martedì 31 gennaio 2012

Discorso del professore Ingestibile


Disprezzo i giovani di questi ultimi trent’anni. Tutto il lager schiamazzante delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età (tutt’altro che oisive) pericolosamente volitiva.
Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro, nidificano nell’autoconservazione. Questa perpetua assemblea è il confort della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di sequestrare se stessi, “desiderando” (è l’etimo di studio) e progettando in tutto privato, s’illudono di “okkupare” una scuola pubblica allo scopo cretinissimo di conferirle “dignità” ed “efficacia” innovativa.
La scuola, da skolè, è il corpo insegnante, confraternita laddove s’insegna e non mai dove s’apprende. Una palestra dove ci si va a rilassare, a dispetto del corpo insegnante: questa è la scuola. Lo studente o lo studière è colui che desidera: vedi che scuola e studio sono un’antitesi.
Non puoi andare ad apprendere dove si insegna; per apprendere bisogna disapprendere. Altrimenti si fa doppia fatica, ore buttate via. La scuola è ozio, è cretino scioperare per migliorarla. Altre volte la demoliscono questa istituzione, oggi vorrebbero restaurarla. Gli insegnanti demoliti di oggi sono gli studenti demolitori di ieri.
Che cazzo vuole questo verminaio trafelato e confuso? Se non affogare nel baccano collegiale qualunque atto responsabile, ogni solitaria e intima applicazione? Reprimere nella rivolta scioperata e poliziotta la resa dei conti con se stessi. È con se stessi che non intendono intrattenersi: travestono il lavorìo pensante in prospettiva salariata; rivendicano garanzie statali (educazione, famiglia, ricreazione, sindacato, pensione, ecc.) invece di offrirne. È la trafila insensata dei servi che reclamano di “ottimizzare” la propria condizione servile.
Controparte è un regime democratico per definizione tritamasse, sordo-attento alle difficoltà globali, inimico giurato d’ogni impresa individuale. Non bisogna mai invocare lo Stato. Lo Stato deve smettere di governare. Si studia desiderando. Una faccenda molto privata.
Il “giovanilismo mitico” è fomentato dai media che gli assegnano spazio sconsiderato nel trogolo dell’attenzione più equivoca. Chi non finge di interessarsi all’acne giovanile è sospettato di attitudine criminale. E così, vezzeggiato e garantito, il giovanilismo imbecille si accanisce a oltranza. S’accasa parassitario, senza età, nel condominio genitoriale, arrangiandosi nella cameretta quattro per quattro il poster del Che e una multisolitudine da crociera di massa virtuale. Ipernavigano via Internet. Falsa erranza agli antipodi di Swift e inconsapevole sintonia col Robinson di Michel Tournier. Solitudine di branco.

domenica 29 gennaio 2012

Zelig

Che mestiere fa?
Io? Sono uno psicoanalista.
Ah, sì?
Lavoro soprattutto con i paranoici.
Me ne parli.
Oh, non c’è molto da dire. Lavoro soprattutto in Europa, e ho scritto parecchi articoli di psicoanalisi. Ho studiato molto. Ho lavorato con Freud a Vienna. Il nostro disaccordo è iniziato sull’invidia del pene. Freud sosteneva che dovesse essere limitata alle donne.

L’idea di Woody Allen di forgiare il personaggio di Leonard Zelig come uomo camaleonte è stupenda. Un uomo talmente fragile da superare qualsiasi limite di conformismo.
L’idea, poi, di realizzare questo film come se fosse un documentario è altrettanto azzeccata. Anche se, in effetti, documentario rende l’idea dal punto di vista tecnico, ma in realtà la grandezza di questo film è che esso diventa un film-libro.
Zelig è più simile ad un libro che ad un film perché la poesia, il significato, la bellezza della parola e dei concetti è come quella di un libro. Qui gli effetti speciali non sono quelli spettacolari della cinematografia, ma quelli emozionanti di un romanzo di Dostoevskij.
Tanto è vero che il divertimento, l’ironia, il dolce amaro humor ebraico appartengono alla parola, al racconto e non alla “scena”. Penso, per esempio, al racconto della sinagoga, del rabbino e del significato della vita; alle parole del padre di Zelig in punto di morte; alla famiglia che viene picchiata da tuta la città, ecc.
Il “malato” Zelig diventa, ovviamente, un mostro da dare in pasto alla stampa e un fenomeno da baraccone in mano a gente perfida che lo espone per denaro al ludibrio della gente.
Viene condotto in una clinica e qui preso in cura dalla dott.ssa Eudora Nesbitt Fletcher che è l’unica a prendersi a cuore il paziente. Gli altri professoroni si limitano a visite superficiali e a diagnosi completamente sballate.
Solo l’amore di Eudora è in grado, attraverso estenuanti tentativi e ad un’intuizione geniale, di guarire Leonard Zelig e questo è uno dei messaggi più importanti del film.
I momenti più impagabili, invece, sono le sedute psicoanalitiche tra Eudora e Leonard, quando lei lo ipnotizza e lui alza il braccio come se a parlare fosse un inconscio nazista.
Quando è ipnotizzato, Leonard riesce a dire delle cose che normalmente non dice. L’odio per la campagna, gli odiati, odiatissimi pancake e riesce anche a confessare quello che prova per la dottoressa.
A questo punto io mi sono soffermato a pensare.
Perché molto spesso non riusciamo a dire quello che veramente pensiamo? È solo per timidezza? È la timidezza che ci salva in molte occasione, tenendoci al riparo da scontri e polemiche, o è solo una fottutissima barriera che ci impedisce di essere noi stessi? Si rischia di impazzire a cercare sempre di indossare quella maledetta maschera e di non riuscire ad essere veramente sinceri? Siamo tutti conformisti, quindi, chi più chi meno?
Bah, non lo so. La pianto con gli interrogativi e vedetevi questo Zelig di Woody Allen.
È un capolavoro assoluto.

sabato 28 gennaio 2012

La verità, vi prego, sull’amore


Tell Me the Truth About Love è un libriccino che contiene dieci poesie, dieci ballate, che Auden scrisse negli anni trenta del Novecento.
"Ballata" viene dal verbo "ballare"; secondo Iosif Brodskij in una ballata, in un certo senso, tutto è danza, tutto balla e ammicca all'ascoltatore o al lettore: il tema, il significato e, più ancora, il metro. Poiché in generale ha per tema la violenza e la resa dei conti, la ballata è normalmente concisa nell'esposizione e molto perentoria nel dénouement, cioè nel suo scioglimento finale.
Il tono generale delle poesie è quello di una continua riproposizone di una sensibilità dissonante e, trattandosi di un sentimento come l'amore, non potrebbe essere altrimenti.
Chi non ha provato la demoniaca volubilità dell'amore? Chi il venerdì non ha toccato il cielo con un dito grazie ad esso per ritrovarsi il sabato come l'essere più disperato della terra? Chi non ha tripudiato di felicità convinto di aver trovato l'anima gemella per poi scoprire di aver amato un fantasma che ci abbandona tra un assordante crepitar di tuoni? Chi non ha giurato e creduto nell'amore eterno ricevendo l'aspro rimprovero del Tempo che tutto consuma e tutto sottomette alle sue leggi? Auden canta magnificamente questo ed altro e non so se sia davvero il più grande poeta inglese del Novecento, non ho la presunzione di affermare ciò ma sicuramente è un poeta da leggere.
Personalmente, la poesia che dà il titolo al volume, La verità, vi prego, sull'amore, non è la mia preferita.
Ho amato molto di più Funeral Blues che condivido con voi.

Funeral Blues

Fermate gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti, e tra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l'amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla mi può giovare.

venerdì 27 gennaio 2012

Come si fa a baciare [con un Appendice dedicata a Cosa NON sono le zizze]


Baciare è la cosa più bella del mondo. Il bacio è il dono più meraviglioso che madre natura ci abbia mai fatto. Starei delle ore a baciare. Baciare mi piace più del sesso, più dei rapporti orali, più delle carezze, degli abbracci, ecc. ecc. ecc.
Veniamo ora a qualche considerazione pratica e a qualche notazione tecnica.
La bocca ospita numerosi sensori e gioca un ruolo fondamentale in una vasta gamma di attività sessuali. “Assemblare” le rispettive bocche offre uno stimolo piacevole a un link diretto per ulteriori procedure.
Trattandosi della bocca, è facile indovinare che il primo problema che si deve affrontare è quello del fiato. Prima di baciare procuratevi una caramella o una mentina, oppure bevete una bibita dal sapore gradevole. Soprattutto se foste fumatori, dato che sicuro non vorrete dare la sensazione di “leccare un posacenere” (come disse Kim Basinger dopo aver baciato Mickey Rourke nel film 9 settimane e ½). Offritene una anche alla vostra donna: la aiuterete a scaldare la bocca e a eliminare con discrezione un alito non proprio freschissimo. Vi eviterà anche di metterla in imbarazzo di lì a poco – durante le attività di incontro ravvicinato – chiedendole di fare qualcosa per un fiato insopportabile.
Ed ora spieghiamo tecnicamente il bacio in 5 passi.
1) Protendete le labbra e appoggiate la bocca sulle aree sensibili del viso della donna muovendovi dalle guance alla fronte alle orecchie. Se non si ritrae e non protesta, potete passare allo step successivo delle labbra.
2) Appoggiate con dolcezza la bocca su quella della donna. Spingete in avanti la parte interna più umida e carnosa delle vostre labbra in modo da farla entrare in contatto con quella esterna – e poi quella interna – delle labbra della donna.
3) Restate bocca contro bocca e mantenete la posizione. Protendete le labbra per entrare in contatto con la parte più interna di quella della donna. Muovete leggermente la bocca e le labbra su e giù e da una parte all’altra. Alternate la pressione e i punti di contatto. Modificate la posizione della testa e del collo per trovare angolazioni nuove e sempre più piacevoli.
4) Inserite delicatamente la lingua nella bocca della donna. Ruotatela intorno all’”entrata” e alla lingua della donna. Muovetela piano sempre più in profondità nella sua bocca e sopra e intorno alla sua lingua.
5) Sperimentate posizioni diverse e vari movimenti di labbra e lingua fino a trovare quelli che soddisfano maggiormente entrambi. Ripeteteli in modo casuale, alternandoli.

