La novità di un testo come il Manifesto del partito comunista non risiede tanto nella presa di coscienza dell'asprezza del conflitto sociale tra proletariato e borghesia, e neppure che tale conflitto è stato storicamente preceduto dalla lotta di classe tra schiavi e proprietari di schiavi e tra servi della gleba e feudatari.
La vera novità è nella nuova visione della realtà che Marx ed Engels oppongono alle ideologie liberali dominanti a quel tempo. Sempre così accade con i grandi filosofi. Loro non vedono cose nuove, ma sanno interpretare in modo nuovo la realtà presente. Sopratutto sanno sorgere contro le idee dominanti, perchè il pericolo non viene solo dai potenti e dal Potere, ma soprattutto dai fiancheggiatori che, in buona fede o no, sono i propagatori delle idee padronali. E vi fanno il lavaggio del cervello. In pratica loro vogliono convincervi che il palo che avete in culo è colpa vostra, che ve lo siete messi da solo. Svegliarci è un'antica e peculiare funzione del filosofo (una tra le tante). Proviamo a comparare le idee di Marx e di Engels con quelle dei liberali del loro tempo, può essere un confronto istruttivo.
Tocqueville riconosce lo stridente contrasto tra la spaventosa miseria di massa e l'opulenza di pochi e scrive: “Di qui lo schiavo, di là il padrone, di là la ricchezza di alcuni, di qui la miseria del più gran numero”. Tocqueville mette in guardia contro il pericolo delle “guerre servili”, cioè di sollevazioni di schiavi analoghe a quelle verificatesi nell'antichità classica. Insomma per lui lo “spettro del comunismo” evocato dal Manifesto sembra assumere le sembianze terrifiche di una sorta di Spartaco proletario e moderno.
Locke non ha difficoltà a constatare che “la maggior parte dell'umanità” è “resa schiava” dalle condizioni oggettiva di vita e di lavoro.
Mandeville non ha dubbi sul fatto che la “parte più meschina e povera della nazione” è destinata per sempre a svolgere un “lavoro sporco e simile a quello dello schiavo”.
Per Burke essa è impegnata in occupazioni non solo ”mercenarie” ma anche “servili”, cioè “proprie dello schiavo”.
Ma tutto ciò non incrina la buona coscienza delle classi dominanti e della borghesia liberale del tempo, la quale si libera del problema rinviandolo a una sfera extra-politica.
Scrive Marx nel 1844: “L'Inghilterra trova il fondamento della miseria nella legge naturale, per la quale la popolazione deve costantemente superare i mezzi di sussistenza e spiega il pauperismo con la cattiva volontà dei poveri, incapaci di resistere all'incontenenza sessuale”.
Si legge chiaramente la polemica marxiana contro Malthus, il quale, a sancire la restrizione della sfera politica, chiama paradossalmente l'economia politica. Una volta che essa sia divenuta “un oggetto di popolare insegnamento”, i poveri comprenderanno che devono attribuire alla natura matrigna e alla loro individuale debolezza o imprevidenza la causa delle privazioni che soffrono; “l'economia politica è la sola scienza di cui possa dirsi che dall'ignorarla sono a temersi non solo privazioni, ma mali positivi e gravissimi”.
Sulla stessa lunghezza d'onda si pone Tocqueville che ci regala questa perla:
“diffondere tra le classi operaie qualche nozione, tra le più elementari e più certe, dell'economia politica, che faccia loro comprendere, ad esempio, ciò che di permanente e di necessario vi è nelle leggi economiche che reggono il tasso dei salari; perchè tali leggi, essendo in qualche modo di diritto divino, in quanto scaturiscono dalla natura dell'uomo e dalla struttura stessa della società, sono collocate al di fuori della portata delle rivoluzioni”.
Secondo John Stuart Mill, i poveri devono essere dissuasi dal contrarre matrimonio e rientra tra i “poteri legittimi dello Stato” imporre un vero e proprio divieto.
Duro è il giudizio del Manifesto su siffatti economisti e nell'opera di Marx è spesso presente un'ironia contro l'economia politica così intesta: questa “scienza della mirabile industria” e della “ricchezza” si rivela come una “scienza di ascesi” e di “rinuncia”; l'ideale di questa economia politica è “lo schiavo ascetico ma produttivo”. (bauhauahauauauau)
La pretesa di mettere sul conto della natura matrigna la permanente miseria di massa ignora del tutto le crisi di sovrapproduzione che caratterizzano e investono il capitalismo. Su di esse conviene invece concentrare l'attenzione:
"Durante le crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti finiti, ma persino delle delle forze produttive già create. Durante le crisi scoppia un'epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un'assurdità: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generalizzata di annientamento sembrano averle sottratto tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti, e perchè? Perchè la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio".
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