venerdì 27 aprile 2012

Qual è quella poesia...


...che Nanni Moretti legge nel bel film La stanza del figlio? Questo mi chiesi alla fine della scena in cui il caro Nanni la legge a letto alla moglie.
Indagai e scoprii che si trattava di The toes di Raymond Carver. Ovviamente corsi in libreria e acquistai il libro Il nuovo sentiero per la cascata e da allora in poi Carver è diventato uno dei miei scrittori preferiti, anche perché predilige scrivere racconti, genere che io amo alternare con i grandi romanzi.
Non saprei dare un’etichetta a Carver. Non sono bravo con queste cose da critico letterario. So che le etichette piacciono molto alla gente che adora classificare l’arte, la musica e gli scrittori in comode caselle.
Quello che posso dire è che Carver scrive storie di vita quotidiana. I suoi personaggi sono gente comune, gente che vive soffre lavora in ogni angolo di questo fottuto mondo. Scrive di me, di te e di noi.
Ha uno stile semplice, oserei dire normale se non fosse che la gente alla parola "normale" si deprime perché vuole sempre i fuochi d’artificio, l’artista pazzo omicida scopatore.
Regalo questa poesia perché mi piacciono i “dialoghi” che i poeti intrattengono con il proprio corpo. Questo corpo che noi bistrattiamo, che non consideriamo, di cui un po’ ci vorremmo liberare. Personalmente mi capita spesso di ragionare con il mio cervello, soprattutto di sgridarlo quando non capisco le cose e con il mio cuore. A volte mi son sorpreso a dirmi: ehy, vecchio cuore mio, dove sei? che fai?
Ok, passiamo alla poesia di Carver e non so sugli altri che effetto avrà… a me ha fatto venire voglia di farmi un pediluvio rilassante e di accarezzarmi le dita dei piedi.
Poveri piedi miei, quanti kilometri abbiamo fatto… in quanti posti siamo stati, quante camminate passeggiate scarpinate partite a pallone. Quanto vi ho maltrattato con il mio peso eccessivo.
È anche per ringraziarvi di tutto, voi umili e generosi, che posto questi versi.
Buona lettura.

The toes [Le dita del piede]

Questo piede non mi dà altro
che guai. Il tallone,
l’arco, la caviglia… v’assicuro
che mi fa male quando cammino. Ma
sono soprattutto queste dita
che mi preoccupano. Queste
“articolazioni terminali” come sono
altrimenti note. Com’è vero!
Per loro non c’è più il piacere
di tuffarsi a capofitto
in un bagno caldo o
in un calzino di cashmere. Calzini di cashmere
o niente calzini, pantofole, scarpe o cerotti
Ace, ormai è tutto uguale
per queste stupide dita.
Hanno perfino un aspetto assente
e depresso, come se
qualcuno le avesse imbottite
di torazina. Se ne stanno lì rannicchiate,
mute e attonite… oggetti
scialbi e senza vita. Ma che diavolo succede?
Che razza di dita sono queste
che non gliene frega più niente di niente?
Ma sono ancora le mie
dita? Si sono forse scordate
i vecchi tempi, che cosa voleva dire
esser vive allora? Sempre in prima
fila, sempre le prime a scendere sulla pista da ballo
appena attaccava la musica.
Le prime a saltellare.
E adesso, guardatele. Anzi, no.
Non vorrete certo guardarle,
‘ste lumache. È solo a prezzo di dolore
e con difficoltà che riescono a rievocare
i tempi d’una volta, i tempi d’oro.
Forse, quel che vogliono in realtà
è tagliare tutti i collegamenti
con la vita di una volta, ricominciare,
darsi alla clandestinità, vivere da sole
in una casa di riposo principesca
da qualche parte della valle di Yakima.
Eppure c’era un tempo
che si tendevano
per il desiderio,
che veramente
bastava la minima provocazione
per farle inarcare
di piacere.
Sfiorare con la mano
una gonna di seta, per esempio.
Una bella voce, un tocco
sulla nuca, addirittura
uno sguardo di sfuggita. Qualsiasi cosa!
Il rumore di occhielli
sganciati, di corsetti
sbottonati, di vestiti lasciati cadere
sul parquet freddo.

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