Ah, ovviamente ogni tanto ricordatevi di prendere fiato. Nessuno può godersi un bacio se non riesce a respirare. Inoltre, non dimenticate di utilizzare la parte centrale della lingua, ricchissima di terminazioni nervose.

Appendice

La zizza non è la manopola di una radio. Evitate di esagerare “gingillandovi” con i capezzoli o di ruotarli con insistenza per “sintonizzarvi” su radio deejay: simili interventi possono risultare irritanti.
La zizza non è una cosa che si mangia. Una lieve suzione e un leggero mordicchiamento sono accettabili. I morsi e la masticazione compulsiva no.
La zizza non è una scialuppa di salvataggio. A meno che vi abbiano espressamente esortati a farlo, non afferratela con foga e non aggrappatevi a essa, nemmeno sull’onda della passione. In pratica trattate la zizza della donna con la delicatezza e il rispetto con cui vorreste veder trattati i vostri coglioni.
La zizza non è uguale per tutti. Questo vale soprattutto se state interagendo con una donna dotata di tette ipersensibili (condizione che potrebbe essere indotta dalla gravidanza, dal ciclo mestruale o altri fattori biologici). Guardate la donna negli occhi, osservate le sue reazioni e chiedetele apertamente che cosa preferisce. In questo modo capirete con certezza se le vostre stimolazioni mammarie si stanno rivelando eccitanti o semplicemente un fastidio.

giovedì 26 gennaio 2012

Michel Martone e l'unico post abortito del mio blog

(nella foto, Michel Martone)

Ho sentito alla radio che il vice ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (ma che sia vice ministro devo verificarlo perchè mi pare strano) Michel Martone, avrebbe detto che laurearsi dopo i 28 anni è da sfigati e che lui a 23 aveva già il dottorato e bla, bla bla e bla, bla bla. Insomma diceva la classica stronzata che i politici dicono ogni tanto; predecessori furono Padoa Schioppa e i bamboccioni e Margaret Thatcher con la storia che se non hai la limuosine a 30 anni, vuol dire che non sei nessuno.
Stavo per partire alla carica, stavo per incazzarmi, stavo per scrivere 'a Michel, ma fatte li cazzi tua! stavo per dirgli 'a Michel ma trovate un nome da uomo invece di questo che è proprio da frocio! stavo per sfogarmi alla grande conto di lui e tutti i politici coglioni, ma poi...

Poi ho visto la foto di Michel Martone e ho deciso di non infierire.

martedì 24 gennaio 2012

Una splendida pagina sulla lingua napoletana


Non sono un patriota, non si accelera il battito alle fanfare dell’inno nazionale. La mia patria è la lingua italiana. L’ho avuta da mio padre, dai suoi libri, dalla sua pretesa di parlarla in casa senza accento. Nella città di mezzo Novecento il napoletano era lingua schiacciante, l’italiano poco e malinteso. Mio padre ne era il custode, io l’erede. È stato un dono immenso, è stata patria, territorio del padre.
Il napoletano veniva dalla pressione della densità umana per metro quadro, era svelto di sillabe e di coltello, servile e guappo, feroce e sdolcinato di vezzeggiativi, era una lingua di consolazione, dava forza e figura a chi la sapeva usare.
Era destrezza a usare meno sillabe, a ingiuriare più a fondo, a sfottere più scorticatamente. L’ho imparato a orecchio a forza di sconfitte sul campo della strada. Un dialetto s’impara per legittima difesa. Sta nella bocca come dentro un fodero di cuoio. In una vita puoi studiare dieci lingue ma non due dialetti.
Ora il napoletano si sta ritirando sotto l’occupazione della lingua nazionale che gli cancella il dizionario e lo riduce a una cadenza, una calata meridionale, come l’accento marsigliese in margine al francese. Nella tendenza del mondo all’uniformità, si dice globalizzazione, i dialetti finiscono inglobati, cioè inghiottiti.
Oggi mi succede di essere nominato scrittore italiano. Soprappensiero e automaticamente correggo: scrittore in italiano. Perché è lingua seconda, messa accanto e in sordina rispetto alla prima voce, il napoletano. L’italiano è una lingua raggiunta, la amo. Per l’altra non uso il verbo amare. Al napoletano voglio bene e lui pure me ne vuole. Gli proteggo la siepe, non ci faccio entrare l’italiano, adesso è per me una riserva naturale. Gli voglio bene perché mette forza di raddoppio alla parola “ammore”, al posto del più delicato amore, e nel “dimmane” che dev’essere migliore del solito domani. Gli voglio bene perché al contrario dell’indicativo “abbiamo”, toglie peso e presunzione al verbo avere, dicendo “avimm’”.
Mi piace che non esiste in napoletano la parola eroe e che “guappo” sia spesso una recita incruenta. Gli voglio bene perché raddoppia “primma” e “doppo” e dà così più consistenza al prima e al dopo, al tempo passato e a quello venturo. Mentre il presente è un frattempo che si riduce a un “mo’”, sillaba di momento. E sono affezionato al suo verbo andare che è il più veloce del mondo, “i”, più corto del già svelto “ire” latino. Perché quando te ne devi andare, “te n’ia i”, subito.

lunedì 23 gennaio 2012

Scrittura, due verità e un hit parade


Le verità fondamentali sulla scrittura sono essenzialmente due.
La prima è che la scrittura non è soltanto un’arte fatta di puro talento e creatività ma anche un vero e proprio lavoro. A volte è esaltante, altre volte è frustrante, ma scrivere richiede sempre un impegno costante con se stessi, la storia e la temuta pagina bianca, richiede il coraggio di esplorare luoghi dentro e fuori di noi e, soprattutto, la capacità di coltivare il legame che esiste tra noi e la nostra musa, per scrivere bisogna dialogare con il divino. Siamo pur sempre “creatori”, no?
La seconda verità è che la scrittura non è soltanto un lavoro fatto di regole e metodo ma anche arte pura, e in quanto tale imprevedibile, volubile, sfuggente eppure pressante, esigente e generosa, un’espressione di totale libertà che ti incatena e non ti lascia andare. E come tutte le arti, anche la scrittura chiede talento, improvvisazione, passione, lacrime e gioia, anche se poi talento, passione, lacrime e gioia si declinano nelle storie in infiniti modi.
Comunque, per migliorare nell’arte della scrittura, c’è un solo modo: scrivere.
Per dirla con George Steiner: “Come puoi dopo Proust e Joyce e Kafka e Faulkner sederti alla scrivania per scrivere un romanzo? Risposta: non puoi, devi.”

Ora vi regalo un hit parade di pensieri sulla scrittura formulati da autori celebri. Spero che ne troviate almeno una che vi piaccia tanto da scriverla sul quaderno dove forgiate le vostre storie.
Ciò di cui la gente si vergogna di solito è ottimo materiale da romanzo.
Francis Scott Fitzgerald
L’originalità non esiste. Rubate da tutto ciò che riecheggia di ispirazione e alimenta la vostra immaginazione.
Jim Jarmusch
Siamo tutti apprendisti in un’arte di cui nessuno diventa mai maestro.
Ernest Hemingway
Se scrivete una storia sola, magari sarà pessima; se ne scrivete cento, avrete le probabilità dalla vostra parte.
Edgar Rice Burroughs
Un giorno troverò le parole giuste e saranno semplici.
Jack Kerouac
Il talento più prezioso è evitare di scrivere due parole quando una è sufficiente.
Thomas Jefferson
L’importante non è da dove prendi le cose – è dove le porti.
Jean-Luc Godard
Quando si tratta di persone, l’eutanasia è contro la legge. Quando si tratta di narrativa, è la legge.
Stephen King
Ogni romanzo dovrebbe avere un inizio, uno svolgimento e una fine.
Peter De Vries
Se ti fermi quando sei bloccato, allora sei nei guai.
Roald Dahl
Ci sono tre regole per scrivere un romanzo. Purtroppo nessuno sa quali siano.
Somerset Maugham
Al mattino era mattino, e io ero ancora vivo. Forse scriverò un romanzo, pensai. E lo scrissi.
Charles Bukowski
Uno scrittore professionista è un dilettante che non ha mollato.
Richard Bach
Uno scrittore scrive un libro per cercare di spiegare a se stesso ciò che non riesce a capire.
Gabriel Garcia Marquez
L’essenza del dramma è che un uomo non può sfuggire alle conseguenze delle sue azioni.
Harold Hayes
Finire un libro è come prendere un bambino, portarlo nel giardino dietro casa e ammazzarlo.
Truman Capote
Scrivere è come il sesso. Più ci pensi, più è difficile farlo. È meglio non pensarci troppo e lasciare che, semplicemente, accada.
Stephen King
Usate l’immaginazione. Datemi retta, le vostre vite non sono abbastanza interessanti.
William Patrick Kinsella
Scrivi. Corri dei rischi. Potrebbe anche essere doloroso, ma questo è l’unico modo per scrivere qualcosa di veramente valido.
William Faulkner
Prima di tutto, scoprite cosa vuole il vostro eroe poi, semplicemente, seguitelo!
Ray Bradbury
Tutto quello che potete fare, o sognare di fare, cominciatelo. La sfacciataggine possiede genialità, potere e magia.
Johann Wolfgang Goethe

