spazia dal nero inchiostro all'azzurro tenue. Amato dagli acquerellisti, l'indaco appare come un colore forte ed opaco, totalmente permanente e fotostabile.
Uno dei pigmenti blu più antichi, l'indaco fu creato, in origine, utilizzando delle piante del genere indigofera. Il più diffuso veniva realizzato utilizzando la pianta indiana Indigo Tinctoria, da qui il nome indaco (inchiostro indiano). La pianta veniva tagliata e messa in grandi fusti dove macerava e fermentava. Il precipitato scuro veniva poi scremato, passato, pressato ed asciugato in dischi che avrebbero poi formato la base del pigmento indaco.
L'indaco può essere trovato in tutto il mondo e, addirittura nell'antica civiltà Maya, dove veniva utilizzato per le ceramiche e negli affreschi. Tracce di indaco possono essere trovate negli scudi da parata degli antichi romani e nei vestiti degli egizi. Era anche la base dell'inchiostro standard blu cinese e, una volta scoperto che non era corrosivo, fu utilizzato per i manoscritti indiani e persiani. Una volta che il commercio di indaco si impiantò in Europa, si inserì nella cultura europea e oggi si trova nelle cattedrali britanniche di Exeter e Salisbury.
I blu sono sempre stati tra i colori più costosi al mondo artistico. Se confrontato con le sue controparti minerali, come lapislazzuli e cobalto, l'indaco è molto meno caro e gli artisti come Rembrandt e Frans Hals lo utilizzavano nei loro dipinti.
Nel 1878 il chimico tedesco Von Baeyer scoprì come sintetizzare l'indaco. Dopo questa scoperta, il commercio dell'indaco naturale declinò e oggi per i pigmenti viene utilizzato un indaco sintetico di alta qualità. L'indaco del Bengala, comunque, che viene considerato tra i migliori, ha continuato ad essere ampiamente utilizzato nell'industria tessile.
Nel 1997, quando fu ricostruito il teatro Shakespeare Globe a Londra, fu utilizzato il pigmento originale indiano per dipingere la volta celeste del teatro.

martedì 15 maggio 2012

Pasolini e il popolo napoletano


Pasolini aveva girato a Napoli il suo Decameon, prestando ai personaggi di Boccaccio il dialetto di Basile, di Sgruttendio e di Ferdinando Russo.
Nel corso di quel soggiorno, che ebbe luogo nel settembre-ottobre 1970, Pier Paolo si era innamorato del popolo napoletano e ne aveva intuito, forse unilateralmente, certo con disperata passione, una dimensione tragica che è spesso sfuggita ai visitatori più distratti.
E sui napoletani, Pasolini ci ha lasciato questa pagina meravigliosa e stupefacente.

Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà, ecc., ma strano, ciò che conta non è questo. Io non so se gli “esclusi dal potere” napoletani preesistessero, così come sono, al potere, o ne siano un effetto. Cioè, non so se tutti i poteri che si sono susseguiti a Napoli, così stranamente simili tra loro, siano stati condizionati dalla plebe o l’abbiano prodotta. Certamente c’è una risposta a questo problema, basta leggere la storia napoletana non da dilettanti o casualmente, ma con onestà scientifica. Questo io finora non l’ho fatto, perché non mi si è presentata l’occasione, o forse perché non mi interessa. Ciò che si ama tende a imporsi come ontologico*.
Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare.
Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Boja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto questa negazione alla storia è giusto, è sacrosanto.
La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazze nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) o per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).
I napoletani hanno deciso di estinguersi restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.

* splendida definizione di che cos'è la filosofia nella sua essenza.

