venerdì 31 agosto 2012

Quando la filosofia nasce sfancula preti e fessi [cioè il 99% del genere umano]

Mi piace sempre leggere e ascoltare le parole che narrano la nascita della filosofia che infrange la supremazia del modo di pensare “mitico”. Scrivo questo breve appunto ringraziando eternamente Emanuele Severino.

Non so per quanto tempo, ma di sicuro per interi millenni l’esistenza dell’uomo è stata guidata dal mito. E qui corre l’obbligo di una prima precisazione terminologica: il mito, in questo caso, non è da intendere come invenzione fantastica, bensì come rivelazione del senso essenziale del mondo.
Nella lingua greca il significato originario della parola mythos è “parola”, “sentenza”, “annunzio”; a volte mythos significa persino “la cosa stessa”, “la realtà”. Solo più tardi la parola si avvicinerà al significato che gli diamo noi indicando con mito la “leggenda”, la “favola”, la “fola”.
Il mito arcaico è sempre collegato al sacrificio, cioè all’atto col quale l’uomo si conquista il favore degli dèi e delle forze supreme della natura che, secondo la rivelazione del mito, regnano nell’universo. Il sacrificio può essere cruento o incruento, ma in ogni caso il suo intento è di identificarsi e di dominare ciò che nel mito appare come la potenza suprema.
Ed ecco che accade una delle cose che più mi affascinano della storia dell’uomo.
I primi pensatori Greci escono dall’esistenza guidata dal mito e la guardano in faccia. Nel loro sguardo c’è qualcosa di assolutamente nuovo.
Appare l’idea di un sapere che sia innegabile; e sia innegabile non perché la società e gli individui abbiano fede in esso, o vivano senza dubitare di esso, ma perché esso stesso è capace di respingere ogni suo avversario.
Sboccia l’idea di un sapere che non può essere negato né da uomini, né da dèi, né da mutamenti dei tempi e dei costumi. L’idea di un sapere assoluto, definitivo, incontrovertibile, necessario, indubitabile.
I primi pensatori hanno chiamato questo sapere con antiche parole della lingua greca – le quali hanno quindi assunto da quel momento un significato inaudito. Queste parole sono: sophìa, lògos, alétheia, epistéme. Lasciate perdere le traduzioni di queste parola in italiano, sono stronzate. Risalite alla parola stessa e ascoltate il suono greco; è meglio.
Quanto alla parola philosophìa essa significa, alla lettera (philo-sophìa), “aver cura del sapere”. In sophòs, “sapiente”, risuona, come nell’aggettivo saphés (“chiaro”, “manifesto”, “evidente”, “vero”), il senso di phaòs, la “luce”, allora “filosofia” significa aver cura per ciò che, stando nella “luce” (al di fuori cioè dell’oscurità in cui stanno invece le cose nascoste – alétheia, “verità”, significa appunto, alla lettera “il non essere nascosto”) non può essere in alcun modo negato. “Filosofia” significa “l’aver cura della verità”, dunque – dando anche a quest’ultimo termine il significato inaudito dell’”assolutamente innegabile”.
I Greci evocano per primi il significato inaudito della verità.
Ovviamente i Greci non si accontentano di contemplare questa idea di verità senza preoccuparsi di stabilire quale sia la verità – quali tratti abbia il suo volto. Per poter affermare quali sono i tratti della verità è necessario che innanzitutto stia dinnanzi agli occhi il senso indicato dalla parola “verità”; e i Greci per primi hanno guardato questo senso e si sono messi in cammino per stabilire che cosa può essere detto verità.
Ma già all’inizio di questo cammino la filosofia vede che il mito non è verità innegabile, ma è soltanto una leggenda in cui si crede. Poiché, d’altra parte, la fede nel mito è la regola secondo la quale sono vissute tutte le civiltà precedenti (e la società stessa in cui la filosofia nasce), la critica filosofica del mito diventa inevitabilmente una critica della società.
E così abbiamo anche i primi due caratteri fondamentali della filosofia: essa nasce GRANDE e CRITICA.