domenica 22 gennaio 2012

La figura del REFRATTARIO


I refrattari e gli iperborei sono fratelli di sangue dell’Ingestibile.
Degli iperborei e del poeta greco Pindaro parleremo un’altra volta, ora occupiamoci dei refrattari.
Perché lo dichiaro apertamente: Io sono un refrattario.
Cos’è un refrattario? Soltanto le autorità, che appioppano questo che secondo loro è un nomignolo dispregiativo, ne conoscono l’esatta definizione. Io posso solo darne una descrizione approssimativa. Il refrattario è una persona che ha la sfacciataggine di esprimere pubblicamente un’opinione non conforme a quella delle autorità e a quella della maggior parte delle persone che a questa autorità crede ciecamente per motivi di “ingenuità” o di comodo.
Le autorità dichiarano, ad esempio, che la crisi non c’è, che gli aerei, gli alberghi e i ristoranti sono tutti pieni. Il refrattario sogghigna: “Tutte stronzate”. Difficile capire cosa muove più a sdegno le autorità: se il termine stesso di stronzata, o l’ardire di mettere in dubbio l’autoritaria affermazione. Ed esprimendo la volontà del popolo da loro governato, le autorità dichiarano che le parole del refrattario sono perfide calunnie.
Il popolo approva in massa le dichiarazioni degli amati capi e stigmatizza il refrattario, insieme esigendo che si prendano severe misure onde purgare da simile degenerato la nostra pur così sana società. Alcuni esigono che lo si getti fuori. Ma sono una minoranza. La maggioranza esige invece che il refrattario venga messo dentro. Metterlo fuori, equivarrebbe a insignirlo di un’altissima onorificenza. E poi, gettarlo fuori dove? In altri paesi occidentali? In Usa? Oppure in Africa? No, non è assolutamente il caso. Sarebbe un’azione impraticabile. Dentro bisogna metterli. E alla svelta, o ne combineranno di cotte e di crude. I popolani maggiormente devoti alla causa reclamano la messa al muro del refrattario come un esempio edificante per gli altri. Dopotutto, sarebbe più umano. E magari ce lo metterebbero, ma non è il momento. È presto, ancora. Lascia che superiamo certe passeggere difficoltà, e allora…
Poiché nella sana società italiana (come in tutte le società) i refrattari sono molto rari (due ogni milione, nel corso di dieci anni), il popolo li stigmatizza con grande entusiasmo e in tutta sincerità, dicendo: Giacché, vedi, anche senza che tu faccia lo spiritoso noi sappiamo che ci riempiono di chiacchiere. Eppure non fiatiamo. Ce ne freghiamo, noi, che là in alto dicano delle stronzate. Facciano pure. Le autorità sono fatte appunto per gettar polvere negli occhi e sputare menzogne a ogni passo. Tu invece tappatela la bocca. Approva, abbi fiducia, e la cosa è fatta. Vedrai – rinsaviranno da soli. E ci scapperà anche qualche miglioramento.
E tuttavia ne compaiono sempre, di refrattari. Nessuno sa da dove saltino fuori e perché. Compaiono, ed è tutto. Come afferma la genetica, tempestivamente riabilitata, si tratta di una mutazione dei geni. Sia pure. L’importante è che compaiono. E vanno sbraitando per l’intero Paese: “Son tutte stronzate!”.
In ognuno di noi si nasconde un refrattario, anche nella persona più insospettabile, anche nella più normale, nella più educata, nella più ammaestrata e quadruplamente intimorita. Anche nei cosiddetti membri modello. Forse un giorno, durante una riunione di lavoro, a un comizio elettorale, ascoltando un tg, seguendo la conversazione di alcuni benpensanti, potrebbe capitarvi di esplodere in un sonoro: “Stronzate, sono tutte stronzate!” e magari proverete la gioia immensa di veder fiorire nella vostra mente pensieri straordinari, inusitati e di pensare, guardando le cose con occhi nuovi: Che il diavolo mi prenda, ma dove minchia vivevo, prima di adesso?! Quanti anni ho perduto inutilmente!
Colui che si rende conto che le cose vanno male è più uomo di chi non se ne accorge.

venerdì 20 gennaio 2012

Inchìnati, deferente, alla cerniera del presidente


Ieri sera sono andato, dopo un bel po’ che ci mancavo, al circolo “Amici della Pippa Mentale”.
C’era un’atmosfera distesa, musica soft, squisite tartine e, come sempre, tanti tipi di alcolici per soddisfare l’ugola vogliosa.
A un certo punto è stata fatta una domanda che ci ha tenuti occupati per tutta la serata e cioè: Qual è la professione che permette di trombare anche se si è brutti?
Scrivo le risposte alla rinfusa.
Il calciatore
Il produttore cinematografico o televisivo
Il politico
Export manager [garantito]
L'attore di film hard (Ron Jeremy ne è una testimonianza)
Tutte quelle che ti permettono di guadagnare una barca di soldi (imprenditore serio) oppure quelle che permettono di creare occasioni per diventare famosi (agente). Io comunque continuo ad ammirare quelle che si fanno dei cessi che gli fanno schifo, veramente
Presidente del consiglio
Produttore discografico, soprattutto se hai la promessa facile
Il prete
Di sicuro non il professore di storia e filosofia
Che lavoro fa Sgarbi?
I lavori che ti permettono di trombare tante belle donne sono i lavori dove hai a che fare con tante donne. Visto che di donna in donna i gusti cambiano avere un "pool" di tante donne è la cosa migliore. Per questo deejay, barman , ecc. ecc. sono lavori dove si possono trovare donne facilmente. Poi aggiungiamo anche l'alcool e siamo a posto
Rappresentante, specialmente di cosmetica o articoli per parrucchiere. Fate i rappresentati di cosmetici, tromberete come ricci; parrucchiere ed estetiste per avere un po’ di sconto la dànno via come il pane
Tra i lavori diciamo "normali" dico il barman
L’anestesista (uhaz uhaz uhaz)
Di certo non il laureato disoccupato. In questo caso anche se si è belli come il sole e con la minchia di un orso si rimedia poco
Il tipo di lavoro è importante per rimorchiare le femmine perché buon lavoro->molti soldi-> bella macchina->bei regali, ecc. È inutile essere brillanti, simpatici, carini, pieni di attenzioni, se non hai la grana da sbatterle sotto il muso. Avete mai provato a chiamare le fanciulle dall'auto prima in una piccola e poi e in una di grossa cilindrata, io qualche anno fa sì e i risultati sono sorprendenti…
Essere carini brillanti ecc. serve per la guerra tra straccioni… tipo savana quando avvoltoi, sciacalli e iene si contendono una carogna poi arriva il leone sul BMW e si pappa tutto
L'ipnotizzatore
Essere Giggi D'Alessio
Il poliziotto
Quello che ti dà soldi potere visibilità...
Steward
I professori universitari
Il lavoro più bello del mondo: il figlio di papà
Animatore di villaggi turistici
Proprietario di una discoteca
L’idraulico
Comandante di una nave
Pilota di aereo
Il cantante
Lo psicoanalista (approfittando del transfert delle pazienti)
Superdotato (e non ti serve nessun lavoro particolare)

giovedì 19 gennaio 2012

Manifesto del partito comunista [scritti introduttivi-seconda parte]


Mentre Adam Smith nella “ricchezza delle nazioni” celebrava la fine politica dell’Ancien Régime, nel Manifesto l’impetuoso sviluppo delle forze produttive stimolato dalla borghesia è un epitaffio per un ordinamento che, proprio grazie agli straordinari successi da esso conseguiti, fa apparire politicamente e moralmente inammissibile la miseria e l’insicurezza di massa su cui, nonostante tutto, esso continua a fondarsi.
Siamo in presenza di un problema politico; non è più un discorso di costrizione naturale come lo era stato in passato. E il problema politico risiede non già nella penuria ormai sconfitta, bensì in una “ricchezza delle nazioni” che non riesce a divenire reale ricchezza sociale.
Nel Manifesto assistiamo ad una interessante polemica a distanza tra Marx ed Engels da un lato e Tocqueville (e la tradizione politica di cui egli è eminente rappresentante) dall’altro.
Punto di partenza di Tocqueville sono le rivoluzioni del 1848.
Nel fare il bilancio degli sconvolgimenti e della catastrofe della “Primavera dei popoli”, il liberale francese li mette sul conto del socialismo, cioè delle “teorie economiche e politiche” le quali vorrebbero far “credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza, e che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l’ordinamento sociale”.
È per l’appunto la tesi sostenuta, alla vigilia della rivoluzione, dal Manifesto, il quale intende in primo luogo chiamare i “proletari” a prendere consapevolezza della dimensione eminentemente politica del loro dramma. Ma voler intervenire in questa sfera significa per Tocqueville intaccare l’ordinamento naturale della “società”, facendo “a pezzi le basi su cui essa riposa”.
In realtà, replicano Marx ed Engels nel II capitolo Proletari e comunisti:
Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate la concezione interessata in base alla quale trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici quali essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione. Ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà antica, ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà feudale, non riuscite più a comprenderlo riguardo alla proprietà borghese.
Una critica simile, era apparsa l’anno prima in Miseria della filosofia, quando erano stati biasimati gli economisti: per essi “c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più”.
Per Tocqueville, è proprio l’illusione che ci sia un politico “rimedio contro questo male ereditario e incurabile della povertà e del lavoro” a provocare gli “esperimenti” e le “rovine” che caratterizzano l’incessante ciclo rivoluzionario francese sfociato nel socialismo. Secondo Tocqueville siamo in presenza di un’ideologia visionaria, di un “errore funesto” che bisogna assolutamente liquidare.
Per il Manifesto, il socialismo non è l’elaborazione, folle o geniale che sia, di un intellettuale o gruppo di intellettuali, bensì l’espressione teorica di bisogni e possibilità reali:
Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe già in atto, di un movimento storico che si sta evolvendo sotto i nostri occhi.
Faticosamente, tra tentativi ed errori, i proletari prendono coscienza del fatto che le “catene” che gravano su di loro, la “schiavitù” che essi subiscono, rinviano a un ordinamento politico-sociale storicamente determinato che si tratta ora di mettere in discussione.