lunedì 14 maggio 2012

Il campo di battaglia della metafisica


Nel 1781 comparve sulla scena filosofica un’opera che segnò per sempre una linea di confine. La filosofia non sarebbe più stata la stessa e ogni pensatore avrebbe dovuto confrontarsi con essa.
Sto parlando della Critica della ragione pura, che uscì a Riga nel 1781. Autore: Immanuel Kant.
La prima pagina della Critica della ragione pura, che posterò di seguito, delinea già il programma filosofico kantiano.
Protagonista dell’opera è la ragione umana. Ragione umana non alle prese con fatti empirici, con le esperienze di tutti i giorni; ma, quando essa va oltre (“meta”) i fatti empirici (“fisici”) producendo quindi enunciati metafisici. È la ragione umana metafisica che Kant si propone di “criticare”.
Il verbo criticare, in questo contesto, non ha la valenza che siamo soliti dargli, non significa riportare pareri negativi, bocciare, contestare, ecc. Critica qui va inteso nel senso greco di κρὶνω, cioè un esame circostanziato della ragione che ne valuti la capacità, le pretese, il potere, la funzione, il tutto dal punto di vista della ragione pura, cioè la ragione che non si affida all’esperienza ma va oltre. (quindi la ragione “purificata” dai meri dati empirici)
Come dice l’ultimo rigo, la metafisica è un campo di battaglia e Kant vi entra come un bulldozer con la sua Critica. Quello che seguirà è uno spettacolo speculativo terribile, difficile ma con un fascino senza limiti. È un libro infernale, un libro da diventare matto, insomma la goduria è infinita.
Ne parlerò ancora, per ora cominciamo a leggerne la prima pagina.
In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino di venire assediata da questioni, che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana.
Essa incorre in questo imbarazzo senza sua colpa.
Muove da proposizioni fondamentali, il cui uso è inevitabile nel corso dell’esperienza, ed insieme è da questa sufficientemente convalidato. Con tali proposizioni essa sale sempre più in alto (come in verità richiede la sua natura), a condizioni più remote. Ma poiché si accorge, che a questo modo la sua attività deve rimanere ognora senza compimento, essa si vede allora costretta a rifugiarsi in proposizioni fondamentali, che oltrepassano ogni possibile uso di esperienza e nondimeno sembrano tanto superori ad ogni sospetto, che anche la comune ragione umana si trova d’accordo su di esse. Così facendo tuttavia essa cade in oscurità e contraddizioni, dalle quali a dire il vero può inferire, che alla base debbono sussistere da qualche parte errori nascosti; essa non può tuttavia scoprirli, poiché le proposizioni fondamentali, di cui si serve, non riconoscono più alcuna pietra di paragone nell’esperienza, dal momento che oltrepassano il confine di ogni esperienza.
Ebbene, il campo di battaglia di questi contrasti senza fine si chiama m e t a f i s i c a.

venerdì 11 maggio 2012

Programma politico Movimento 5 Stelle 1. Stato e cittadini


Visto che molti parlano a schiovere, cioè parlano senza sapere le cose, facendo confusione o appoggiandosi al vociare e ai titoli di telegiornali e quotidiani, ho deciso di dedicare alcuni post al programma politico del Movimento 5 Stelle.
Per ora non sono un iscritto, ma è l’unico movimento politico che seguo perché sinceramente PDL e Lega mi fanno cacare, il PD è veramente ributtante e altre forze politiche sono vuote o squallide (tipo l’UDC).
I poveracci si limitano ad insultare Beppe Grillo, un cittadino decente sa che Grillo e il Movimento 5 Stelle son due cose diverse pur provenendo dalla stessa "famiglia" e, soprattutto, invece di sparare cazzate senza fondamento legge il programma.
La prima parte del programma politico del Movimento 5 Stelle riguarda lo Stato e i cittadini.
L’organizzazione attuale dello Stato è burocratica, sovradimensionata, costosa, inefficiente.
Il Parlamento non rappresenta più i cittadini che non possono scegliere il candidato, ma solo il simbolo del partito.
La Costituzione non è applicata.
I partiti si sono sostituiti alla volontà popolare e sottratti al suo controllo e giudizio.

