Filosofia, Letteratura, Poesia, Storia, Arte, Capitalismo, Politica, Sesso... [Blog delle ossessioni, non delle idee. Le idee non mi piacciono perché con le idee non è mai sprofondato nessuno]
sabato 11 febbraio 2012
Il suicidio di Enrichetta Mann
Ho dovuto scrivere e riscrivere più volte la recensione de La montagna incantata perché non riuscivo a uscire da un’impasse che mi portava, inevitabilmente, a ficcarmi in una disputa che considero impropria al romanzo di Mann.
Sono convinta che un’opera come La montagna incantata non possa essere discussa scavalcando il testo, cercando “corrispondenze d’amorosi sensi” in un sottotesto immaginario estrapolando delle sequenze-brani e frasi che più si conferiscono al nostro sentire; nel bene e nel male. Usando una procedura così impropria, saremmo spinti a liquidare Mann come un letterato cinico e mistificatore; ergo bisogna percorrere ben altri sentieri ermeneutici.
Ho escluso innanzitutto le due strade più ovvie e battute e cioè ho vietato a me stessa di considerare Mann come l’artista, lo scrittore dialettico speculativo dell’animo umano, l’aedo della sua infelicità, della sua tendenza (astorica, potremmo dire) a ricercare l’assoluto e, altresì, credo fermamente che Mann non possa essere considerato un funambolo delle parole e nulla più.
Ho cercato di instaurare, col narratore esterno, un feeling che mi permettesse di dominare lo “stridio” (che è l’anima della dodecafonia); stridio che è prodotto dal doppio basso continuo narrativo, cioè dal tono con cui le vicende sono narrate e le cose narrate stesse.
Un prendere in giro il lettore, un farsi gioco delle figurine dal corpo fatiscente del lussuoso sanatorio, figurine schierate a scopo pedagogico/edificante, senza pietà e con un lirismo irridente. E non solo.
Quello stridio, di cui parlavo prima, mi ricordava quello del bisturi e del seghetto dell’anatomopatologo che seziona un cadavere per scoprirne le cause della morte. E quel cadavere non è quello dell’umanità dolente da che esiste il mondo. Quel cadavere è fresco (o caldo). È appena deceduto nel fatidico anno 1918.
Con uno sguardo alla cronologia, infatti, mi sono accorta che tra l’inizio della stesura del romanzo nel 1912 - in cui si cominciavano a scorgere di “che lacrime e sangue“ era fatta la Bella Époque - e la sua pubblicazione nel 1924, crolla un mondo e soprattutto il mondo borghese tedesco, il mondo di Mann. Lo scoppio della prima guerra mondiale comporta per la borghesia tedesca, e per Mann, la necessità di difendere quell’intimismo dell’artista che rappresentava una garanzia di precaria e problematica autonomia del potere.
Di là dalla mia semplificazione, mi sembra che la poetica dispiegata ne La montagna incantata sia tutta in questa presa di posizione. La narrazione, che prende spunto da un fatto autobiografico e che nasce come scherzo, diventa, in quel lasso di tempo, una metafora del disfacimento della grande borghesia tedesca. Il cadavere che lui seziona è quello della sua amata e perduta borghesia tedesca nel cui alveo Mann vuole con tutte le forze rimanere, pur con l’acuta consapevolezza della crisi mortale che essa sta attraversando.
Il tema della Montagna Incantata, quindi, non è la decadenza dell’uomo, la ricerca del vero, del bello o del giusto, in cui incondizionatamente potremmo riconoscerci. Il tema vero è la decadenza della borghesia tedesca, che è “unica” e “migliore” rispetto, non solo alle altre classi, ma a tutte le borghesie.
Seguendo Lukàcs potremmo dire che Mann ha cercato il “borghese” tutta la vita tentando di contrapporre la civiltà borghese tedesca, fedele ai valori universalistici (ambigui e pericolanti) che hanno accompagnato la sua ascesa, alla borghesia reale, degradata ed umiliata, della fase imperialistica tedesca, quella che lui ravvisa nel Sanatorio di Dorf. In questo senso, la figura di Joachim, quella solo appena lambita dall’ironia di Mann, rappresenta il prototipo del valore del “dovere” proprio della borghesia tedesca sana, cui l’autore si aggrappa. L’ironia, infatti, ci mette in guardia che non si tratta di un “idillio” romantico, di lotta tra il bene e il male che il finale risolverà, come nella letteratura dell’ottocento.
L’uso dell’ironia al limite della parodia (il pantalone a scacchi liso di Settembrini, magari ravvisabile nei Karamazov ma anche nei personaggi delle comiche finali, della cui visione Mann non si è privato), ci dà conto anche, e soprattutto, della contraddittorietà e ambiguità dei personaggi, che è poi quella di Mann. L’uso dell’ironia rende la difesa dei vecchi valori senza speranza, ma l’unica strada percorribile. La ricerca della democrazia del borghese tedesco Castorp, la sua maturazione, non può essere guidata né dal vecchio illuministico umanesimo (impersonato da Settembrini, un italiano con le sue “italianate”), né dal romantico reazionario Naphta.