mercoledì 18 gennaio 2012

Foucault, un primo approccio


Da sempre mi affascina la figura di Michel Foucault, anche se non mi ero ancora dedicato compiutamente allo studio del suo pensiero cosa che intendo fare nel corso di questo 2012.
Spaventato, anni fa, dall’invadenza dei foucaultiani e dalla loro esasperata venerazione per il Maestro, me ne allontanai per non essere travolto dai devoti e dal loro fastidiosissimo ripetere come un mantra i dogmi che secondo loro rappresentavano la dottrina di Foucault.
Io li odio, i fedeli. Sia quelli religiosi che quelli filosofici. Chi glielo fa fare? Sono dei pigri, che abbracciano una sola ricetta convinti, con essa, di poter salvare il mondo.
Ora, però, ho deciso di approfondire la riflessione di Foucault, soprattutto quando essa verte su alcune caratteristiche che hanno assunto le nostre società, in particolare per quel che riguarda il controllo delle persone e dei loro corpi. Il pensiero di Foucault, esercitandosi sul potere, e sul modo in cui è stato e viene esercitato, è uno strumento assai stimolante per analizzare le modalità e i dispositivi di cui questo potere si avvale.
Una parola chiave del pensiero di Foucault è “biopolitica”, che può essere intesa ricordando quel che egli stesso ha scritto: “al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere la morte”. In questo modo, entrando ancor più profondamente nella vita delle persone, la biopolitica si impadronisce del loro corpo.
Questa consapevolezza tutta moderna di un potere che si impadronisce della vita assume nella riflessione di Foucault una rilevanza particolare. Non indaga, infatti, la categoria della biopolitica in forme astratte, ma riportandola alla realtà degli strumenti, delle istituzioni di cui il potere concretamente si serve, dalla medicina al carcere. E così la nozione stessa di vita viene ridefinita, cogliendo uno dei caratteri delle società contemporanee al quale si riferisce un’altra parola sempre presente nella discussione attuale, “bioetica”.
Foucault cerca di rendersi consapevole dei dispositivi di cui il potere si serve.
Non è un caso che abbia scritto la prefazione a uno dei libri che hanno ricevuto, negli ultimi decenni, un’attenzione particolare, il Panopticon di Jeremy Bentham, l’illuminista inglese che ha rivolto lo sguardo proprio alla società della sorveglianza giungendo, grazie alla collaborazione del fratello architetto, a progettare una forma di prigione nella quale tutti i detenuti, rinchiusi in un edificio circolare, sono sempre visti da qualcuno, ma non vedono il loro osservatore.
L’immagine del Panopticon è forse quella più vicina alla società del controllo così come si è venuta strutturando nel mondo che viviamo: infinite telecamere ci seguono, lasciamo tracce elettroniche in ogni momento usando una carta di credito o mandando un SMS, e non sappiamo chi può usare queste informazioni, utilissime per chi intende controllarci continuamente.
Due grandi immagini continuano ad accompagnare la discussione dei nostri tempi: il Grande Fratello di George Orwell, che incarna una delle grandi utopie negative del Novecento, e appunto il Panopticon. Forse è proprio quella indicata da Bentham (l’osservatore che non è visto dalle persone osservate) che coglie meglio la situazione che abbiamo di fronte. Da queste brevi indicazioni si può cominciare ad intuire perché Foucault abbia posato il suo occhio impietoso e analitico proprio sul Panopticon. Ma Bentham non si era limitato a ipotizzare una sorveglianza soltanto delle persone devianti, che vengono rinchiuse in un carcere e devono essere osservate in ogni momento della giornata: aveva esteso questo suo modo di considerare la società a quasi tutte le attività svolte dalle persone.
Questo è il punto chiave della riflessione di Foucault: la vita che diventa oggetto del potere, un potere difficile da controllare, che si serve di dispositivi molteplici, di molti modi per realizzare l’obiettivo di piegare non solo la persona ma la sua intera vita ai bisogni del potere medesimo.

martedì 17 gennaio 2012

Le passanti


Per chi, come me, cammina spesso a piedi da solo – le passanti sono le figure principali di tutta la cosmologia terrestre tipica del flâneur.
A noi passeggiatori infaticabili e solitari non frega granché dei palazzi, dei negozi, di qualsiasi edificio. E non frega neanche dei passanti; quella è gente anonima di cui non ricordi né volto, né altro.
A volte ci si ferma al sole, a volte si guarda il mare e non voglio disprezzare questi amici della natura. Solo che spesso, molto spesso, essi sono solo paesaggio.
Le passanti sono donne che si incontrano per caso, di cui incrociamo lo sguardo per un attimo soltanto e che, per chi sa quale mistero, ci colpiscono, ci rimangono dentro.
È una cosa affascinante, non è un fenomeno frequente, al contrario, però quando capita è qualcosa che mi spinge alla riflessione e che non dimentico.
Otto nove anni fa, mentre tornavo da Napoli, vidi una ragazza sul marciapiede. Giovane, forse slava, la guardai e i nostri occhi si incontrarono per non più di qualche secondo. Eppure a me sembrò che il tempo si fermasse, a me quello sguardo m’è rimasto dentro e lo ricordo perfettamente. Uno sguardo infinito, il tempo dilatato, e ricevere un’intensità sconvolgente, un’espressione di una malinconica bellezza e soprattutto, in quegli occhi, un’affinità che mi diede i brividi.
Tante volte mi sono pentito di non essermi avvicinato a quella ragazza. Forse lei sapeva delle cose su di me che io stesso ignoro, forse c’eravamo incontrati in un’altra vita, forse lei era la mia metà che disperatamente mi cercava, forse ebbi timore perché era una prostituta…chissà che fine ha fatto… Spero che se la sia cavata in qualche modo e sogno che sia riuscita a fuggire da quella vita…
Ora vado ad ascoltare la splendida canzone di Fabrizio De André intitolata, appunto, Le passanti.
Io, intanto, posto qui il testo perché ho tanta voglia di includere Le Passanti di Faber nelle poesie che amo di più e non me ne frega un cazzo se sia la libera interpretazione di una poesia francese.

LE PASSANTI

Io dedico questa canzone
ad ogni donna pensata come amore
in un attimo di libertà
a quella conosciuta appena
non c'era tempo e valeva la pena
di perderci un secolo in più.

A quella quasi da immaginare
tanto di fretta l'hai vista passare
dal balcone a un segreto più in là
e ti piace ricordarne il sorriso
che non ti ha fatto e che tu le hai deciso
in un vuoto di felicità.

Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l'unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.

A quelle che sono già prese
e che vivendo delle ore deluse
con un uomo ormai troppo cambiato
ti hanno lasciato, inutile pazzia,
vedere il fondo della malinconia
di un avvenire disperato.

Immagini care per qualche istante
sarete presto una folla distante
scavalcate da un ricordo più vicino
per poco che la felicità ritorni
è molto raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.

Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.

Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere.

lunedì 16 gennaio 2012

RISPETTO: una parola rubata

[dal grande Snack; s'i gruoss' guagliò!]

Parole rubate.
Sembra strano, ma si posso rubare anche le parole. La società della malavita organizzata, quella merda della camorra ha rubato, per esempio, la parola rispetto.
Intanto, il rispetto ce lo riprendiamo noi. Rispetto significa riconoscere l’importanza o il valore di qualcuno a livello morale o sociale. Secondo il vocabolario, rispetto significa: sentimento di deferenza e di stima nei confronti di una persona ritenuta degna; sentimento che induce a riconoscere i diritti, il ruolo, la dignità, il decoro di persone o di cose e fa astenere dal recare loro offesa.
Come può un essere criminale, uno che si è appropriato di beni di altri, che ha ricattato, ha rubato, minacciato, ha ucciso per rubare, solamente usare questa parola?
È sanguisuga, è parassita, è assassino, come può ricevere o avere rispetto?
Può fare paura, ma non avere rispetto. So’ ddoje cose diverse.
La parola rispetto se l’è rubata, non è sua. Intanto, il rispetto ce lo riprendiamo noi.
Chi lo merita, naturalmente, eh… Mica e ‘na pazziella…vabbuo’?

domenica 15 gennaio 2012

Il casotto dei saltimbanchi

[posto questa ecfrasi perchè m'è piaciuta da morire]

L’adunco naso del Pulcinella e la sognante, paffuta, giovane ballerina dal ventaglio. La malizia e l’innocenza si confrontano. La maschera che dà sicurezza e la disarmata identità alla luce del sole.
Due modi di guardare. Cosa? I saltimbanchi, cioè le fatiche del vivere, la vita. Eccoli, a testa in giù, quelli che adattandosi a mille contorsioni si sudano la pagnotta.
Pulcinella è interessato, pensa a come approfittarne; l’altra, che coi saltimbanchi ci lavora, non li vuole vedere; è stanca di vederli umiliarsi, vendere i loro talenti per quattro soldi.
E anche il figlio di Pulcinella, che è nato con la maschera, non è interessato allo spettacolo. Non ancora. Essendo nato con la maschera addosso, non passerà molto prima che si abitui ad usarla come un’arma. Pulcinella si avvantaggia perché non sai mai che espressione nasconde, non puoi mai guardarlo negli occhi. Lui può con te…
Pulcinella si avvantaggia con la furbizia, è l’uomo da una sola espressione, di cui non ti puoi fidare. È quello che ti imbroglia, è quello che dice la verità mentendo e le bugie come fossero vere.
Ed ecco che il pittore mostra il pubblico dietro i saltimbanchi; variegato, chi indossa una maschera, chi no. Le donne, no. Le dipinge ben visibili, in primo piano, senza maschera.
Però, Giandomenico Tiepolo, pittore veneto, dipinge nel ‘700 un ciclo di affreschi per la sua villa in cui i Pulcinella erano protagonisti. Convinto che Pulcinella non fosse napoletano o veneto, ma universale. E forse Tiepolo… sentiva che il carnevale è una metafora di tutto l’anno quando, finiti i coriandoli, trombette e festoni, a sorpresa qualcuno la maschera non se la leva…
E qualcun altro… finirà saltimbanco.

venerdì 13 gennaio 2012

SIETE DEI PORCI SCHIFOSI [Cosentino & Referendum]


