lunedì 23 aprile 2012

L'arte Informale

(Alberto Burri, Sacco SPI, 1956)

L’arte Informale nasce all’incirca negli anni 40’, ma entra nel dibattito artistico nel decennio successivo.
L’Informale non è stato né una scuola né una tendenza teorizzate; piuttosto una sorta di convergenza di maniere e di stili diversi tra loro uniti, però, dall’idea dell’avventura totale. L’Informale indaga sulle possibilità espressive ed emozionali della materia; ne evidenzia la struttura, ne esalta le ambiguità morfologiche, siano esse le trame di iuta, gli strati di colore sovrapposti o le raschiature, i grumi, i frammenti.
Le opere informali sono portatrici di una tensione che potenzia la volontà conoscitiva nel tentativo di raggiungere la misura della propria finitezza.
Ho scelto tre voci autorevoli per farci raccontare cosa sia l’arte Informale.
Il primo a parlare è Jean Dubuffet, pittore e scultore francese. Io le ho trovate parole veramente magnifiche che vale la pena di leggere; spero per voi altrettanto: “Il punto di partenza è la superficie da animare – tela o foglio di carta – e la prima macchia di colore o di inchiostro che vi si getta: l’effetto che si produce, l’avventura che ne risulta. È questa macchia, a mano a mano che la si arricchisce o la si orienta, che deve guidare il lavoro. Non si fabbrica un quadro come una casa, partendo da rilievi architettonici, ma volgendo la schiena al risultato – a tastoni! a ritroso! Non è fissando l’oro, alchimista, che troverai il modo di farlo, corri invece alle tue storte, fai bollire dell’orina, guarda avidamente il piombo, quel che ti serve è là. E tu, pittore, macchie di colore, macchie e tracciati, guarda le tue tavolozze e i tuoi stracci, in essi è la chiave che vai cercando!
Il modo in cui un colore viene applicato è più importante della scelta di tale colore.
A ben vedere, non ci sono colori ma materie colorate. Persino la polvere d’oltremare assumerà un’infinità di aspetti diversi se ad essa si mescolano olio, oppure uovo, latte, gomma. O se la si applicherà su gesso, legno, cartone o tela (e, naturalmente, ci sono tele di diversa qualità e preparazione). Liscia o ruvida. Più o meno opaca. Quel che c’è sotto traspare sempre un po’ ed entra nel gioco, anche se a occhio nudo è difficile accorgersene. Gli stessi colori usati indiscriminatamente sembreranno insipidi e, bene usati, carichi di senso. Non è poi molto importante impiegare del nero, del blu o del rosso per dipingere un viso o un albero, lo è molto di più fare del colore scelto un certo impiego.
Tanto che il mio quadro potrebbe esser dipinto con il solo nero (e non nero e bianco, nero e basta) – ma diversificato e applicato in mille maniere appropriate – senza perderci molto, mentre, riprodotto in tutta la gamma dei colori ma privato di questa diversità, non significherebbe più niente. I colori hanno meno importanza di quanto comunemente si immagini. Ne ha di più il modo di applicarli. Il materiale è un linguaggio. Non si dica che queste preoccupazioni per i mezzi tecnici trascinano l’arte su un terreno sensuale o artigianale che le è estraneo. Non è vero. Certo non è difficile trovare esempi di pittura in cui soltanto tali mezzi tecnici vengono chiamati in causa senza che l’ispirazione vi abbia parte alcuna, senza che lo spirito sia in gioco: diremo allora che sono usati male e insufficientemente.
L’arte deve nascere dal materiale. Ogni materiale ha il suo linguaggio, è un linguaggio. Non è il caso di aggiungergli un altro linguaggio o di metterlo al servizio di un linguaggio. Danza con il caso. Cominciare un quadro: un’avventura che non si sa dove vi porterà. L’interesse per l’artista sarebbe scarso se lo sapesse già in partenza, se dovesse eseguire un quadro già da prima completamente fatto nel suo spirito. Non è così; l’artista fa coppia con il caso; non è un ballo che si possa fare da soli, bisogna essere in due; il caso è della partita. Tira di qua e di là, e l’artista guida come può ma con dolcezza, attento a trar partito da tutto il fortuito a mano a mano che si presenta, a farlo servire ai suoi scopi, senza impedirsi di piegare un poco questi ultimi ad ogni occasione. Ma non si deve parlare propriamente di caso. In questa e in tutte le altre circostanze. Il caso non c’è. L’uomo chiama caso tutto quel che viene dal gran buco nero delle cause sconosciute. Non è proprio con un caso qualunque che l’artista è alle prese, si tratta piuttosto di un caso particolare, inerente alla natura del materiale impiegato. Il termine “caso” è inesatto; occorre parlare invece di velleità e di aspirazioni del materiale recalcitrante”.
(Jean Fautrier, Questo è come ti senti, 1958)