• Abolizione delle province
• Accorpamento dei Comuni sotto i 5.000 abitanti
• Abolizione del Lodo Alfano (obiettivo raggiunto)
• Insegnamento della Costituzione ed esame obbligatorio per ogni rappresentante pubblico
• Riduzione a due mandati per i parlamentari e per qualunque altra carica pubblica
• Eliminazione di ogni privilegio particolare per i parlamentari, tra questi il diritto alla pensione dopo due anni e mezzo
• Divieto per i parlamentari di esercitare un’altra professione durante il mandato
• Stipendio parlamentare allineato alla media degli stipendi nazionali
• Divieto di cumulo delle cariche per i parlamentari (esempio: sindaco e deputato)
• Non eleggibilità a cariche pubbliche per i cittadini condannati
• Partecipazione diretta a ogni incontro pubblico da parte dei cittadini via web, come già avviene per Camera e Senato
• Abolizione delle Authority e contemporanea introduzione di una vera class action
• Referendum sia abrogativi che propositivi senza quorum
• Obbligatorietà della discussione parlamentare e del voto nominale per le leggi di iniziativa popolare
• Approvazione di ogni legge subordinata alla effettiva copertura finanziaria
• Leggi rese pubbliche on line almeno tre mesi prima delle loro approvazione per ricevere i commenti dei cittadini.

Ovviamente, leggerlo non basta. Bisogna soffermarsi su ogni singola questione. Analizzare, confrontare, ricercare quello che non conosciamo o ci lascia in dubbio.
L’abolizione delle province e l’accorpamento dei Comuni sotto i 5 mila abitanti è un modo per ridurre i costi della politica sono esorbitanti e immorali. È pure un modo per far girare intorno alla politica gentaglia e ladri. Girando meno soldi avremo una riduzione dei figli di puttana intorno alle istituzioni. È matematico. E sarebbe anche un modo per frenare il clientelismo che i politicanti adoperano per raccattare voti.
Il Lodo Alfano e la non eleggibilità a cariche pubbliche per i cittadini condannati (soprattutto per chi ha rubato soldi pubblici) non ci sarebbe neanche bisogno di metterle nel programma, perché dovrebbero essere cose normali. Ma l’Italia è a un livello talmente vergognoso che c’è bisogno di mettere anche queste cose.
L’insegnamento della Costituzione ed esame obbligatorio per ogni rappresentante pubblico si rende necessario perché si è visto che costoro o non la conoscono o fanno finta di ignorarla.
La riduzione a due mandati per i parlamentari e per qualunque altra carica pubblica è una proposta che mi trova d’accordo per favorire il ricambio visto che i nostri parlamentari vogliono fare i vescovi; stare tra i coglioni per cinquanta o sessant’anni; fino alla morte insomma.
L’eliminazione di ogni privilegio particolare per i parlamentari, tra questi il diritto alla pensione
dopo due anni e mezzo, il divieto per i parlamentari di esercitare un’altra professione durante il mandato, lo stipendio parlamentare allineato alla media degli stipendi nazionali e il divieto di cumulo delle cariche per i parlamentari (esempio: sindaco e deputato), sono tutte proposte anti casta. Tutti tentativi per migliorare la situazione penosa in cui versa la politica italiana. Ovviamente queste proposte tocca ai cittadini farle e lottare per esse perché la casta non ha nessun interesse ad attuare queste riforme. È una vera guerra politica. Noi contro loro.
La partecipazione diretta a ogni incontro pubblico da parte dei cittadini via web, come già avviene per Camera e Senato, i referendum sia abrogativi che propositivi senza quorum, l’obbligatorietà della discussione parlamentare e del voto nominale per le leggi di iniziativa popolare, le leggi rese pubbliche on line almeno tre mesi prima delle loro approvazione per ricevere i commenti dei cittadini sono proposte tese a far partecipare di più i cittadini, per renderli più consapevoli e informati della realtà politica, per evitare di cadere nel sonno letale di “limitarsi a delegare”.
L’approvazione di ogni legge subordinata alla effettiva copertura finanziaria è un’altra proposta condivisibile mentre l’abolizione delle Authority e contemporanea introduzione di una vera class action è da approfondire anche per capire meglio cosa significa: class action.

giovedì 10 maggio 2012

Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione [scritto introduttivo]