Fanno schifo, ho il voltastomaco.
Questi stronzi di merda hanno salvato il loro degno compare Cosentino e con losche e squallide manovre hanno affossato pure i referendum sulla legge elettorale.
Fanno schifo.
Su Cosentino vi consiglio di leggere l’articolo che Roberto Saviano ha scritto su Repubblica. Io non ho niente altro da aggiungere, è scritto tutto lì con il solito coraggio dettato dalla dignità e dall’amore per il proprio Paese. Riprendendo un po’ lo stile di Zola e dell’articolo su Dreyfus, Saviano dice a Cosentino di non gioire troppo, di risparmiare il fiato. Perché noi sappiamo, noi campani sappiamo chi sei, sappiamo di chi sei amico, sappiamo come prendi e gestisci i voti, sappiamo come distruggi la nostra Terra con la munnezza, sappiamo che ti hanno salvato perché sei potente e li tieni per le palle. Sappiamo tutto e sappiamo che ora te la sei cavata, ma che un giorno pagherai le tue malefatte.
Concludo dicendo che ‘sti radicali m’hanno rotto il cazzo. Parlano, parlano e alla fine in ogni porcata c’è la loro firma. Stronzi chi vi vota. Stesso discorso per i leghisti, ma lì è un fatto conclamato.
Sui referendum che c’è da dire? Hanno ignorato più di un milione e duecento mila firme dei cittadini italiani. Di Pietro ha accusato Napolitano e il presidente della repubblica si è offeso.
No, caro Napolitano, c’entri anche tu. Tu sei il primo colpevole di questa schifosa sentenza.
Come scrive giustamente Marco Travaglio parlando dei giudici che hanno bocciato i referendum “…da un anno e mezzo sappiamo che nel settembre del 2009 sei di quei giudici, esattamente come han fatto la scorsa settimana, avevano anticipato il loro voto favorevole alla porcata Alfano ad alcuni faccendieri della P3, che disponevano di loro a proprio piacimento. Due di quei giudici addirittura organizzavano cene con i promotori della porcata (Berlusconi, Letta e Alfano) che di lì a poco avrebbero dovuto valutare. Il capo dello Stato, assieme al Parlamento, avrebbe dovuto sollevare lo scandalo e fare in modo, in qualsiasi modo, che quei signori abbandonassero ipso facto i loro scranni. Invece tutti si voltarono dall’altra parte, lasciando intatta una Consulta ormai irrimediabilmente inquinata. Il lodo Alfano fu respinto per un pelo, grazie agli altri nove giudici. Ma poi i partiti hanno inserito nella Corte altri loro emissari e il risultato s’è visto ieri con il No ai due quesiti referendari.”
Bravi, bene, bis. Ora i partiti si fregano le mani, gioiscono, perché potranno nominarsi anche il prossimo Parlamento. Continuano a tirare la corda questi infami…spero per loro che non si spezzi…
Basta, non ho più voglia di scrivere. Voglio solo dire che noi italiani non possiamo indignarci come fanno i vecchietti francesi, o fare gli indignados metropolitani come fanno gli spagnoli. Forse francesi e spagnoli vivono in paesi più decenti, più normali e possono concedersi il lusso di indignarsi.
Noi italiani siamo nella merda, governati da mafiosi, affaristi e loschi figuri di varia natura. Noi italiani ci dovremmo INCAZZARE, ma INCAZZARE sul serio porca puttana!

giovedì 12 gennaio 2012

Libri che non comprerò mai


Ho compilato una lista di libri che non comprerò mai.
I motivi per cui non compro un libro sono i più disparati. Perché non mi piace l’autore (Zafòn, Colette), perché non mi ispira il titolo (e di solito sono i titoli che solo a leggerli mi viene il latte alle ginocchia), perché non me ne frega un cazzo dell'opinione dell'autore (Scalfari, Cazzullo), perché non mi piace il genere (fantasy, gialli), perché non mi ha convinto la quarta di copertina (e non succede quasi mai), perché schifo l’autore dal profondo del cuore (Bruno Vespa, Fabio Volo), perché odio i santoni (tipo Osho), perché sono donne che mi fanno venire la uallera (Mazzantini, Allende), perchè sono intellettuali sminchiati (Arbasino, Calasso), perché non mi faccio coglionare dall'industria editoriale (Isabella Santacroce, Melissa P.), perché scrivono porcherie immonde (Danielle Steele, Liala), oppure per semplice pregiudizio (e ricordate che i pregiudizi fanno bene alle natiche, alle na-ti-che, alle na-ti-che…).
Il senso di questa lista è stuzzicare i lettori che abbiano trovato belli i libri che posto, spronandoli magari a fare una breve recensione che mi faccia cambiare idea e mi spinga all’acquisto o, e sarebbe fantastico, raccogliere altri odi letterari.
Ciao e godetevi la lista.

Il profumo delle foglie di limone
Il terrazzino dei gerani timidi
Il tempo delle farfalle
Il senso di Smilla per la neve
Miriam delle cose perdute
I giardini degli altri
Diventa vegan in 10 mosse
La forza del destino
Le parole per dirlo
Il gusto proibito dello zenzero
Il puro e l’impuro
L’ombra del vento
Eterna giovinezza
Il silenzio dell’onda
La notte sarà calma
Il profumo
Sotto questo cielo intatto
Ingannata con dolcezza
Avevano spento anche la luna
Gabbiani sul Carso
Le radici del cielo
Lo scalpellino
La zia marchesa
L’anello forte
Guardami negli occhi
L'educazione delle fanciulle
Il principio dell'amore
Mia madre è un fiume
L' albergo delle donne tristi
È stato così
Essere senza destino
Luminal
Harry Potter e l'Ordine della Fenice
Il Codice da Vinci
Acciaio
Non ti muovere
L'Ingegnere in blu
Di ricordi si muore
Gli inganni del cuore
Va’ dove ti porta il cuore
La regina dei castelli di carta
È una vita che ti aspetto
In viaggio con la strega
Il cuore e la spada. Storia politica e romantica dell'Italia unita 1861-2011
I segreti della gioia
Dimagrire senza dieta
La mia anima è ovunque tu sia
Io e Dio
Veronika decide di morire
La ruga sulla fronte
Inés dell'anima mia

mercoledì 11 gennaio 2012

Freud e i sudici dèi


Stasera entriamo nello studio di Freud.
Sulla scrivania di marmo è schierato un esercito di demoni. Divinità egizie, etrusche, greche: Amon-RA con la testa di ariete, Iside con il figlio Horus in braccio, Pallade Atena…
Sono i demoni che Freud aveva davanti agli occhi quando scopriva il complesso di Edipo.
Trovo suggestivo immaginare l’atmosfera dello studio viennese di Berggasse 19, dove Freud scriveva i suoi libri e riceveva i suoi pazienti, scortati da questa folla di demoni. “I miei vecchi sudici dèi” li chiamava lui.
“Ho letto più di archeologia che di psicologia”, confessava lui stesso in una lettera allo scrittore Stefan Zweig. E altrove annotava: “Proprio come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordo dell’analizzato”. Lo psicanalista, dunque, come archeologo dell’anima. Ma quale antichità era quella di Freud? A volte la sua opera e la sua collezione di antichità sembrano illustrarsi a vicenda. Non stupisce di trovare un vaso greco che rappresenta Edipo di fronte alla Sfinge. E, forse, anche nella statuetta che mostra affiancati il faraone Amenofis I e sua madre, scoperta nella loro sepoltura comune, Freud potrebbe avere colto un aspetto edipico.
Di certo, davanti a questa ossessione per l’antico, si capisce come dalla sua scuola sia potuto uscire anche Gustav Jung, che le divinità pagane le infilava dappertutto. L’antichità di Freud è radicalmente anticlassica. Il suo idolo era Heinrich Schliemann, l’archeologo dilettante che, seguendo i sogni d’infanzia, aveva scoperto una grecità primitiva e favolosa, il mondo preistorico delle maschere d’oro dei re di Micene, così lontano dall’equilibrio apollineo celebrato dal neoclassicismo.
Usando Edipo come chiave per l’inconscio, in fondo, lo stesso Freud aveva contribuito a trasformare gli eroi antichi da paradigmi di un canone estetico o morale in simboli della dimensione più oscura dell’umano.
Concludo con un piccolo pensiero.
È stato rimproverato a Nietzsche (secondo me giustamente) di aver portato, soprattutto nelle sue opere giovanili, tra i Greci uno Schopenhauer che non ci fu. Altrettanto giustamente si potrebbe dire che alcuni autori portano tra i Greci un Freud che (fortunatamente) non ci fu.

martedì 10 gennaio 2012

Intermezzo con la Sfinge


Posto che la verità sia una donna -, e perché no? non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s’intendevano poco di donne? che la terribile serietà, la sgraziata invadenza con cui essi, fino a oggi, erano soliti accostarsi alla verità, costituivano dei mezzi maldestri e inopportuni per guadagnarsi appunto i favori di una donna? – certo è che essa non si è lasciata sedurre – e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì in attitudine mesta e scoraggiata.
La volontà di verità, il famoso spirito di verità di cui tutti i filosofi hanno parlato con venerazione.
Diventiamo un attimo diffidenti, rivoltiamoci; diamo una scossa ingestibile al pensiero. Che cosa in noi tende propriamente alla verità?
Approfondiamo giusto un poco.
Poniamoci la questione del valore di questa volontà. Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non, piuttosto, la non verità? E l’incertezza? E perfino l’ignoranza? – Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi – oppure siamo stati noi a farci innanzi a questo problema?
Chi di noi è in questo caso Edipo? Chi la Sfinge?

lunedì 9 gennaio 2012

Il vino dell'assassino

...com'è simile al sangue il vino rosso...non devo frequentare donne che non amino la poesia di Baudelaire...

Dopo aver appestato l'aria del blog con gentaglia del calibro di don Verzè, Berlusconi, ecc. - faccio opera di "penitenza" parlandovi del grande poeta Charles Baudelaire.
E per farlo ho deciso di omaggiarvi della poesia Il vino dell'assassino perchè così completo il post E lei venne! dove vi parlavo della splendida canzone del gruppo Il Teatro degli orrori ispirata a questo componimento baudeleriano (a proposito, questo mese esce il nuovo album).
Parond fa risalire la composizione di questa poesia a un periodo anteriore alla fine del 1843. Nel 1854 Jean-Hippolyte Tisserant (uno dei migliori attori dell'Odéon), scrisse a Baudelaire suggerendogli di trarre dalla poesia un'opera scenica; la sua tecnica dovette sembrargli molto vicina a quella teatrale. Il dramma L'ivrogne ("L'ubriaco"), si fermò, come molte opere di Charles, allo stato di progetto; la stesura del piano o "scenario" è oggetto di una lunga lettera che il poeta inviò all'attore il 28 gennaio 1854, riportata nell'edizione della Pléiade, nella sezione Théatre.
In entrambi i testi, nella poesia e nel progetto teatrale, la trama è molto simile alla storia dello studente Passereau nello Champavert di Petrus Borel. Unica, essenziale differenza, il movente del delitto: la gelosia di Passereau diventa, nella lirica di Baudelaire, un impulso oscuro, il gesto esasperato e liberatorio di una natura eccessiva, che l'alcool contribuisce a sconvolgere. Nel dramma, invece, il fattore gelosia doveva essere introdotto concretamente e avere un certo peso.
"Avrete già indovinato" scrive il poeta a Tisserant "che il nostro operaio si attaccherà con gioia al pretesto della propria gelosia sovreccitata, per nascondere a se stesso che si accanisce contro sua moglie per la sua rassegnazione, la sua dolcezza, la sua pazienza, la sua virtù. - Eppure la ama, ma il vino e la miseria hanno già alterato la sua ragione. - Inoltre, tenete presente che il pubblico dei teatri non ha familiarità con la psicologia del delitto, molto sottile, e che sarebbe stato quanto mai difficile fargli comprendere una atrocità senza pretesto."

