sabato 24 dicembre 2011

Non l'ho trovato, ma di sicuro non me lo perdo. Ovvero, leggo lo Zhuāngzǐ


Sempre con l’intento di allargare la mia cultura personale il più possibile, sto leggendo uno dei classici del pensiero cinese: il Chuang-tzu (se poi voleste fare i fighi dovrete dire Zhuāngzǐ).
L’espressione “allargare la mia cultura personale”, significa semplicemente che cerco di abbeverarmi anche alle fonti sapienziali e artistiche dell’Oriente e non rimanere confinato, come una pecora scema di guerra, nel recinto dei libri e dei pensatori Occidentali.
Finora ho letto i primi tre capitoli. Alcuni simboli, alcune storie (o parabole?), alcune metamorfosi di animali non le ho capite, sono sincero. Quello che però il mio intelletto riesce a cogliere è qualcosa di molto sublime, cioè di teoreticamente eccitante.
Vi do qualche piccola informazione tecnica, in modo che possiate farvene un’idea sommaria.
Scritto nel secolo IV a.C. e da sempre considerato uno dei tre grandi classici del taoismo, questo libro si presenta come una sequenza di storielle simboliche, apologhi, discussioni, ma nasconde fra le sue mobili pieghe innumerevoli altre forme: raccolta di miti e di aforismi, teoria del governo e della natura, silloge di aneddoti memorabili, prontuario sciamanico, fiaba, elenco di ultime verità.
La sua parola, alla maniera del vero taoista, “vive come se galleggiasse” – e, ogni volta, è un passo più in là di ciò che dice e di ciò che il lettore capisce. Qui i più sottili argomenti metafisici e logici vengono mirabilmente presentati e subito dopo accantonati con incuranza, come altrettanti giocattoli del Figlio del Cielo – quasi a dimostrarci l’angustia di quel che consideriamo essere il pensiero.
Indenni da ogni morbo morale, le pagine dello Zhuāngzǐ sottintendono che “la bontà e la giustizia sono soltanto locande di passaggio degli antichi sovrani” e che “il rito non è altro che un fiore superficiale del Tao, l’inizio del disordine”. Il loro modello è una ininterrotta metamorfosi, simile a quella del cielo e delle acque: la morte vi è assorbita con una disinvoltura quale mai più fu raggiunta. Se la maggior parte dei libri è dedicata a illustrare ciò che tutti conoscono: “l’utilità dell’utile”, il Zhuāngzǐ illumina ciò che nessuna sa: “l’utilità dell’inutile”. Dell’autore che diede il suo nome al Zhuāngzǐ sappiamo che visse nel Nord della Cina e “fu un perfetto taoista, se non altro perché unica traccia della sua vita è un libro scintillante di genio e di fantasia”, scriveva Marcel Granet. E sempre Granet precisava che “questo libro, tradotto e ritradotto, è propriamente intraducibile”.
Io voglio regalarvi questo passo che esprime in modo beffardo l’impossibilità per gli uomini di trovare la verità, di trovare un sapere che vada bene per tutti. Mi è sembrato di leggere un Waiting for Godot con gli occhi a mandorla.
Se io discuto con te e tu hai la meglio su di me invece che io su di te, hai forse necessariamente ragione e io necessariamente torto? E se io ho la meglio su di te, ho io necessariamente ragione e tu necessariamente torto? Ha uno ragione e l’altro torto, oppure abbiamo ragione entrambi o entrambi torto? Né io né te possiamo saperlo, e un terzo sarebbe nella stessa oscurità. Chi può decidere senza errore? Se interroghiamo qualcuno che è del tuo stesso parere, come potrà decidere, se è del tuo parere? Se è d’accordo con me, come potrà decidere, se è d’accordo con me? Lo stesso accadrà se si tratta di qualcuno che è insieme d’accordo con me e con te, o se è di un altro parere differente da entrambi. Allora né io, né te, né un terzo possiamo decidere.
Dovremmo attendere un quarto?

2 commenti:

  1. io, e so di essere stupida, oh mio dio quanto lo sono, io, dicevo, date le condizioni del mondo che ci siamo rappresentati e andiamo rappresentandoci, credo che la verità esista. L'infinito, il tempo, dio, l'eternità, che cosa ne sarà di noi, non hanno bisogno di verità, se non, per alcune, di dimostrazioni matematiche. La verità, in definitiva, li rimanderebbero nel nulla da cui sono venuti

    maria francesca

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