giovedì 30 agosto 2012

Le stelle inquiete

L’umiltà è la radice dell’amore.
Vorrei segnalare, prima di dimenticarmene, un prodotto editoriale molto simpatico.
In realtà questa segnalazione è dedicata agli amanti della filosofa francese Simone Weil.
Si tratta di un taccuino con la copertina rigida (con un elastico blu per chiuderlo), che contiene in fondo ad ogni paginetta un pensiero della Weil.
Lo comprai alla Feltrinelli di Milano e mi fece compagnia durante il viaggio in treno. È come se fosse un quaderno arricchito. Non solo ci potete scrivere quel che vi pare, ma potete godere di 96 bei pensieri filosofici.
Io li ho contati uno per uno e sono 96. Perché non siano arrivati a 100 già so che rimarrà un mistero che mi perseguiterà fino alla morte.
Io amo leggere bei pensieri. Mi piace trattenerli nella mia mente, pensarli e ripensarli. A volte mi viene il dubbio che sia una specie di malattia.
I pensieri sono molto vari: spaziano dalla verità al tempo, dalla vita al bene, dall’anima al lavoro, dall’umiltà alla miseria, ecc. ovviamente sono pensieri estratti dalle opere filosofiche della Weil, non pensieri da Baci Perugina. Ci sono anche molti pensieri dedicati a Dio, a Gesù e a parole quali “grazia” “soprannaturale” e altre. Questi li lascio alla sensibilità di ognuno; comunque io li ho trovati molto onesti e coinvolgenti perché espressi con grande emotività.
Ora posto qualche pensiero per la mia e la vostra gioia:
Amare la verità significa sopportare il vuoto, e di conseguenza accettare la morte. Non è possibile amare la verità con tutta l’anima senza strappo.

Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L’umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità.

La collettività è più forte dell’individuo in tutto, tranne che per un aspetto: il pensiero.

Il lavoro è per noi l’unica via che porta dal sogno alla realtà.

L’amicizia non è divisibile dalla realtà, proprio come la bellezza. È un prodigio, come la bellezza. E il prodigio sta semplicemente nel fatto che esiste.

Solo con le persone che amiamo sperimentiamo l’esistenza nella sua pienezza e completezza.

L’amicizia non deve alleviare il dolore della solitudine, ma raddoppiare le gioie.

Non si cerca l’amicizia, non la si sogna né ce la si augura: la si vive…

L’attenzione è la forma più rara e più pura di magnanimità. A poche anime è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono.

L’uomo non ha alcuna potenza, e tuttavia ha una responsabilità.

L’amore non è consolazione, è luce.
Insomma, se cercate un taccuino un po’ speciale dove scrivere le vostre riflessioni più profonde, questo volumetto fa per voi. In più avrete Simone Weil a farvi compagnia...e non è poco.