IL VINO DELL’ASSASSINO

Mia moglie è morta, sono libero!
Posso bere finché voglio.
Quando rientravo senza un soldo
i suoi strilli mi laceravano le fibre.

Sono felice come un re;
l’aria è pura, il cielo è stupendo…
Fu in un’estate come questa
che m’innamorai di lei!

La sete orribile che mi tormenta
avrebbe bisogno, per placarsi,
di tanto vino quanto ne entra
nella sua tomba; - e non è uno scherzo,

perché l’ho buttata in un pozzo
e le ho pure ammucchiato addosso
tutte le pietre del parapetto.
- La dimenticherò, se posso!

Per quelle promesse di tenerezza
da cui niente può slegarci
e per riconciliarci
come ai bei tempi della nostra ebbrezza,

la supplicai d’incontrarci
di sera, in una strada oscura.
Lei ci venne! – pazza creatura!
Siamo tutti più o meno pazzi!

Era ancora attraente, benché
così stanca! e io, io
l’amavo troppo! Ecco perché
le dissi: Esci da questa vita!

Nessuno può capirmi. Ma chi,
fra tutti questi stupidi ubriachi
ha mai pensato nelle sue notti lascive
di poter fare del vino un sudario?

Questi crapuloni invulnerabili
come macchine di ferro,
mai, né estate né inverno,
hanno conosciuto il vero amore,

con i suoi neri incantamenti,
il suo corteo infernale di ansie,
le sue fiale di veleno, le sue lacrime,
i suoi rumori d’ossa e di catene!

- Eccomi libero e solo!
Sarò ubriaco fradicio, stasera;
allora senza paura né rimorso
mi stenderò per terra

e dormirò come un cane!
Il carro dalle ruote pesanti
carico di pietre e di fango,
il vagone infuriato potrà

schiacciarmi questa testa colpevole
o tagliarmi a metà. Me ne infischio,
io, come di Dio,
del Diavolo e della Santa Mensa!

sabato 7 gennaio 2012

Don Verzè, Silvio, Tiziana, Gabriella e una classica merdosa storia italiana [parte terza]


Nel 1995 don Verzè è condannato a cinque mesi in primo grado per abusi edilizi di “enorme cubatura” per opere eseguite senza o in difformità della concezione edilizia” (pena confermata in appello). Per lo stesso reato rimedierà un’altra condanna in primo grado nel ’98. Nel 1997, invece, il Tribunale di Milano lo condanna a un anno e quattro mesi per ricettazione di due quadri cinquecenteschi di gran pregio rubati in due chiese napoletane e fatte acquistare dal suo autista-prestanome (la Corte d’appello conferma, poi la Cassazione dichiara la solita prescrizione, ma rifiuta di assolverlo nel merito perché è accertato che “don Verzè era al corrente della provenienza illecita dei quadri”).
Poco dopo finiscono dentro cinque primari del San Raffaele per truffa al Servizio sanitario nazionale col trucchetto dei ricoveri inesistenti (almeno 15 mila) per lucrare sui rimborsi regionali non dovuti (8 miliardi di lire). Verzè li assolve, minaccia il procuratore Borrelli, poi santa prescrizione li salverà grazie all’ex Cirielli varata da Berlusconi.
Nel 2000 il prete furbo vola ad Hammamet per celebrare le esequie del latitante Bettino Craxi, in cui dice di aver “visto il Cristo”. È una fortuna che esista la Santissima Trinità, così può dire che in Berlusconi vede “un dono di Dio”. Lo Spirito Santo, più fortunato, resta libero. Formigoni deve accontentarsi dell’”arcangelo Raffaele”. E Nichi Vendola, che fino a un mese fa voleva appaltargli il San Raffaele del Mediterraneo a Taranto? Ha “il carisma del Signore” e “un fondo di santità”. Poi, quando viene indagato per la bancarotta fraudolenta da 1,5 miliardi, don Verzè paragona anche se stesso a “Cristo in croce”, tanto Cristo-Craxi è prescritto.
Ai suoi funerali, il “dono di Dio”, al secolo Silvio Berlusconi, non c’era. Ma ha parlato spericolatamente per tutti Massimo Cacciari, già preside dell’Università San Raffaele: “Diceva don Milani: se uno alla fine della vita ha le mani completamente pulite vuol dire che le ha tenute in tasca”. Meglio metterle nelle tasche degli altri.

Mi è sembrato doveroso pubblicare questa piccola storia di don Verzè. Ritengo sia utile rinfrescare più spesso possibile la nostra storia recente (e non solo), conoscere bene chi siano davvero queste merde che purtroppo ci affliggono e difenderci così dai mass media dei servi del Potere che ci rintronano la testa con tante stronzate.
E ora, come promesso, vi regalo una piccola chicca politica (la parte succosa è in grassetto).

L’avvocato Niccolò Ghedini è così impegnato a occuparsi delle beghe legali di Berlusconi che non ha mai tempo per andare alla Camera. Non a caso è l’ultimo classificato tra i deputati nel rapporto “Camere aperte 2011”, stilato da Open Polis sulla base di un indice di produttività e frequenza in aula. Gli fa compagnia, cinque posizioni sopra, l’ex triumviro Denis Verdini. In Senato, il fanalino di coda spetta al Pd Vladimiro Crisafulli, tallonato a breve distanza dai pidiellini Giuseppe Ciarrapico e Marcello Dell’Utri. In un Parlamento di nominati i leader di partito disertano l’aula. Tolto Di Pietro (12°), gli altri sono tutti nella parte bassa della classifica: Casini 253°, Bersani 547°, Berlusconi 550° e Bossi 568°. I nominati, invece, al posto ci tengono: a Montecitorio il primato per proposte di legge depositate spetta a Gabriella Carlucci.

Rendiamoci conto di dove cazzo siamo finiti, di come sia diventato squallido il Parlamento, siamo nelle mani di Gabriella Carlucci... poi parlano di crisi, di tasse, di sobrietà, di equità... ma porca puttana!

venerdì 6 gennaio 2012

Don Verzè, Silvio, Tiziana, Gabriella e una classica merdosa storia italiana [parte seconda]


E un falso marchiano sulle carte di volo dei piloti Alitalia: Milano2 diventa una grande chiazza nera di 700 mila metri quadri con una grande “H” che sta per Hospital, come se la lussuosa città residenziale di Berlusconi fosse tutta San Raffaele. La “H” dice ai piloti: girate alla larga di lì, sennò svegliate i malati. Come la No Fly Zone in Iraq: lì sopra non si vola. Così i prezzi dei terreni e delle case di Milano2 raddoppiano: da 200 a 400 mila lire al metro quadro.
Ma gli abitanti di Segrate stanno diventando sordi, non ciechi. E si ribellano con esposti e denunce. Li sostiene una cronista del Manifesto, che nel 1973 pubblica un’inchiesta dal titolo: “Per portare avanti la speculazione Milano2 prima rendono sordi i segratesi con i jet, ora li vogliono appestare con un immondezzaio”. E scrive: “Il problema vero non è quello “sonoro”, ma la puzza di marcio che ci sta dietro, le aree, la speculazione edilizia: è una barca molto grande, in cui ci son dentro tutti, la Regione, i democristiani e anche i socialisti… Ma la più sporca di tutte l’ha fatta il Vaticano che, con l’aiuto delle banche svizzere, ha appoggiato l’operazione Milano2 con l’insediamento nella zona dell’ospedale San Raffaele”. Il suo nome è Tiziana Maiolo e non è omonima della futura deputata di Forza Italia: è proprio lei, prima della folgorazione sulla via di Arcore. Ho fatto una piccola ricerca su questa Tiziana Maiolo. Giornalista del Manifesto negli anni '70, come abbiamo visto, nel 1990 è eletta al Consiglio Comunale di Milano nella lista "Antiproibizionisti sulla droga", legata al Partito Radicale di Marco Pannella. Il suo interesse principale all'epoca è in effetti la politica sulle droghe; è inoltre tra i fondatori dell'associazione Nessuno tocchi Caino per l'abolizione della pena di morte nel mondo; alle elezioni politiche del 1992 si candida da indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista per la Camera dei deputati, della quale entra nella Commissione Giustizia. Approfitta del suo incarico per farsi un'idea della situazione carceraria visitando diversi penitenziari italiani. A partire dal 1994 aderisce all'area di Forza Italia, con la quale è eletta alla Camera nel 1994 e nel 1996, entrando a far parte anche dell'ufficio di presidenza di Montecitorio. Diviene presidente della commissione Giustizia della Camera. Il 25 ottobre 2010 aderisce al movimento finiano Futuro e Libertà. L'8 febbraio 2011, intervistata durante il programma radiofonico 'La Zanzara' di Radio24, durante una puntata dedicata a "La morte dei quattro bimbi rom bruciati vivi a Roma due giorni fa", dichiara, suscitando clamore, che è più facile educare un cane di un rom. Infine torna nel PDL. Mi sembra un vomitevole caso di trasformismo all’italiana, nonché un pietoso caso umano.
Torniamo alla storia di don Verzè.
Nel 1974 il pretore di Monza Nicola Magrone condanna il direttore di Civilavia Paolo Moci per disturbo della quiete pubblica nei comuni danneggiati e definisce il San Raffaele “ospedale dai connotati molto ambigui”. Nel 1975, sul Giorno, Giorgio Bocca definisce don Verzè “quello che allontana gli aerei e cura non solo i malanni fisici, ma anche “le anime preternaturali” dei pazienti”, intanto nella vicina Milano2 “il prezzo al metro quadro passa dalle 150 mila alle 400 mila lire. L’arte dei grandi speculatori è avere molti complici”. Nel 1977 Camilla Cederna, in un’inchiesta su Berlusconi per l’Espresso, torna sul “prete trafficone e sospeso a divinis”.
Insomma, sono almeno 40 anni che su don Verzè tutti sanno tutto: Chiesa, giudici, giornalisti, politici, cittadini. Nel 1978, in un’interrogazione parlamentare, i deputati radicali Bonino, Faccio, Pannella e Mellini riepilogano tutti gli scandali (l’ultimo è l’incriminazione del prete furbo per aver truffato una signora sottraendole un appartamento da 30 milioni dell’epoca) e chiedono al governo “quali iniziative intenda prendere per impedire che il denaro pubblico finisca ancora una volta nelle mani di loschi gruppi di potere clericali che lo utilizzano per attività speculative e clientelari, sulla pelle degli ammalati” e “se intenda ricercare le connivenze e le responsabilità eventuali nell’amministrazione dello Stato che hanno determinato questa scandalosa situazione”. Invece il San Raffaele diventerà una holding camuffata da ente “senza scopo di lucro” e si espanderà in tutta Italia e in mezzo mondo, conquistando il record di contributi regionali fra gli ospedali privati della Lombardia. I processi a don Verzè e ai suoi fedelissimi non si contano più. Nel 1994, in piena Mani Pulite, finisce in carcere il direttore scientifico per una mazzetta di 70 milioni dalla Sigma Tau; di lì a poco lo raggiungono dietro le sbarre il vicepresidente Mario Cal (morto suicida qualche mese fa) e il direttore amministrativo Vincenzo Maricotti, rei confessi di mazzette da decine di milioni a due funzionari delle Imposte dirette per addomesticare un’ispezione contabile.