Proseguiamo con il celebre Lucio Fontana che nel 1947 redasse, insieme da altri artisti, il Primo manifesto dello spazialismo: “L’arte è eterna, ma non può essere immortale. È eterna in quanto un suo gesto, come qualunque altro gesto compiuto, non può non continuare a permanere nello spirito dell’uomo come razza perpetuata. Così paganesimo, cristianesimo, e tutto quanto è stato dello spirito, sono gesti compiuti ed eterni che permangono e permarranno sempre nello spirito dell’uomo. Ma l’essere eterna non significa per nulla che sia immortale. Anzi essa non è mai immortale. Potrà vivere un anno o millenni, ma l’ora verrà sempre, della sua distruzione materiale. Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia.
Ora noi siamo arrivati alla conclusione che sino ad oggi gli artisti, coscienti o incoscienti, hanno sempre confuso i termini di eternità e di immortalità, cercando di conseguenza per ogni arte la materia più adatta a farla più lungamente perdurare, sono cioè rimasti vittime coscienti o incoscienti della materia, hanno fatto decadere il gesto puro eterno in quello duraturo nella speranza impossibile della immortalità. Noi pensiamo di svincolare l’arte dalla materia, di svincolare il senso dell’eterno dalla preoccupazione dell’immortale.
E non ci interessa che un gesto, compiuto, viva un attimo o un millennio, perché siamo veramente convinti che, compiutolo, esso è eterno. Oggi lo spirito umano tende, in una realtà trascendente, a trascendere il particolare per arrivare all’Unito, all’Universale attraverso un atto dello spirito svincolato da ogni materia. Ci rifiutiamo di pensare che scienza ed arte siano due fatti distinti, che cioè i gesti compiuti da una delle due attività possano non appartenere anche all’altra. Gli artisti anticipano gesti scientifici, i gesti scientifici provocano sempre gesti artistici. Né radio né televisione possono essere scaturite dallo spirito dell’uomo senza un’urgenza che dalla scienza va all’arte.
È impossibile che l’uomo dalla tela, dal bronzo, dal gesso, dalla plastilina non passi alla pura immagine aerea, universale, sospesa, come fu impossibile che dalla grafite non passasse alla tela, al bronzo, al gesso, alla plastilina; senza per nulla negare la validità eterna delle immagini create attraverso grafite, bronzo, tela, gesso, plastilina. Non sarà possibile adattare a queste nuove esigenze immagini già ferme nelle esigenze del passato. Siamo convinti che, dopo questo fatto, nulla verrà distrutto del passato, né mezzi né fini, siamo convinti che si continuerà a dipingere e a scolpire anche attraverso le materie del passato, ma siamo altrettanto convinti che queste materie, dopo questo fatto, saranno affrontate e guardate con altre mani e altri occhi e saranno pervase di sensibilità più affinata".
(Jackson Pollock, Sette, 1950)
Concludo con un artista di quel periodo che amo molto: Jackson Pollock. Nelle sue opere c’è qualcosa che non saprei descrivere. C’è il caos, il delirio, eppure mi ci ritrovo. Come se mi trasportasse nel centro dell’uragano che io stesso sono: “Non lavoro partendo da disegni o schizzi. Dipingo direttamente. Di solito dipingo per terra. Mi piace lavorare su una grande tela. Mi sento meglio, più a mio agio con un grande spazio.
Con la tela per terra mi sento più vicino al quadro, ne faccio maggiormente parte. In questo modo posso girargli tutt’intorno, lavorare da ogni lato, ed essere nel quadro, come gli Indiani dell’Ovest che lavoravano sulla sabbia. A volte uso un pennello, ma spesso preferisco usare una stecca. Altre volte verso il colore direttamente dal barattolo. Mi piace usare il colore fluido, che faccio sgocciolare. Utilizzo anche sabbia, schegge di vetro, sassi, cordicelle, chiodi e tanti altri elementi estranei alla pittura. La tecnica pittorica si sviluppa naturalmente, a seconda della necessità. Voglio esprimere i miei sentimenti, non illustrarli.
La tecnica è semplicemente un mezzo per arrivarci. Quando dipingo, ho un’idea d’insieme di quello che voglio fare. Posso controllare la colata della pittura, non c’è casualità, così come non c’è inizio né fine. A volte perdo il quadro. Ma no ho paura dei cambiamenti, di distruggere l’immagine, perché un quadro ha una sua vita propria. Non m’interessa l’”espressionismo astratto” … e comunque non si tratta di un’”arte senza oggetto”, né di un’”arte che non rappresenta”. Io a volte ho molta capacità di rappresentare, anche se di solito ne ho poca. Ma se tu dipingi il tuo inconscio, le figure devono per forza emergere. Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare.
Io sono stato a lungo junghiano…
La pittura è uno stato dell’essere … La pittura è la scoperta di sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è".

2 commenti:

  1. A mio parere J. Pollock, poteva risparmiare di rovinare tele o altro. Lo considero sono un impostore-speculatore,prendendo in giro noi tutti. L'importante è trovare la maniera per fare SOLDI!!!

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    1. La maniera per fare soldi casomai è appannaggio del mondo-mercato che circonda l'arte.
      Tutta la passione, i pensieri, i dubbi, la fatica e il lavoro di Pollock fanno l'arte.
      Che può, poi, piacere o no.

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