mercoledì 29 agosto 2012

Dai, ti confesso alcune cose


Oggi avevo deciso di non frustare a sangue le mie piccole donne e di lasciare Meg, Jo, Beth ed Amy March scorazzare liberamente nel giardino tra alberi, ghirlande di fiori e ditalini dietro la siepe.
Volevo insomma cogliere un momento in queste sporche 24 ore per farti una confessione, dirti qualcosa che non ti ho mai detto. Ringraziarti.
Perché non te l’ho detto a voce? Perché è mancato sia il tempo che l’occasione e anche se ci fosse stato il tempo ed avessi avuto l’occasione non te l’avrei detto lo stesso. Perché? Perché è un discorso che mi riesce difficile e volendoti dire grazie magari mi usciva brutta troia. In realtà non te l’ho detto a voce perché forse non ti avrebbe interessato quel che avevo da dirti o, peggio ancora, ti saresti inorgoglita. Non sia mai.
Volevo dirti grazie per alcune cose che mi hai insegnato.
Innanzitutto mi hai insegnato che una cosa bella della vita è perdere la testa per qualcuno. Senza essere troppo timidi, orsi, stupidi, calcolatori o paurosi. Senza fare troppi calcoli, perdi la testa per una donna! È sempre bello. Come va, va. Quanto dura, dura. Fosse pure perdere la testa per una storia che duri una settimana. Buttatevi. Non farlo sarebbe sciocco e alzerebbe l’asticella del rimpianto al massimo.
Poi mi hai insegnato a essere più attento alle variazioni di umore, anche le più piccole. I segnali, le micro mutazioni facciali. Le piccole increspature, insomma. Stare attento, guardare col cervello non semplicemente un vedere oculare distratto.
Mi hai insegnato anche la misura del gesto. Non bisogna essere precipitosi, farsi prendere dall’ansia. È un esercizio difficile, ma bisogna evitare l’orribile goffaggine.
Capitolo corpo femminile. Qui è dove mi hai ammaestrato di più. Non si finisce mai di imparare sul corpo femminile, come prendersene cura, come accarezzarlo, come “curarlo”. Con te mi sembra di aver fatto dei passi in avanti importanti, un’esperienza che mi servirà di sicuro in futuro. Anche qui bisogna essere più calmi, assaporare ogni momento, assecondare i movimenti, capire le reazioni, ecc. è difficile, ma estremamente gratificante.
Mi hai insegnato ad essere un po’ più esigente. Nei rapporti con le donne bisogna mettere qualche paletto. Non puoi essere troppo free e liberale. È inutile. Se accetti tutto, se non discrimini almeno un minimo ti ritroverai a braccetto con una inadeguata, con uno sbaglio col rimmel. Qualche pretesa la devi avere, a meno che tu non ti ritenga un disperato. Io un disperato non sono e quindi ho deciso di essere molto più selettivo. E questa è una lezione che ho appreso da te.
Infine mi hai insegnato che i rapporti a due devono essere presi con molta più leggerezza di quello che pensavo. Non bisogna essere pesanti, “stringere” troppo. Prenderla molto dal punto di vista ludico. Ho detto molto e non tutto, attenzione.
Siate light, fischiate un motivetto simpatico, saltate sotto la pioggia e trallallallà.

martedì 28 agosto 2012

Il ragionamento nettaspeculativo di Gargantua sulla maniera ottimale di pulirsi il culo