giovedì 5 gennaio 2012

Don Verzè, Silvio, Tiziana, Gabriella e una classica merdosa storia italiana [parte prima]

Prendendo spunto dalla morte di don Verzè, voglio narrare una classica storia italiana. Coprotagonista di questa squallida vicenda è Silvio Berlusconi; personaggio minore è l’incredibile (in senso dispregiativo) Tiziana Maiolo. Vista la “pesantezza” di questo spaccato di storia italiana del secondo Novecento, concluderò con una perla fantastica su Gabriella Carlucci da non perdere assolutamente (ringrazio, per la parte su don Verzè, il grande Marco Travaglio).

Nato a Illasi (Verona) nel 1920, a 28 anni don Luigi Maria Verzè diventa sacerdote. E subito dopo segretario di don Giovanni Calabria, il santo prete che assiste i bambini abbandonati e che nel 1950 lo manda a Milano, dove trova il cardinale Schuster e si occupa di scuole professionali per ragazzi in difficoltà e case-alloggio per anziani poveri. Nel 1958 fonda l’associazione “San Romanello del Monte Tabor” per l’assistenza ai più deboli. Finirà per curare i ricchi e i potenti e per esaltare, davanti a intervistatori genuflessi, “il carisma del denaro”. Nel 1961 compra un terreno al Parco Lambro e comincia a progettare una clinica privata, il San Raffaele. Ma la curia milanese lo scarica brutalmente per la sua disinvoltura negli affari e nella politica: nel 1964 il cardinale Colombo gli “proibisce di esercitare il sacro ministero”, cioè lo sospende a divinis: provvedimento confermato nel 1973.
Nel 1968 un palazzinaro di nome Silvio Berlusconi, titolare dell’Edilnord, gli regala 46 mila metri quadri dei 700 mila che ha appena acquistato per un tozzo di pane nel comune di Segrate per costruirvi la città satellite Milano2. L’area vale quasi zero, visto che lì a due passi c’è l’aeroporto di Linate e, a ogni ora del giorno e della notte, decollano e atterrano gli aerei. Proprio per la rumorosità della zona, è stata appena bloccata la costruzione del Nuovo Policlinico. Ma don Verzè confida nella Provvidenza, che per lui ha il volto di Silvio e degli amici politici. E per Silvio, che non regala nulla per nulla, l’appoggio del prete furbo verrà utile di lì a poco. Don Luigi avvia ugualmente i lavori per la clinica San Raffaele, grazie anche a un mutuo agevolato di 600 milioni di lire concesso dal governo amico democristiano. Che nel 1971, alla velocità della luce, trasforma la Monte Tabor in fondazione religiosa. Nel 1972 il ministro dc della Sanità Valsecchi riconosce alla clinica in costruzione lo status di “Istituto di ricovero e di cura a carattere scientifico”, ambitissimo quanto rarissimo per le cliniche private. Segue le generosa convenzione con l’Università di Milano. E i primi finanziamenti pubblici. Il tutto scavalcando la Regione Lombardia, dove l’assessore Vittorio Rivolta non vuole saperne di inserire il San Raffaele tra gli ospedali convenzionati, visto che è privo dei requisiti ospedalieri e scientifici: non ha il pronto soccorso, non fa ricoveri d’urgenza, ha problemi persino per gli interventi di appendicite. E non ha neppure la licenza di abitabilità. Peggio: il secondo lotto del San Raffaele è venuto su senza uno straccio di licenza edilizia. Lavori abusivi, insomma. Don Verzè pretende un altro miliardo e mezzo di fondi pubblici e, siccome Rivolta rifiuta, lo minaccia: “Ho le prove che il nostro lavoro è voluto da Dio, e Dio non si lascia irridere, dunque le consiglio di non molestarci oltre”. Poi tenta di corromperlo, promettendogli una stecca del 5% sulla somma richiesta. È il 1973. Quattro anni dopo sarà condannato a un anno e quattro mesi di carcere per istigazione alla corruzione (in appello lo salverà la prescrizione). Nella sentenza viene definito “imprenditore abile e spregiudicato inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli etici e penali”.
Intanto la speciale Provvidenza politico-affaristica che lo protegge fa un altro miracolo: la deviazione delle rotte Alitalia. Silvio e don Luigi, spalleggiati da fantomatici “comitati anti-rumore” creati ad hoc, presentano una petizione al ministero dei Trasporti perché dirotti altrove i voli degli aerei in partenza e in arrivo a Linate, per non disturbare gli abitanti di Milano2 e soprattutto i ricoverati del San Raffaele. Che però sono ancora quattro gatti: sia Milano2 sia il San Raffaele sono in costruzione. Ma basta ungere le ruote e il ministero si porta avanti col lavoro: nel 1972-’73 Civilavia (l’amministrazione dell’aviazione civile) sposta le rotte verso il comune di Segrate che invece è abitato da 200 mila persone, da prima che nascesse l’aeroporto. Nella sentenza del 1977 sul caso Rivolta, i giudici collegheranno la decisione a sospetti di “pressioni illecite, non esclusa la corruzione, sulle competenti autorità locali e centrali”. Così migliaia di cittadini si vedono piovere sulla testa gli aerei da un giorno all’altro, per proteggere la tranquillità di quelli di Milano2 e del San Raffaele che quasi non esistono. Per giustificare la porcata ad personam e ad pretem, basta qualche ritocco alle carte tipografiche (quelle di Pioltello e Segrate vengono retrocesse alla situazione del 1848, mentre Milano2 – ferma al 25% - risulta già completa).

mercoledì 4 gennaio 2012

Tutti gli aumenti del 2012 [ngul a chi ve mmuort]


PENSIONI
Cresce l’aliquota per gli autonomi


Nel 2012 per autonomi e precari aumentano i contributi previdenziali: per i primi l’aliquota passa dal 20 al 21,3% (arriverà al 23% nel 2018), per i secondi si arriva al 27,72% (2/3 a carico dell’azienda). Aumentata per tutti l’età per la pensione di vecchiaia (66 anni nel 2018) e per quella di anzianità: 42 anni e un mese per gli uomini, 12 mesi in meno per le donne, ma con penalizzazioni se ci si ritira prima dei 62. Qualcuno vedrà diminuire l’assegno futuri per l’applicazione del contributivo pro-rata. Da marzo in 450 mila dovranno rinunciare a ritirare la pensione in contanti, supera i mille euro.

CASA
Aumenta Imu e rendita catastale


Sulla prima casa una stangata da 11 miliardi di euro. È il gettito atteso dalla nuova Imu, la versione 2.0 dell’Ici: l’Erario aspetta la prima rata il 18 giugno. Per fare i conti sull’esborso finale bisognerà vedere cosa decidono i comuni per la parte di loro competenza, comunque l’aliquota ordinaria è dello 0,76% da applicare sul valore catastale maggiorato del 60%. Per le prime case, però, il prelievo è più leggero: aliquota allo 0,40% con una detrazione di 200 euro che aumenta di 50 euro per ogni figlio a carico sotto i 26 anni. È allo studio una riforma del catasto per rendere il sistema più equo.

LUCE, GAS E TV
Più care bollette e canone


Oltre ai prezzi in generale e al trasporto in particolare (senza contare la tassazione diretta), il 2012 è anche l’anno del balzello occulto: il canone Rai è aumentato di 1,5 euro per adeguarsi all’inflazione (e ai buchi di bilancio della tv di Stato) arrivando a 112 euro l’anno. Anche luce e gas quest’anno peseranno di più: per non entrare nei tecnicismi sulle bollette del 2012 peseranno un po’ l’aumento delle materie prime, un po’ le imposte, un po’ altre spese industriali che alla fine pagheranno gli utenti con un maggiore esborso, calcola Nomisma energia, di circa 53 euro a famiglia.