La questione di quale carattere avrebbe assunto il potere statale, una volta che il proletariato insorto avesse riportato la vittoria, è il motivo principale che spinse Lenin a scrivere Stato e rivoluzione. Per questo, nella seconda metà del 1916, egli manifestò l’esigenza di mettere a punto e rielaborare in forma sistematica la teoria marxista dello Stato.
Lenin ritenne indispensabile schierarsi contro le deformazioni della teoria marxista dello Stato nei teorici più in vista del marxismo: Plechanov e Kautsky.
“Il problema dell’atteggiamento dello Stato nei confronti della rivoluzione sociale e della rivoluzione sociale nei confronti dello Stato, come del resto il problema della rivoluzione in generale, ha preoccupato assai poco i teorici e i pubblicisti più in vista della II Internazionale (1889-1914). Si può dire in generale che la tendenza a eludere il problema dell’atteggiamento della rivoluzione proletaria verso lo Stato, tendenza vantaggiosa per l’opportunismo che essa alimentava, ha portato al travisamento del marxismo e alla sua completa degradazione”.
Nell’autunno del 1916 e all’inizio del 1917 Lenin si immerse nel lavoro teorico; lavorò con foga in biblioteca studiando a fondo le opere di Marx ed Engels sulla questione dello Stato. Questo lavoro si tradusse in numerosissimi appunti riportati in un famoso quaderno con la copertina blu intitolato Il marxismo sullo Stato.
In esso Lenin trascrisse tutte le principali citazioni sull’argomento, tratte dalle opere di Marx ed Engels, nonché estratti di libri e articoli di Kautsky, Pannekoek e Bernstein, con osservazioni critiche e conclusioni. In una lettera ad Aleksandra Kollontaj (autrice dell’interessantissimo libro Largo all’Eros alato! di cui parlerò in futuro) in data 4 (17) febbraio 1917, Lenin diceva di aver quasi finito di raccogliere la documentazione necessaria sull’argomento.
Riporto alcune parole di Lenin scritte nella Prefazione alla prima edizione (Agosto 1917):
Il problema dello Stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico. La guerra imperialista ha accelerato e acutizzato a un grado estremo il processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. L’oppressione mostruosa delle masse lavoratrici da parte dello Stato, il quale si fonde sempre più strettamente con le onnipotenti associazioni dei capitalisti, acquista proporzioni sempre più aberranti. I paesi più avanzati si trasformano – ci riferiamo alle loro “retrovie” – in case di pena militari per gli operai.
Gli inauditi orrori e flagelli di una guerra di cui non si vede la fine, rendono insostenibile la situazione delle masse, aumentano la loro indignazione. La rivoluzione proletaria internazionale matura in modo visibile, e il problema del suo atteggiamento verso lo Stato assume un significato pratico.
Gli elementi di opportunismo che si son venuti accumulando nel corso di decenni di sviluppo relativamente pacifico, hanno fatto sorgere la corrente socialsciovinista che domina nei partiti socialisti ufficiali di tutto il mondo. Questa corrente (Plekhanov, Potresov, Bresckovskaia, Rubanovic, e, in forma appena velata, i signori Tsereteli, Cernov e consorti in Russia; Scheidemann, Legien, David e altri in Germania; Renaudel, Guesde, Vandervelde in Francia e in Belgio; Hyndman e i Fabiani in Inghilterra, ecc.) – che è socialismo a parole e sciovinismo nei fatti – si distingue per l’atteggiamento piatto, servile, dei “capi” del “socialismo” agli interessi non solo della “propria” borghesia nazionale, ma precisamente del “proprio” Stato, giacché da lungo tempo la maggior parte delle cosiddette grandi potenze sfruttano e asserviscono numerosi popoli piccoli e deboli.
Orbene la guerra imperialista è appunto una guerra per la spartizione e la ridistribuzione di un simile bottino. La lotta per sottrarre le masse lavoratrici all’influenza della borghesia in generale, e in particolare della borghesia imperialista è impossibile senza una lotta contro i pregiudizi opportunistici sullo “Stato”.