Infatti, con l’arma dell’ironia demolisce l’assunto pedagogico di cui è destinatario Castorp, il borghese tedesco: l’educazione alla democrazia, alla rinuncia alla tentazione ad abbandonarsi ai richiami dell’inconscio e a non sprofondare nella lugubre magia della notte feudale. Già dalle prime righe il sentimento nichilistico dell’esistenza si manifesta chiaramente: il tedesco, com’è lui stesso, non è disposto ad abbandonare la sua anima borghese e gli insegnamenti (del resto nemmeno convinti di Settembrini) saranno del tutto dimenticati nel momento in cui ritornerà laggiù, dove si spegnerà la fiammella di una speranza sempre più ironica verso se stessa, in nome del senso del dovere ritrovato.
Come traduce nella forma, la sostanza della sua ideologia del suo stare e vivere nel mondo? L’aspetto formale delle opere di Mann è basato in un gioco stilistico smaliziatissimo. Mann usa l’ironia perché non condanna nessuno e non assolve nessuno dei suoi personaggi; il suo stile che sembra così lontano da Joyce o da Musil, in effetti, ne muta l’ambiguità, per cui non si sa mai bene fino a che punto s’identifichi con Castorp o con Settembrini o con Naphta, fino a che punto ami il suo personaggio e dove cominci ad odiarlo; dove lo ammiri o dove lo respinga da sé. In questo è assolutamente decadente e distaccato, e fa parte, a ragione, di quella corrente di grandi narratori del Novecento che devono la loro grandezza alla consapevolezza della fine del romanzo moderno e dei suoi principi di contrapposizione di bene e male. In effetti, Mann è assolutamente legato all’arte a lui contemporanea ma oscilla tra tradizione ed avanguardia, rifuggendo da forme irrigidite e sclerotizzate ma senza abbandonarsi alla rottura delle forme e dall’immersione sperimentale nell’informe. E allora usa l’ironia che confina con la parodia. L’ironia, da atteggiamento spirituale, si trasforma in carattere stilistico, e riesce a fare dimenticare le forme del romanzo tradizionale, paradossalmente tradizionale, manipolandone le stesse forme, aderendo ad esse ma con riserve mentali, pieno di reticenze, ammiccando verso il lettore, per fargli capire che è tutto un gioco, un iridescente, sfavillante, scanzonato gioco stilistico. Il suo insistere sul tempo, sulle differenze del tempo del romanzo, quello di Castorp, quello rarefatto del sanatorio, è anche un mettere alla berlina l’uso verosimile che ne fa lo scrittore dell’ottocento, nel dispiegare le sue storie.
La sua vuole essere una summa ironica di tutta la cultura artistica europea, in cui riverenza e canzonatura si mescolano. L’ironia, come capacità di vivere diverse e contrastanti esperienze, senza mai esaurirsi in nessuna di esse, diventa principio conduttore dell’opera, forma e stile. In ciò consiste l’equilibrismo, il funambolismo di Mann. L’arte diventa una paradossale scommessa, un arduo esercizio di stile. Per tutto questo, Mann non ci presenta figure con cui identificarci. Mann ci rappresenta un mondo, il suo mondo, in via d’estinzione, usando tutto il bagaglio culturale di cui è in possesso, rovesciandone a volte anche i valori.
Tutto questo che mi ha indotto a negare la natura “sentimentale” della costruzione del romanzo. Non c’è un sistema di personaggi, né una morale. C’è un dispiegamento d’idee in una speciale forma romanzo, una via di mezzo tra i dialoghi di Platone e il Faust (seconda parte) di Goethe.
La sua storia non si pone come idea universale di riscatto, è limitata nel tempo – inizio Novecento- e riguarda una sola parte della società presa come corpo, la classe borghese teutonica; ciò rende il romanzo datato e per certi versi sgradevole. La miopia di Mann nel non volere vedere i segni che avrebbero condotto al baratro l’umanità – ma a Mann l’umanità non interessava – e l’ostinato attaccamento ai “valori della borghesia tedesca”, rendono molto stucchevole l’argomento e le finalità del romanzo. Un rifugiarsi, decadente e nichilistico, nel comodo mondo a torto idealizzato. Del resto anche dopo la fine della guerra, e la scoperta degli orrori, parlò ripetutamente di una colpa collettiva dei tedeschi, da ravvisare in fatti culturali, piuttosto che di colpe della sua tanto amata borghesia.
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O che hai cambiato sesso? Almeno avverti! :D
RispondiEliminaNo, ho solo riportato la testimonianza della sorella di Mann :)
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