Alla tenera età di cinque anni, Gargantua strabiliò suo padre Grangola perché, dopo lunghe ricerche e faticosi esperimenti, era riuscito a trovare la maniera migliore per nettarsi il culo.
Ovviamente, il padre orgoglioso di quel figlio così intelligente gli chiese maggiori delucidazione su quella scoperta.
E Gargantua, senza farselo dire due volte, così raccontò:
“Provai a pulirmi una volta con la mascherina di velluto di una damigella, e trovai che andava bene, perché la soavità della seta mi procurava davvero un gran piacere al fondamento;
un’altra volta, con un cappuccio della medesima, e col medesimo risultato;
un’altra volta, con una sciarpa da collo;
un’altra volta, con una cuffietta di raso cremisi; ma la doratura di tutte quella sferette di merda che c’erano su mi scorticarono tutto il didetro: che il fuoco di Sant’Antonio arda il budello culare dell’orefice che le ha fatte e della damigella che le portò!
Guarii quel male, pulendomi con il berretto di un paggio, con su un bel piumetto della Svizzera.
Quindi, cacando dietro una siepe, e trovandoci un gatto marzolino, provai a pulirmi con lui, ma le sue grinfie mi ulcerarono tutto il perineo.
Della qual cosa guarii l’indomani, nettandomi coi guanti di mia mamma, ben profumati di ficarella.
Poi mi pulii con la salvia, il finocchio, l’aneto, la maggiorana, le rose, le foglie di zucca, di bietola, di cavolo, di vite, di malva, di verbena (che è come il rossetto del culo), di lattuga, e con foglie di spinaci – tutte cose che mi fecero un gran bene ai calli! – e poi con l’erba macorella, la persichella, le ortiche e la consolida; ma me ne venne il cacasangue dei Lombardi, da cui fui guarito nettandomi con la braghetta.
Quindi mi pulii con le lenzuola, con la coperta del letto, con le tendine, con un cuscino, con uno scendiletto, con un tappeto da tavola, una tovaglia, una salvietta, un moccichino, un accappatoio. E sempre vi trovai maggior piacere che non un rognoso quando gli grattan la schiena”.
“Bene – disse Grangola; - ma qual è il nettaculo che ti sembrò migliore?”
“Stavo per arrivarci, - rispose Gargantua, - e presto ne saprete il tu autem. Mi pulii col fieno, con la paglia, la stoppa, la borra, la lana, e la carta. Ma
sempre lascia ai coglion qualche cosa
chi con la carta il seder si cosa.
“Come! – disse Grangola, - coglioncino mio, hai già imparato a baciar la bottiglia, che sai fare le rime baciate?”
“E come no? mio re, - rispose Gargantua. – Rimo così e anche meglio; e adopero le rime come le rame. Sentite questa prosopopea del cesso ai cacatori:
Cacone,
Puzzone,
Pettone,
Merdoso,
La pappa,
Che ti scappa,
Si spappa,
Su me,
Cacone,
Stronzone,
Merdone,
Che ti venga una brutta malattia,
Se i tuoi
Sporchi
Buchi
Non ti pulisci prima di andar via!
Ne volete ancora?”
“Sì perbacco! – rispose Grangola”.
“Allora, - disse Gargantua:
RONDÒ
Cacando l’altro giorno ebbi a sentire
Quella gabella che al mio cul dovevo:
Ma l’odore non fu quel che credevo,
Ché dal puzzo credetti di morire.
Oh! se qualcun m’avesse in tal martire
Portata quella che sempre attendevo,
Cacando!
Io certo avrei saputo a lei coprire
Il suo buco davanti, come devo.
E lei col suo ditino, in gran sollievo,
Il mio buco di dietro garantire,
Cacando.
E adesso andate a dire che non so nulla! Per la Merdonna! Ma non li ho fatti mica io: li ho sentiti recitare qui dalla signora direttrice, e li ho conservati nel saccoccino della memoria”.
“Sì, - disse Grangola, - ma ora torniamo alla faccenda”.
“Quale? – disse Gargantua, - cacare?”
“No, - disse Grangola, - pulirsi il culo”.
“Bene, - rispose Gargantua, - ma paghereste una mezza brenta di vin di Brettagna, se io vi mettessi con le spalle al muro sull’argomento?”
“Sì, e volentieri, - rispose Grangola”.
Non ci sarà mai bisogno, - riprese Gargantua, - di nettarsi il culo, a meno che quello sia sporco; e sporco non può essere se uno non ha cacato: ergo se ne deduce, che sempre bisognerà cacare prima di nettarsi il sedere”.
“Oh! – esclamò Grangola, - come sei fino, ragazzo mio! Uno di questi giorni ti farò laureare in Sorbona, perdio, perché hai proprio più cervello che anni. Ma continua un po’ questo discorso nettaspeculativo, ti prego, per la mia barba; e invece di mezza brenta te ne darò sessanta barili, dico di quel buon vin di Brettagna, che poi non si fa per nulla in Brettagna ma qui nel nostro bel paese di Verron”.
“Provai a nettarmi in seguito, - riprese Gargantua, - con un copricapo, con un passamontagna, con una pantofola, con un carniere, con un paniere, ma quello era proprio un gran brutto nettaculo! Poi con un cappello di panno; e notate che di questi cappelli certi son di panno rasato, altri di feltro, altri uso velluto, altri uso seta, ed altri satinati; ma il migliore fra tutti è sempre quello di feltro, perché fa ottima abstersione della materia fecale.
Poi mi nettai con una gallina, un gallo, un pollastro; con la pelle di un vitello, d’una lepre, d’un piccione, d’un cormorano; con la servietta di un avvocato, con una barbuta, con una cuffia, con un cappuccio da falchi.
Ma, in conclusione, affermo e sostengo, che non v’è miglior nettaculo d’un papero ben piumato: purché si abbia l’avvertenza di tenergli la testa in mezzo alle zampe. E potete credermi sulla parola. Perché sentirete al buco del culo una mirifica voluttà: sia per la soavità di quel suo piumetto, che per il temperato calor naturale del papero, il quale facilmente si comunica al budello culare, e quindi agli altri intestini, risalendo così fino alla regione del cuore e del cervello. E vorrei credeste che la beatitudine degli eroi e semidei, che stanno nei Campi Elisi non è già nel loro asfodelo, o nell’ambrosia o nel néttare, come raccontano queste vecchiette; ma bensì, secondo il parer mio, nel fatto che si nettano sempre il culo con un papero, e tale è altresì l’opinione del nostro maestro Duns Scoto”.