mercoledì 9 maggio 2012

Dieta, boom nel culo e soldi


Fatto il primo controllo-peso dopo due settimane di dieta: persi 5 chili. Il prossimo è fissato il 22 maggio. Posso fare ancora meglio perché lo stomaco si sta abituando a mangiare di meno (cioè in maniera normale) e quindi sarò più ligio e preciso nel rispettare le direttive mediche. Conto anche di cominciare a fare un po’ di sport e di esercizi per gli addominali e i pettorali.
Contento per l’exploit del Movimento 5 Stelle alle elezioni amministrative. Spero che la gente onesta capisca che votare per i vecchi partiti è del tutto inutile. Spero che la gente onesta capisca che deve partecipare di più e non delegare. Spero che la gente capisca che la casta è il primo nemico e che i politici son quasi tutti merde. Spero che la gente onesta capisca che deve leggere e studiare di più per capire e trasformare in meglio la realtà.
Il vecchio comunista inutile non eletto dal popolo dice che il boom non l’ha sentito. Sturati le orecchie, matusalemme. In fondo è da comprendere, Napolitano è un vecchio comunista e per i comunisti di una volta il partito è sacro. Sono più fondamentalisti dei religiosi, guai a toccargli la casta. Dopo tutto lui è eletto dal parlamento, dai partiti, quindi è loro che protegge, è a loro che rende conto. Non ha capito che siamo nel 2012 e non nel 1956. Svegliati.
Ho saputo che è uscito un libro importante sull’annosa questione di Heidegger nazista e ho ascoltato alcune parole sui “filosofi credenti”, dovrò riparlarne con calma perché tutto ciò merita un post a parte.
Ho vinto la mia battaglia con la scuola e un altro datore di lavoro per avere degli arretrati. Dei soldi. Non ne sono sicuro, ma la settimana prossima dovrei avere importanti novità. Pensavano che io mollassi, che m’arrendessi come hanno fatto molto colleghi. Sticazzi, vi farò sputare fino all’ultimo euro. Sono paziente e determinato, io.
Devo tornare alla vita sociale. Ho il vizio di ritirarmi nel mio antro, di andare sottoterra, nelle caverne, nel Tartaro.
Son fatto così, altrimenti che diavolo sarei?

martedì 8 maggio 2012

Dio secondo la scienza Patafisica


Dio è inesteso per definizione, ma ci è permesso, per la chiarezza dell’enunciato, attribuirgli un qualsiasi numero di dimensioni più grande di zero benché non ne abbia alcuna, se queste dimensioni scompaiono nei due membri delle nostre identità.
Ci accontenteremo di due dimensioni affinché si possano agevolmente rappresentare figure di geometria piana su un foglio di carta.
Simbolicamente Dio è indicato da un triangolo, ma le tre Persone non devono essere considerate come vertici o lati. Sono le tre altezze di un altro triangolo equilatero, circoscritto al tradizionale.
Ipotesi conforme alle rivelazioni d’Anne-Catherine-Emmerich, che vide la croce (che noi consideriamo come simbolo del Verbo di Dio) a forma d’Y, il che essa spiega con la ragione fisica che nessun braccio di lunghezza umana avrebbe potuto essere teso fino ai chiodi dei rami di un Tau.

Dunque, POSTULATO:
Fino a più ampie informazioni e per nostra comodità provvisoria, supponiamo Dio in un piano e nella figura simbolica di tre rette uguali, di lunghezza a, originate da un medesimo punto e che formano angoli di 120 gradi tra di loro. È dello spazio tra esse compreso, o del triangolo ottenuto congiungendo i tre punti più lontani delle rette, che ci proponiamo di calcolare la superficie.
Sia x la mediana prolungamento di una delle Persone a, 2y il lato del triangolo al quale la mediana è perpendicolare, N e P i prolungamenti della retta (a + x) nelle due direzioni dell’infinito.
Abbiamo:
x = ~ - N – a – P.
Ora
N = ~ - 0
e
P = 0
Per cui:
x = ~ - (~ - 0) – a – 0 = ~ - ~ + 0 – a – 0
x = - a.
D’altra parte, il triangolo rettangolo i cui lati sono a, x e y ci dà
a^2 = x^2 + y^2.
Ne deriva, sostituendo a x il suo valore (- a)
a^2 = (-a)^2 + y^2 = a^2 + y^2
Per cui:
y^2 = a^2- a^2 = 0
e
y = √0.
Dunque la superficie del triangolo equilatero che ha per bisettrici dei suoi angoli le tre rette a sarà
S = y (x + a) = √0 (- a + a)
S = 0 √0.
COROLLARIO. – A prima vista, del radicale √0 noi possiamo affermare che la superficie calcolata è al massimo una linea; in secondo luogo, se costruiamo la figura secondo i valori ottenuti per x e y, constatiamo:
Che la retta 2y, che adesso sappiamo essere 2√0, ha il suo punto di intersezione su una delle retta a in senso opposto alla nostra prima ipotesi, poiché x = - a; e che la base del nostro triangolo coincide con il suo vertice;
Che le due rette a fanno con la prima angoli più piccoli per lo meno di 60°, e inoltre non possono incontrare 2√0 se non coincidendo con la prima retta a.
Il che è conforme al dogma dell’equivalenza delle tre Persone tra di loro e alla loro somma.
Possiamo dire che a è una retta che congiunge 0 a ~ e definire Dio:
DEFINIZIONE. – Dio è la distanza più breve da zero all’infinito.
In che senso? si chiederà.
- Risponderemo che il Suo nome non è Rinale, ma Più-e-Meno. E si deve dire:
± Dio è la distanza più breve da 0 a ~, in un senso o nell’altro.
Il che è conforme alla credenza nei due principi; ma è più esatto attribuire il segno + al principio della credenza del soggetto.
Ma Dio, essendo inesteso, non è una linea.
- Notiamo infatti che dall’identità
~ - 0 – a + a + 0 = ~
la lunghezza a è nulla, a non è una linea, ma un punto.
Perciò, definitivamente:
DIO È IL PUNTO TANGENTE DI ZERO E DELL’INFINITO.
La Patafisica è la scienza…

