domenica 29 gennaio 2012

Zelig

Che mestiere fa?
Io? Sono uno psicoanalista.
Ah, sì?
Lavoro soprattutto con i paranoici.
Me ne parli.
Oh, non c’è molto da dire. Lavoro soprattutto in Europa, e ho scritto parecchi articoli di psicoanalisi. Ho studiato molto. Ho lavorato con Freud a Vienna. Il nostro disaccordo è iniziato sull’invidia del pene. Freud sosteneva che dovesse essere limitata alle donne.

L’idea di Woody Allen di forgiare il personaggio di Leonard Zelig come uomo camaleonte è stupenda. Un uomo talmente fragile da superare qualsiasi limite di conformismo.
L’idea, poi, di realizzare questo film come se fosse un documentario è altrettanto azzeccata. Anche se, in effetti, documentario rende l’idea dal punto di vista tecnico, ma in realtà la grandezza di questo film è che esso diventa un film-libro.
Zelig è più simile ad un libro che ad un film perché la poesia, il significato, la bellezza della parola e dei concetti è come quella di un libro. Qui gli effetti speciali non sono quelli spettacolari della cinematografia, ma quelli emozionanti di un romanzo di Dostoevskij.
Tanto è vero che il divertimento, l’ironia, il dolce amaro humor ebraico appartengono alla parola, al racconto e non alla “scena”. Penso, per esempio, al racconto della sinagoga, del rabbino e del significato della vita; alle parole del padre di Zelig in punto di morte; alla famiglia che viene picchiata da tuta la città, ecc.
Il “malato” Zelig diventa, ovviamente, un mostro da dare in pasto alla stampa e un fenomeno da baraccone in mano a gente perfida che lo espone per denaro al ludibrio della gente.
Viene condotto in una clinica e qui preso in cura dalla dott.ssa Eudora Nesbitt Fletcher che è l’unica a prendersi a cuore il paziente. Gli altri professoroni si limitano a visite superficiali e a diagnosi completamente sballate.
Solo l’amore di Eudora è in grado, attraverso estenuanti tentativi e ad un’intuizione geniale, di guarire Leonard Zelig e questo è uno dei messaggi più importanti del film.
I momenti più impagabili, invece, sono le sedute psicoanalitiche tra Eudora e Leonard, quando lei lo ipnotizza e lui alza il braccio come se a parlare fosse un inconscio nazista.
Quando è ipnotizzato, Leonard riesce a dire delle cose che normalmente non dice. L’odio per la campagna, gli odiati, odiatissimi pancake e riesce anche a confessare quello che prova per la dottoressa.
A questo punto io mi sono soffermato a pensare.
Perché molto spesso non riusciamo a dire quello che veramente pensiamo? È solo per timidezza? È la timidezza che ci salva in molte occasione, tenendoci al riparo da scontri e polemiche, o è solo una fottutissima barriera che ci impedisce di essere noi stessi? Si rischia di impazzire a cercare sempre di indossare quella maledetta maschera e di non riuscire ad essere veramente sinceri? Siamo tutti conformisti, quindi, chi più chi meno?
Bah, non lo so. La pianto con gli interrogativi e vedetevi questo Zelig di Woody Allen.
È un capolavoro assoluto.

2 commenti:

  1. E' la paura di sentirsi o apparire deboli, è l'insicurezza che nasce dal sentirsi fragili e senza difese. Ma ci si può lavorare su questo. Poi ci sono i codardi, che vivono una vita falsa e continueranno a farlo in eterno, pur rendendosene conto.
    Chi ha paura di se stesso, degli altri, di soffrire, si rende conto che così facendo perde tante cose, si rende conto che così spreca inutilmente occasioni e vita, quindi a un certo punto, una volta acquistata questa consapevolezza, inizia un duro lavoro di crescita, impara a fidarsi di se stesso e vince la battaglia contro i propri limiti. Il codardo continuerà a lamentarsi della sua vita e a sbagliare, ma non vi porrà mai rimedio. Chi ha paura fa male soprattutto a se stesso, il codardo di solito anche agli altri.

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    1. Credo che questo lavoro (o lavorìo) di cui parli, sia una della più importanti "missioni verso se stesso" che l'essere umano possa mai intraprendere.

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