lunedì 27 agosto 2012

aaaaaaaaaah...fuckin' great


Alla gente servono Connettori
Scrittori, eroi, divi,
guide
Per configurare la vita.
Il vascello di sabbia di un bambino di fronte
al sole.
Soldatini di plastica in una guerra di trincea
in miniatura. Fortini.
Astronavi giocattolo

Cerimonie, teatro, danze
Per ribadire Bisogni tribali & memorie
una chiamata al rito, in comunione
superiore, un rovesciamento,
un anelito alla famiglia & alla
magica sicurezza dell’infanzia.


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domenica 26 agosto 2012

Il dubbio di Matteo


Non so perché al mio conoscente Matteo gli sia venuto in mente di farmi questa domanda, ma l’ha posta in una maniera così simpatica che ne abbiamo riso insieme.
A un certo punto mi chiede: “Oh, ma tu fai qualcosa ogni tanto? Eh eh eh”
Devo avergli dato l’impressione del fancazzista disimpegnato nullafacente, forse.
In realtà io faccio poche cose, alcune cose. Non sono come quei tipi che amano presentarsi come power man e dicono “io faccio un sacco di cose, vedo tantissima gente, un mucchio di posti, ecc.”
Questi peni, io sono molto più minimale. E onesto.
Per esempio cammino. Anche quello è un fare; non si dice faccio una passeggiata?
Poi leggo i libri, e anche quello è un fare; no? Che fai? Leggo un libro.
Poi penso, mi metto tranquillo sdraiato o seduto e penso. Non è un fare anche pensare? (certo un fare un po' strano, lo ammetto)
Poi scrivo degli appunti su carta e dei post su facebook e sul blog, ascolto musica. Insomma faccio queste cose, principalmente.
Però secondo me Matteo intendeva un altro verbo. Forse con “fare” intendeva “produrre”.
Bè, diamo un’occhiata al termine, definiamolo.
Produrre, ant. producere, v.tr. 1. far nascere, far germogliare, fruttare 2. (estens.) fornire le condizioni ambientali adatte alla nascita e allo sviluppo di animali o vegetali 3. fabbricare, fare 4. elaborare, secernere 5. dare luogo a un’opera dell’ingegno, a una creazione intellettuale 6. causare, provocare 7. nel linguaggio giuridico, presentare, addurre, allegare 8. (lett.) protrarre, prolungare.
Minchia, di questi 8 significati non ne produco neanche uno. Mi piace il numero 5, ma figuriamoci se col cervello che mi ritrovo e il caldo che fa io possa mai mettermi a produrre opere d’ingegno.
Alla fine l'unica cosa che invidio del fare è quando sento la gente dire "faccio sesso", "faccio l'amore". Anche se invidio più la seconda che la prima perché fare sesso è bello, ma fare l'amore è coinvolgente al 100%. Cioè col sesso godi solo con la parte di sotto, con l'amore godi con la parte di sopra e con quella di sotto.
Caro Matteo, hai ragione. Io non faccio niente, né produco alcunché.
L’unica cosa che produco è tanta materia fecale.