lunedì 7 maggio 2012

Elegie duinesi


La redazione delle dieci Duineser Elegien impegnò Rilke tra il 1912 e il 1922. Le parti più consistenti furono composte nei mesi di gennaio e febbraio 1912 a Duino nel castello della principessa Marie von Thurn und Taxis e nel febbraio 1922 nel castello di Muzot, in Svizzera.
Nell’arco dei dieci anni che intercorrono tra queste due fasi di straordinaria creatività, Rilke lavorò alle elegie in maniera discontinua e con un lungo periodo di inattività (tra il 1915 e il ’22). La qualifica di “elegie” non appartiene tanto al livello metrico e formale (raro è infatti l’accoppiamento di esametro e pentametro che caratterizza il distico elegiaco), quanto piuttosto al tono luttuoso e accorato che spesso connota i testi.
Nelle Elegie Duinesi, Rilke attinge a miti classici e a leggende bibliche (il mito di Lino alla fine della I elegia, Tobia e l’angelo nella II), si richiama all’antico Egitto (X), rinvia a temi, all’epoca nuovissimi, di psicologia del profondo (il vincolo ancestrale che lega il maschio al mondo dei padri nella III), affronta problemi di critica culturale (la critica al funzionalismo del moderno mondo tecnico nella VII e nella IX) e cita motivi pittorici (motivo ispiratore della V elegia è la grande tela Famiglia di saltimbanchi di Picasso che Rilke ammirò a lungo nella casa monacense dell’amica Herta Koning); il poeta elabora inoltre figure che diventano archetipi della condizione umana o modelli ideali da contrapporre alla misera sorte dell’uomo (le amanti infelici, i giovani morti, il saltimbanco, l’eroe), nonché autonome e originalissime costruzioni mentali (la città del dolore e il paese delle lamentazioni nell’ultima elegia), per intessere un poema sull’insufficienza del sentire umano di fronte ai grandi compiti dell’esistenza. Numerose sono le figure che Rilke propone in contrapposizione al destino degli uomini, incapaci di amare e di essere felici perché coscienti del tempo e consapevoli della fine: l’angelo che attraversa terribile e grandioso la I, la II, la IV e la VII elegia, l’animale (VIII) anch’esso mortale ma felicemente inconsapevole della propria fine, la marionetta (IV), il saltimbanco (V), l’eroe (VI) e il bambino (I, IV, VIII) che vive in uno stato di puro presente ed è quindi ancora libero dal pensiero della morte che assedia l’uomo adulto.
(Picasso, Famiglia di saltimbanchi, 1905)

