Mia sorella mi ha regalato una piccola libreria Ikea. Ne avevo proprio bisogno perché alcuni libri non entravano più davvero nelle librerie che già possedevo e caos e confusione regnavano sovrani.
Mettendo a posto e spolverando mi sono imbattuto in un volumetto di Montesquieu intitolato Pensieri.
Adoro questo tipo di libriccini, agili snelli ma dal contenuto poderoso. Poter ritrarsi per un’oretta dalle miserie dalle meschinità dalla violenza e dalla banalità quotidiane per poter assaporare e godersi i pensieri di una grande mente del passato è uno dei miei piaceri preferiti.
Non siamo di fronte alla lettura impegnativa e faticosa dello Spirito delle leggi, ma possiamo rilassarci e ascoltare Montesquieu, sentire quello che pensa su vari argomenti: Amore, Amicizia, Amor proprio, Religione, Filosofia ed altri ancora.
Proprio sull’amor proprio ho letto delle cose molto interessanti, ma stasera ho deciso di condividere due pensieri su Hobbes. Soprattutto il secondo, almeno secondo me, dovrebbe essere scolpito nella mente di tutti gli uomini e di tutte le donne.
Un’ultima cosa. Non fate i fanelli, per favore. Dopo aver letto questi due pensieri su Hobbes non andate sul web a scrivere porcherie sul filosofo del Leviatano. Si chiamano pensieri proprio perché rappresentano attimi di riflessione che Montesquieu DOPO AVER LETTO Hobbes mette su carta; pensieri che vanno sì meditati ma soprattutto approfonditi. Limitiamoci a questo: leggiamoli, ruminiamoli, godiamoceli. Ma se poi vorremo parlare di Hobbes non c’è via di scampo: dovremo LEGGERE Hobbes per conto nostro e trarre da noi stessi pensieri e riflessioni su Hobbes. Fate come Montesquieu, insomma, non andate fuori giri come un fanelli qualunque.
È un principio completamente falso quello di Hobbes secondo cui, avendo il popolo conferito l’autorità al principe, le azioni di quest’ultimo sono le azioni del popolo, e di conseguenza il popolo non può lagnarsi del principe, né chiedergli conto in alcun modo delle sue azioni, perché il popolo non può lagnarsi di se stesso. Così, Hobbes ha trascurato il suo principio di diritto naturale, secondo il quale Pacta esse servanda*. Il popolo ha autorizzato il principe sotto condizione, l’ha nominato sulla base di una convenzione. Il principe deve tenervi fede, e rappresenta il popolo solo come il popolo ha voluto (o si presume aver voluto) che lo rappresentasse. Per di più, è falso che chi viene delegato abbia lo stesso potere di chi delega, e non dipenda più da questi.
Hobbes dice che, essendo il diritto naturale null'altro che la libertà di fare quanto serve alla nostra conservazione, la condizione naturale dell'uomo è la guerra di tutti contro tutti. Ma, oltre a esser falso che la difesa implichi inevitabilmente la necessità dell'attacco, non bisogna supporre, come fa lui, gli uomini caduti dal cielo, o usciti dalla terra armati di tutto punto, quasi come i soldati di Cadmo, per distruggersi a vicenda: non è questa la condizione degli uomini.
*Pacta sunt servanda ovvero i patti vanno rispettati.
È questa una norma famosa, che forse deriva da Ulpiano, il quale all’inizio del capitolo intitolato De pactis (Digesto, 2, 14) si chiede: Quid enim tam congruum fidei humanae quam ea, quae inter eos placuerunt, servare? “che cosa v’è di più consono alla umana lealtà del rispettare i patti stabiliti consenzientemente?”. Il concetto ritorna ancora nel medesimo capitolo (2, 14, 7, 7); ora esso tecnicamente riguarda il diritto internazionale, del quale anzi costituisce un fondamento, in quanto – assicurando l’obbligatorietà dei trattati – assume l’accordo a fonte di norma giuridica internazionale. In questo senso, si è discusso sulla sua natura e origine: per la scuola neogiusnaturalista si tratta in primo luogo di un principio etico, per altri, proprio perché sta alla base dell’ordinamento giuridico, è un postulato del quale, ovviamente, non si possono dimostrare l’obbligatorietà e la giuridicità; altri partono dalla definizione della consuetudine come tacito patto e ne fanno la base anche del diritto “consuetudinario”; per altri ancora si tratta infine di una regola consuetudinaria su cui si basa il diritto convenzionale. Il principio è poi a volte invocato nel linguaggio comune sia come richiamo alla lealtà sia come giustificazione per spartizioni di tipo “mafioso” (si dimentica cioè spesso l’altra norma del diritto romano, secondo cui un contratto o un patto non è valido se va contro leggi, costituzioni e buoni costumi [Digesto, 6, 2, 3; 27, 4]).
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