A proposito…a dopo.

sabato 25 agosto 2012

No, non mi arrendo (non voglio)


Il viaggio in Grecia è finito, la vacanza è terminata.
Si torna a casa e ciao ciao relax divertimento e bim bum bam pass chella cann.
Eppure, non mi va.
Secondo me dopo la villeggiatura principale bisogna fare una villeggiatura supplementare.
A second enjoyment.
Ovviamente uno fa la vacanza e poi torna a casa, alla vita di sempre.
Ma è così ordinario tutto ciò!
Non è meglio fare una vacanza, tornare a casa e poi ripartire subito?
Come la domenica e il lunedì, una scemenza assurda. Dopo la domenica ci vorrebbe un altro giorno festivo e POI, ma solo POI il lunedì.
Non ho ancora deciso dove, ma la settimana prossima riparto, lunedì o martedì...il tempo di guarire della brutta spellatura al piede sinistro.
E' bello partire, ma ancor più bello è RIpartire!!!

je so' pazz'

mercoledì 15 agosto 2012

A Zacinto

Dopo una settimana a Delfi, eccomi a Zacinto, l´isola che diede i natali al grande Ugo Foscolo.
Il camping in cui mi sono sistemato e´ carino e nonostante sia il mio primo campeggio in assoluto non me la sto cavando male e la tenda l´ho montata facilmente
(tedesco fammi una pippa).
Non ho ancora deciso la data del rientro, fosse per me non tornerei mai. Qui ho tutto.
Mare sole cibo squisito ottimo vino...che cazz mi manca? Comunque il dovere mi chiama e visto che a settembre ho la seconda prova scritta di questo TFA che si sta dimostrando una buffonata, non posso tornare troppo tardi.
Va bene, concludo questa breve "cartolina" con la celebre poesia foscoliana.
A presto.

A Zacinto

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

giovedì 2 agosto 2012

Che bello, torno a casa!


E finalmente torno a casa, torno alla madre patria.
Sabato mattina prendo il bus da Napoli per Brindisi e poi la sera m’imbarco alla volta di Patrasso.
Non vedo l’ora di toccare il caro suolo greco!
Di sicuro dal 5 sera al 12 mattina sarò a Delfi.
Delfi è il “cuore” di noi greci. I miei antenati sono lì. Visiterò il tempio dell’oracolo e poi spero di riuscire a fare qualche escursione nell’interno. Il mio desiderio sarebbe quello di poter andare sul Parnaso, la montagna delle Muse, ma non so se sarà possibile. Dopotutto è la prima volta che faccio ritorno in Grecia, eh.
Dal 12 in poi il viaggio è completamente affidato al caso. Vorrei trovare un’isoletta tranquilla.
Sole e mare, stop. Niente discoteche locali alla moda ressa turisti del cazzo, ecc.
Vorrei solo amoreggiare con la natura greca e basta.
Non ho manco prenotato il ritorno perché non so quando torno. Spero il più tardi possibile, ovviamente.
Porterò con me la tenda e sarà per me l’esordio come campeggiatore.
Arrivo, terra mia, aspettami.

Ciao a tutti, ci vediamo tra qualche settimana.

