martedì 9 aprile 2013

Appunti su Pirandello (2)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la seconda parte, in totale saranno sei.)


Considerando i mezzi comunicativi della rappresentazione, e affermando che il fatto estetico non poteva “essere uno, uguale per tutte le arti”, Pirandello si assunse la sua brava difesa della tecnica. La tecnica diventò “l’attività stessa spirituale che mano a mano si libera in movimenti che la traducono in un linguaggio d’apparenze”; addirittura “il libero spontaneo movimento della forma”.
Riflessione, volontà, tecnica, illusorietà della rappresentazione: c’è quanto basta per segnare la sua distanza dal naturalismo. Nei suoi romanzi, nei suoi racconti, in tutta la sua opera s’intravvedeva un’attrazione verso gli stracci d’umanità, e un che d’impietoso che sonava quasi come allontanamento: freddezza e pietà, pianto e riso, immedesimazione e straniamento, identificazione e dissociazione, scomposizione. Da queste varie fasi si giunge ad un’interpretazione non comica ma umoristica della realtà. Con il procedere minuziosamente e anche maliziosamente analitico di ogni “pittura umoristica”, si giunge alla drammatizzazione del comico.
Che Pirandello sia giunto alla formulazione del suo umorismo attraverso il concetto romantico e squisitamente tedesco dell’ironia è possibile. L’ironia viene cercata come una forza che permetta di dominare la materia trattata. Pirandello va oltre, dando all’impianto della narrazione largo spazio creativo alla riflessione, che non si nasconde, non resta invisibile: “non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine”. È da questa analisi che nasce il “sentimento del contrario”.
Il passaggio dal comico all’umoristico risulta dunque da una gradazione più intensa nella scoperta di quel “contrario”, che va dall’avvertimento al sentimento. Così che ogni vero umorista sarà un critico di se stesso, di ciò che egli sente: freddo insieme e dolente, inzuppato di color patetico, ma pur capace di rifiutare la propria identificazione con quei frammenti di verità umana per dominarli artisticamente nella volontà della parodia, che può raggiungere la deformazione grottesca, la gelida fissità della maschera. E questo tipo di scrittore diventa un critico sui generis, fantastico e capriccioso. E fu lo stesso Pirandello, torturatore di concetti ma sempre legato al disegno di un’immagine umana, a darci sul vivo la distinzione tra i due momenti del comico.
L’immagine è quella di una vecchia signora. Ha i capelli ritinti, unti non si sa di quale “orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili”. Il primo moto che suscita in chi la guarda è il riso. Egli “avverte” che quella vecchia signora è il “contrario” di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Il comico è dunque questo “avvertimento del contrario”: e se egli si arrestasse a quel riso non supererebbe la fase della semplice comicità.
“Ma se ora interviene in me” osserva Pirandello “la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le sue rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento o piuttosto più addentro; da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario”.
Questo schema narrativo – che si accentra sul caso umano – ci offre il paradigma di una concentrazione di elementi espressivi, che risultano più vivi, quasi stridenti, del loro stesso accostamento e dall’interpretazione cui l’autore li sottopone. Il primo di questi elementi è un inarrestabile bisogno di vita, che muove quel meccanismo interno per cui una persona è spinta a divenire un personaggio: la vita che è dentro di noi, che può essere amore non corrisposto, ansia, liberazione, pazzia, istinto, e un oscuro desiderio di felicità, sensuale, meridionale, nella capacità di osare, di far clamore, di far chiasso. Se non si tiene conto di questo vitalismo, che raggiunge forme demoniache, non si può capire Pirandello: mancherebbe la base per capire il suo irrazionalismo e la sua stessa ansia di distruzione. E tale brama di vita s’annida anche in una ridicola vecchietta imbellettata e parata d’abiti giovanili.
Il secondo elemento è legato al primo: la coscienza di vivere. Essa è tanto più forte nei personaggi pirandelliani, quanto più è annidata come una malattia in un albero antico e dalle forte radici. È questa coscienza che genera tragedie silenziose. La “riflessione” fonte del dolore: e la vita quasi s’arresta o s’aggroviglia in quel sentirsi vivere, passaggio su cui Pirandello ha insistito fino allo spasimo, con una chiarezza talmente disarmata che getta riflessi non di rado banali sul lettore o sullo spettatore. Conoscersi è morire.
L’uomo pirandelliano, la stessa povera vecchietta del suo saggio, che soffre della propria miseria, della propria bruttezza e vecchiaia, per rientrare nel dominio dell’umorismo, in una metamorfosi schiettamente teatrale, deve rappresentare il suo contrario: la venustà, la grazia. Nelle scene più semplici ed elementari si ride quando quel sentimento irresistibile di vita (farsi amare, godere) camuffato dal desiderio della persona di essere diversa, diventa teatro: quando s’inizia la rappresentazione del teatro della vita.
Anche se chiusa nelle forme narrative, la dinamica dunque di quel processo è sempre teatrale. La destinazione verso cui i miseri protagonisti vengono avviati è il palcoscenico: palcoscenico del mondo in romanzi e novelle, nell’attesa che esso diventi, nelle commedie, palcoscenico invaso dalle fredde luci dei riflettori. E, partendo da quel nucleo vitale, si comincia a procedere alla scomposizione della figura nei vari piani espressivi, secondo i riflessi che essa scambia con l’altra figura, inventata, con cui ha stabilito una relazione, un rapporto di vita, come in un continuo gioco di specchi, entro cui un’immagine insegue l’altra, con slanci isterici ed esaltati. Confusione, disordine, caos, coscienza del vuoto. Allontanamento di ogni certezza. La personalità alterata si compone in forme maniache, popolata di fantasmi deliranti. La malattia diventa la più sicura alleata della fantasia. Distruzione della ragione. L’antico spirito dionisiaco, latente in chi è rimasto ancora legato alla propria terra, è messo in scacco dal “loico dispotico”. Amore e disprezzo dell’umanità.
Rifiuto della realtà, del tempo d’oggi, dell’ordine burocratico, del sistema su cui la società ha costruito i suoi castelli di carta, nei cui meandri il povero essere pirandelliano si aggira come entro una teoria di maschere ghignanti: eversione. Disperato e impossibile bisogno di star solo, fuor della Sicilia, del mondo, lontano dalla famiglia.

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