martedì 24 gennaio 2012

Una splendida pagina sulla lingua napoletana


Non sono un patriota, non si accelera il battito alle fanfare dell’inno nazionale. La mia patria è la lingua italiana. L’ho avuta da mio padre, dai suoi libri, dalla sua pretesa di parlarla in casa senza accento. Nella città di mezzo Novecento il napoletano era lingua schiacciante, l’italiano poco e malinteso. Mio padre ne era il custode, io l’erede. È stato un dono immenso, è stata patria, territorio del padre.
Il napoletano veniva dalla pressione della densità umana per metro quadro, era svelto di sillabe e di coltello, servile e guappo, feroce e sdolcinato di vezzeggiativi, era una lingua di consolazione, dava forza e figura a chi la sapeva usare.
Era destrezza a usare meno sillabe, a ingiuriare più a fondo, a sfottere più scorticatamente. L’ho imparato a orecchio a forza di sconfitte sul campo della strada. Un dialetto s’impara per legittima difesa. Sta nella bocca come dentro un fodero di cuoio. In una vita puoi studiare dieci lingue ma non due dialetti.
Ora il napoletano si sta ritirando sotto l’occupazione della lingua nazionale che gli cancella il dizionario e lo riduce a una cadenza, una calata meridionale, come l’accento marsigliese in margine al francese. Nella tendenza del mondo all’uniformità, si dice globalizzazione, i dialetti finiscono inglobati, cioè inghiottiti.
Oggi mi succede di essere nominato scrittore italiano. Soprappensiero e automaticamente correggo: scrittore in italiano. Perché è lingua seconda, messa accanto e in sordina rispetto alla prima voce, il napoletano. L’italiano è una lingua raggiunta, la amo. Per l’altra non uso il verbo amare. Al napoletano voglio bene e lui pure me ne vuole. Gli proteggo la siepe, non ci faccio entrare l’italiano, adesso è per me una riserva naturale. Gli voglio bene perché mette forza di raddoppio alla parola “ammore”, al posto del più delicato amore, e nel “dimmane” che dev’essere migliore del solito domani. Gli voglio bene perché al contrario dell’indicativo “abbiamo”, toglie peso e presunzione al verbo avere, dicendo “avimm’”.
Mi piace che non esiste in napoletano la parola eroe e che “guappo” sia spesso una recita incruenta. Gli voglio bene perché raddoppia “primma” e “doppo” e dà così più consistenza al prima e al dopo, al tempo passato e a quello venturo. Mentre il presente è un frattempo che si riduce a un “mo’”, sillaba di momento. E sono affezionato al suo verbo andare che è il più veloce del mondo, “i”, più corto del già svelto “ire” latino. Perché quando te ne devi andare, “te n’ia i”, subito.

2 commenti:

  1. Veramente una pagina bellissima, dolcissima e poetica su un dialetto che è una lingua stupenda di un popolo stupendo ( nel bene e nel male) , e lo dico da barese che ha le sue due più belle amicizie a Napoli; a furia di sentirlo da quando avevo 14 anni ( e ne sono passati di anni...) io ce l'ho dentro e spesso mi dicono che ne ho accento e enfasi.
    Grazie prof di questa bella pagina di amore che ci hai fatto conoscere.

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    1. Sì, una lingua meravigliosa e difficile da apprendere. Sopattutto anche molto "dura". Ne scriverò ancora di sicuro.
      Adoro i dialetti centromeridionale e se tu davvero fondi napoletano e barese, devi parlare meravigliosamente.

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