venerdì 31 agosto 2012

Quando la filosofia nasce sfancula preti e fessi [cioè il 99% del genere umano]

Mi piace sempre leggere e ascoltare le parole che narrano la nascita della filosofia che infrange la supremazia del modo di pensare “mitico”. Scrivo questo breve appunto ringraziando eternamente Emanuele Severino.

Non so per quanto tempo, ma di sicuro per interi millenni l’esistenza dell’uomo è stata guidata dal mito. E qui corre l’obbligo di una prima precisazione terminologica: il mito, in questo caso, non è da intendere come invenzione fantastica, bensì come rivelazione del senso essenziale del mondo.
Nella lingua greca il significato originario della parola mythos è “parola”, “sentenza”, “annunzio”; a volte mythos significa persino “la cosa stessa”, “la realtà”. Solo più tardi la parola si avvicinerà al significato che gli diamo noi indicando con mito la “leggenda”, la “favola”, la “fola”.
Il mito arcaico è sempre collegato al sacrificio, cioè all’atto col quale l’uomo si conquista il favore degli dèi e delle forze supreme della natura che, secondo la rivelazione del mito, regnano nell’universo. Il sacrificio può essere cruento o incruento, ma in ogni caso il suo intento è di identificarsi e di dominare ciò che nel mito appare come la potenza suprema.
Ed ecco che accade una delle cose che più mi affascinano della storia dell’uomo.
I primi pensatori Greci escono dall’esistenza guidata dal mito e la guardano in faccia. Nel loro sguardo c’è qualcosa di assolutamente nuovo.
Appare l’idea di un sapere che sia innegabile; e sia innegabile non perché la società e gli individui abbiano fede in esso, o vivano senza dubitare di esso, ma perché esso stesso è capace di respingere ogni suo avversario.
Sboccia l’idea di un sapere che non può essere negato né da uomini, né da dèi, né da mutamenti dei tempi e dei costumi. L’idea di un sapere assoluto, definitivo, incontrovertibile, necessario, indubitabile.
I primi pensatori hanno chiamato questo sapere con antiche parole della lingua greca – le quali hanno quindi assunto da quel momento un significato inaudito. Queste parole sono: sophìa, lògos, alétheia, epistéme. Lasciate perdere le traduzioni di queste parola in italiano, sono stronzate. Risalite alla parola stessa e ascoltate il suono greco; è meglio.
Quanto alla parola philosophìa essa significa, alla lettera (philo-sophìa), “aver cura del sapere”. In sophòs, “sapiente”, risuona, come nell’aggettivo saphés (“chiaro”, “manifesto”, “evidente”, “vero”), il senso di phaòs, la “luce”, allora “filosofia” significa aver cura per ciò che, stando nella “luce” (al di fuori cioè dell’oscurità in cui stanno invece le cose nascoste – alétheia, “verità”, significa appunto, alla lettera “il non essere nascosto”) non può essere in alcun modo negato. “Filosofia” significa “l’aver cura della verità”, dunque – dando anche a quest’ultimo termine il significato inaudito dell’”assolutamente innegabile”.
I Greci evocano per primi il significato inaudito della verità.
Ovviamente i Greci non si accontentano di contemplare questa idea di verità senza preoccuparsi di stabilire quale sia la verità – quali tratti abbia il suo volto. Per poter affermare quali sono i tratti della verità è necessario che innanzitutto stia dinnanzi agli occhi il senso indicato dalla parola “verità”; e i Greci per primi hanno guardato questo senso e si sono messi in cammino per stabilire che cosa può essere detto verità.
Ma già all’inizio di questo cammino la filosofia vede che il mito non è verità innegabile, ma è soltanto una leggenda in cui si crede. Poiché, d’altra parte, la fede nel mito è la regola secondo la quale sono vissute tutte le civiltà precedenti (e la società stessa in cui la filosofia nasce), la critica filosofica del mito diventa inevitabilmente una critica della società.
E così abbiamo anche i primi due caratteri fondamentali della filosofia: essa nasce GRANDE e CRITICA.

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