mercoledì 1 agosto 2012

Perché amo tanto Paul Gauguin


Paul Gauguin nasce a Parigi nel 1848 (anno rivoluzionario).
Dopo gli studi, si imbarca nel 1865 su una nave da carico e da marinaio completa il suo servizio militare nel 1871. Tornato a Parigi, riesce ad impiegarsi come agente di cambio. Ha fortuna negli affari; sposa una donna danese e ha dei figli. Nel frattempo coltiva la pittura come un hobby, conciliandola con la sua vita borghese. Nel 1876 una sua opera è accettata al Salon e dal 1880 espone regolarmente con il gruppo degli Impressionisti.
Fin qui abbiam fatto un po’ di storia dell’arte dell’Ottocento, ma giustamente potrebbe non fregare un cazzo a nessuno. È venuto il momento di dire perché Gauguin mi fa godere e perché lo amo così tanto.
Nel 1883 Gauguin capisce che deve scegliere fra il suo lavoro e la pittura. Non ha esitazioni: abbandona l’impiego, lascia la famiglia e, per amore della pittura, si rassegna ad una vita economicamente molto disagiata.
Ah…questo sì che è un vero uomo, un artista…sto a gode’ come un majjale…
Andiamo avanti.
Fra il 1885 e 1887 si sposta spesso fra Parigi e la Bretagna. Si avverte nella produzione di questi anni il debito contratto nei confronti degli Impressionisti, nell’uso dei colori esaltati nella loro luminosità, ma si coglie anche un graduale abbandono della pennellata divisa e l’adozione di criteri compositivi influenzati dalla moda giapponese.
Nel 1887 fa il suo primo viaggio a Panama e poi alla Martinica, alla ricerca di un mondo primitivo “innocente”. Dopo pochi mesi torna a Parigi dove conosce Van Gogh.
Nel 1888 si stabilisce a Pont-Aven, un piccolo centro della Bretagna che, con la sua dimensione rurale, i suoi paesaggi incontaminati e le residue testimonianze di una religiosità medievale espressa in sculture di un Romanico molto “primitivo”, al momento sembra soddisfare la sua esigenza di fuga dalla realtà. Qui comincia a sperimentare anche la ceramica e la scultura e dà vita ad un piccolo gruppo di artisti impegnati in una nuova ricerca sul colore, che i critici definiranno “sintetista”.
I risultati della ricerca sintetista si rivelano e fanno scandalo a Parigi nella mostra al Caffè Volpini del 1889 in cui espongono anche gli Impressionisti. Con quella mostra la lezione di Gauguin comincia a diffondersi.
Nel 1891 Gauguin parte per Tahiti. Impiega un anno per ambientarsi ed entrare in sintonia con gli indigeni Maori. Si dibatte fra mille difficoltà economiche e nel 1893 decide di tornare in Francia, convinto di avere successo con una mostra dei suoi ultimi lavori di ambientazione tahitiana che giudica nuovissima per Parigi. La mostra, invece, sarà un fiasco, ma in compenso riceve un’eredità da uno zio che gli consentirà di ritornare a Tahiti.
(Manao Tupapao, 1892)

Dal 1891 inizia a scrivere Noa-Noa, con il contributo del critico d’arte suo amico, Charles Morice.
La produzione tahitiana prosegue quella bretone dal punto di vista del linguaggio pittorico adoperato, ma muta profondamente nell’iconografia. Gli appunti che presi a lezione dicono che Nelle sue ambientazioni colpisce la natura lussureggiante, ma raffigurata con colori e forme pressoché fantastiche. Gli indigeni che popolano i suoi dipinti da un lato interpretano le credenze, i riti, le paure superstiziose della loro cultura, dall’altro si fanno carico di riferimenti simbolici a contenuto religiosi o a parametri culturali attinti dal mondo occidentale, secondo una curiosa visione sincretistica che rivela le oscillazioni di Gauguin fra “fughe” evasive e “ritorni” dolorosamente nostalgici.
(Te Tamari no atua, 1896)

La cultura indigena è la protagonista di un dipinto complesso come Manao Tupapao (Lo spirito dei morti veglia), mentre Te Tamari no atua (Nascita di Cristo figlio di Dio) ambienta la natività cristiana nei luoghi esotici di Tahiti. Allo stesso modo un altro dipinto importante e ambizioso di questi anni, tutto impregnato di cultura simbolista, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? proietta sul mondo primitivo degli indigeni le ansie esistenziali di Gauguin, tormentato dalle grandi domande della filosofia occidentale. Quest’ultimo costituisce una sorta di testamento pittorico di Gauguin, che alla fine del 1897, giunto allo stremo delle forze, privo di mezzi, tenta il suicidio. Riuscirà a sopravvivere e a trascinare la sua esistenza fino al 1903.
(Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, 1897)