Figura centrale delle elegie è l’angelo, essenza di pura luce, sottratta al peso e ai vincoli della materia:
Opera prima felice, beniamini voi del creato,
cime, crinali di monti all’aurora
dell’intera creazione – polline di fioritura divina,
articolazioni di luce, varchi, scale, troni,
spazi di essenza, scudi di delizia, tumulti
d'un sentire turbinoso, rapito, e ad uno ad uno, d'un tratto
specchi: che la bellezza effluita
riattingono in sé, nel volto ch’è proprio.
Se gli angeli, nella loro assolutezza e perfezione, non conoscono dissipazione e consumo, l’esistenza e il sentire umano sono invece connotati dallo svanire e dal dileguarsi:
Poiché noi sentendo svaniamo; ah, noi
esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore
in ardore dà sempre più tenue profumo. Uno dice:
sì, tu mi sei dentro nel sangue, questa stanza, la primavera
è ricolma di te… A che giova, non ci può trattenere,
in lui, attorno a lui dileguiamo.
Lo stacco temporale che separa le prime dalle ultime elegie si manifesta ei temi e nei contenuti: nel dopoguerra Rilke concentra infatti la sua riflessione sulla tecnica e sull’anonimità degli oggetti nel moderno mondo tecnologizzato; queste riflessioni traspaiono nelle elegie VII e IX (composte nel febbraio 1922). Ora lascio la parola a Rilke perché i pensieri del poeta sulla propria opera sono sempre i più interessanti.
“Assenso alla vita e alla morte risulta essere, nelle Elegie, una cosa sola. Consentire all’una e non all’altra è una limitazione che esclude ogni infinità. La morte è la faccia della vita che da noi si distoglie, da noi lasciata al buio; dobbiamo tentare di essere massimamente consapevoli della nostra esistenza, che è di casa nei due terreni non separati, inestinguibilmente nutrita da entrambi… La vera figura della vita attraversa i due campi, il sangue del circolo estremo li bagna entrambi: non esiste né aldiqua né aldilà, bensì la grande unità, in cui sono di casa gli esseri che ci sopravanzano, gli “angeli”. La caducità precipita dovunque in un essere profondo. E così tutte le figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali, ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni di cui partecipiamo. Ma non in senso cristiano (dal quale mi allontano con passione crescente); si tratta, invece, con coscienza terrena, profondamente, beatamente terrena, di introdurre ciò che qui vediamo e tocchiamo nell’orizzonte più ampio, estremo. Non in un aldilà la cui ombra oscura la terra, bensì in un tutto, nel tutto. La natura, le cose che tocchiamo e usiamo, sono transitorie e caduche; ma, fintanto che siamo qui, sono il nostro possesso e la nostra amicizia, sanno della nostra miseria e gioia, come già furono i confidenti dei nostri avi. Si tratta allora non solo di non diffamare e mortificare le cose terrene, ma, proprio a causa della caducità che dividono con noi, questi fenomeni e cose debbono essere da noi compresi e trasformati con il più intimo intendimento. Trasformati? Sì, perché è nostro compito imprimere in noi questa terra provvisoria e caduca con tanta profondità, sofferenza e passione, che il suo essere risorga “invisibile” in noi. Ora dall’America arrivano cose vuote e indifferenti, cose apparenti, imitazioni della vita… Le cose animate, le cose esperite, le cose che sanno di noi, si avviano al tramonto, e non possono essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che hanno conosciuto quelle cose. Su di noi grava la responsabilità di conservarne non solo la memoria (sarebbe poco e inaffidabile), ma il valore umano e laico. La terra non ha altra via di scampo che diventare invisibile; in noi, che partecipiamo dell’invisibile con una parte del nostro essere. Noi siamo, sia sottolineato una volta ancora, nel senso delle Elegie, siamo noi coloro che trasformano la terra; tutta la nostra esistenza, i voli e le cadute del nostro amore, tutto ci rende capaci di questo compito (accanto al quale, sostanzialmente, non ne esiste altro”.
Questa celebrazione della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, è riconfermata nel finale della X elegia: se i morti si risvegliassero e dovessero indicarci con un’immagine l’unità di vita e morte,
indicherebbero forse gli amenti delle spoglie
avellane, penduli, oppure
la pioggia, che sulla scura terra cade a primavera.
E noi che la felicità la pensiamo
in ascesa sentiremmo la commozione,
che quasi ci atterra sgomenti,
per una cosa felice che cade.
La felicità non è dunque movimento verso l’alto – ricerca di una trascendenza impossibile – ma caduta verso il basso: ritorno alla terra e umile adesione al ciclo imposto dalla natura.