AUTO, BUS E TRENI
Anno nero per i trasporti


Per il trasporto il 2012 sarà un anno orribile. Quello pubblico locale (bus e treni) costerà di più quasi dovunque per ovviare ai tagli dei trasferimenti statali, quello privato sarà tartassato dagli aumenti: dal rincaro della Rc auto dovuto alle tasse locali (provinciali soprattutto) ai prezzi stratosferici della benzina pompati dai super-aumenti delle accise (8,2 cent al litro per la benzina e 11,2 per il diesel per un salasso da quasi 200 euro l’anno a guidatore); dalla stangata sui pedaggi autostradali varata l’ultimo dell’anno (20-25 euro in più cadauno) al superbollo sulle automobili da oltre 185kW.

TRANSAZIONI
L’imposta sale al 20%, bolli più cari


Da domenica 1 gennaio la tassazione su ogni forma di transazione finanziaria – esclusi fondi pensione, titoli di Stato e buoni postali – è passata dal 12,5 al 20%, stesso livello a cui ora è fissata l’aliquota dei conti correnti (prima era al 27%). Quest’anno cambia, cresce in proporzione al valore di mercato, anche il bollo sui conti titoli, mentre vengono colpite con una piccola aliquota anche le operazioni effettuate all’estero e i capitali già scudati da Tremonti. Sui conti in banca o alla Posta resta il bollo da 34,20 euro (per chi ha più di 5 mila euro) per i privati, da 73 a 100 euro per le imprese.

IRPEF E IVA
Contributo regionale su dello 0,33%


I dipendenti potrebbero sentire fin dalla prossima busta paga l’aumento delle addizionali Irpef concesso a regioni e comuni in cambio dei minori trasferimenti di risorse: i governatori potranno pesare sui loro cittadini per uno 0,33% in più (dallo 0,9 all’1,23% di aliquota base, ma quelli “in rosso” sforano il 2% complessivo), i sindaci addirittura per uno 0,8% (che in parte si paga subito, in parte con la dichiarazione dei redditi). Se poi il governo non trova 16 miliardi strutturali da qualche altra parte, da ottobre scatta l’aumento di due punti di Iva: arriverebbero al 23 e 12%.

martedì 3 gennaio 2012

Don Rusticucci e la folle idea di convertire quell'anticristo di Freud


Aveva piovuto per tutto il pomeriggio a Roma. Rattristato, contrariato da quell’inopportuno nubifragio, altro non m’era rimasto da fare che smozzicare bestemmie a mezza voce dietro i vetri della mia camera d’albergo.
Alle 19, finalmente, il fortunale cessò, indossai il giubbino, varcai la porta e scesi le scale di furia deciso ad a godermi la Roma by night che per troppe ore mi era stata negata.
Il Lungotevere, su cui avanzavo lentamente per godermi la folla e respirare la deliziosa aria romana pulita dalla pioggia, era costellato di grandiose pozzanghere. Per non portarvela alla lunga, vi dirò che a un tratto finii con la gamba destra in una di quelle pozzanghere, che in realtà era una fossa, profonda forse un metro, e stramazzando sul fianco ebbi la certezza di essermi azzoppato. Addio passeggiata, mi dissi.
Due vigili di passaggio fecero venire un’ambulanza che mi depositò al primo pronto soccorso, a Via della Consolazione.
Mentre ero sul letto, aspettando che mi facessero la radiografia, piombò in corsia un prete enorme, affannato e con la sigaretta in bocca. Si presentò, dicendo di chiamarsi don Rusticucci, e si sedette, schiacciante, in fondo al mio letto. Vide che avevo in mano Al di là del principio di piacere di Freud e sorrise compiaciuto.
Aveva una bella chiacchiera ‘sto don Rusticucci. Mi chiese dell’incidente, mi parlò di Roma, del papa, della sua vita. Io quasi non lo ascoltavo, mi limitavo ad annuire e a rispondere a monosillabi. Finché don Rusticucci non disse che era direttore del centro romano dell’IPPAC.
L’IPPAC? L’avevo già sentita questa sigla. Mi pareva di aver letto un articolo che definiva l’IPPAC “un tumore che prolifera in tutta Europa, anche se origine e ispirazione sono di oltre Atlantico.” IPPAC vuol dire Istituto per la Promozione della Psicoanalisi Cattolica. Fondata nel Messico da Gregorio Lemercier, in Italia ha preso piede abbastanza tardi; don Rusticucci, era chiaro, ci si era buttato con furore missionario. Si trattava, disse, di assicurare alla Chiesa l’ideologia del secolo. Calvino, Rousseau e Marx al confronto erano dilettanti. Le loro eresie innocua letteratura. Si trattava di convertire l’Anticristo, di battezzare Freud. Ma siamo a buon punto, chiosò Rusticucci.
“Chi ha la psicoanalisi ha il mondo” tuonò il prete, lanciando sguardi terribili sull’uditorio, ossia, oltre me, i tre o quattro poveretti che stavano allibiti nei loro lettini, nella sala comune, due di loro con le gambe appese alla carrucola.
Continuò a parlare e mi spiegò che l’impresa di convertire l’Anticristo psicoanalitico, cioè di infarcirlo di personalismo alla Gabriel Marcel e di evoluzionismo alla Teilhard de Chardin, era uno dei vanti dell’ala destra del fronte cattolico progressista. Gli epigoni di Padre Richard a Lovanio, di Padre Gemelli a Milano, avevano contribuito a questa brillante contaminatio, a cui non erano estranei i neo-tomisti della Sertillanges-Equipe di Parigi e i teologi della scuola di Assisi, erede delle iniziative laico-ecclesiastiche di don Giovanni Rossi. La Loyola University di Chicago, nella sontuosa rivista “Unconscious and Sacrament”, si occupava di divulgare l’impresa con patinata ricchezza di statistiche e diagrammi.
Il movimento ha come motore e finanziatore l’IPPAC, ma rappresentanti e zelatori ovunque nella gerarchia: “tanto più che”, fece notare il disinvolto Rusticucci, "il Papa è benedettino", come i benedettini psicoanalitici di Cuernavaca, i figli di Lemercier. Tutto a vele gonfie, e con i migliori auspici di ulteriori sviluppi, se si trascurava la rituale divisione fra freudiani e junghiani, riprodottasi puntualmente in seno ai convertiti. Ma Rusticucci ignorava queste piccolezze.
Il suo programma è oltranzista, si rifà all’esegesi biblica, al testo del Genesi:
“La psicoanalisi al servizio della Chiesa, da nemica divenuta ancella, ci risolve, capisci?, il più gran problema della fede. Quale problema? Eh? Quale? Domandatelo a sant’Agostino! Come poté Adamo concepire il male se era creatura perfetta, di un autore perfetto? Il Genesi tira fuori il Serpente, ma il problema si sposta, non si risolve. Il Diavolo, il Serpente, mica poteva essere stato creato diavolo da Dio. E se si era fatto diavolo da sé, chi (domanda precisamente Agostino) gli aveva messo in corpo la voglia di farsi diavolo? Sicché, unde malum?
Unde malum, vi domando. Donde viene nelle creature di Dio il male, il peccato? Pascal scrive che lo scoglio del peccato originale è nella trasmissione del castigo a tutta quanta l’umanità. Nei secoli.
Povero uomo. Non vedeva che il vero problema è questo, “come” il peccato fosse stato possibile.
Ebbene. All’EUR, l’anno scorso, al congresso nazionale dell’IPPAC, Vittorio Rusticucci (sì, io che vi parlo, amici belli) ha preso la parola per proporre la soluzione. E la soluzione è semplice: l’inconscio. L’in-con-scio! In me, in voi, in Adamo, in Eva, nel Diavolo che vi porti!”
L’incongrua allocuzione terminò in una risatona che ne tremarono i vetri della sala. Rise fragoroso l’erculeo Rusticucci, dovetti ridere io, risero contagiati senz’avere capito niente gli altri pazienti nei loro letti.
L’infermiera sopraggiunse con un vassoio e distribuì petto di pollo, carote e acqua naturale. Era una piacevole donnetta coi capelli rossi, il seno prosperoso, la faccia inequivocabilmente ciociara. Don Rusticucci l’agguantò per la vita, la sollevò che quasi le fece toccare il soffitto, si voltò verso di me e disse: “Mbè, giovanotto? Pensa che ci sono preti che rimpiangono le suore negli ospedali…”

lunedì 2 gennaio 2012

La feroce dolcezza filosofica di Apollodoro

(David, La morte di Socrate)

Apollodoro era una persona molto dolce, capace di dare tutto se stesso alle persone che amava e nelle cose in cui credeva.
La prima volta che lo incontrai fu all’inizio del Fedone, quando Echecrate enumera gli amici che erano presenti il giorno della morte di Socrate.
Apollodoro viene descritto come il più scosso tra i presenti, talmente sopraffatto dal dolore che il pianto gli impedisce di proferire parola. [“E Apollodoro, che già anche prima non avea mai lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi, e tanto piangeva e gemeva che niuno ci fu di noi lì presenti che non se ne sentisse spezzare il cuore…” Fedone 117 d3-4]. È talmente stravolto che è Socrate stesso a consolarlo, accarezzandogli la testa.
Credo che fu questo grande amore che Apollodoro provava per Socrate, la ragione per cui Platone fece di Apollodoro il narratore del suo dialogo più bello (che parla appunto di eros), cioè nel Simposio.
Apollodoro fu “ricordato” anche dal pittore Jacques-Louis David nel celebre quadro La morte di Socrate, ed è il giovane coi riccioli biondi che si dispera addossato al muro.
Io lo ricordo perché nelle fasi iniziali del Simposio dice una cosa che mi ha sempre colpito, sia perché è espressione di un amore eccezionale per la filosofia, sia perché interpreta alla perfezione quello che ho sempre pensato anche io.

Per mio conto, ogni volta che ragiono io stesso o ascolto qualcun altro ragionare di filosofia, ne provo una gioia straordinaria, anche a prescindere dal vantaggio che credo di cavarne; invece, quando mi tocca ascoltare altri generi di discorsi, e in special modo i vostri (di voi che siete gente ricca, dedita agli affari), io mi annoio e voi mi fate pena, amici miei, che vi illudete di essere attivi e in realtà non combinate nulla. Voi forse mi giudicherete un disgraziato, e penso che pensiate il vero; ma io di voi non lo penso: lo so. [Simposio 173 c-d]