giovedì 24 maggio 2012

Parole d'amore per Dante

Un pessimista spera sempre di avere torto perché non si può essere pessimisti e desiderare di aver ragione.
E oggi nel blog debutta messer Dante Alighieri attraverso le splendide parole d’amore dello scrittore Juan Rodolfo Wilcock (anch’egli al debutto).
Ho usato l’espressione “parole d’amore” non a caso, perché lo scritto di Wilcock non è né ragionevole né logico, ma irrazionale, estremo, travolgente e passionale come solo l’amore, il vero amore, può essere.
Le parole che seguono sono uno stralcio del pensiero che Wilcock aveva su Dante (e sulla poesia in generale) che mi ha molto colpito soprattutto perché per Wilcock Dante non è IL poeta o il poeta per antonomasia. Per lui Dante è l’ultimo e il più grande di tutti i poeti occidentali. E, attraverso queste meravigliose frasi, ci faremo un’idea del perché di questa forte e controversa affermazione.
“Che cosa significa per Lei, oggi, Dante?”, chiesero a Wilcock, che così rispose:
Poiché Dante fu il poeta massimo della letteratura europea, per me è come se mi domandassero: “Che cosa significa per Lei, oggi, la poesia?”.
La domanda su Dante, cioè sulla poesia, non solo mi riguarda, ma mi coinvolge.
Allo stesso modo coinvolge migliaia di persone che scrivono o hanno scritto poesie, che si occupano o si sono occupate di poesia. Non è una domanda locale, italiana: è una domanda intorno a una grande cosa finita, compiuta, senza seguito: la poesia in Europa, nelle due Americhe e in tutte quelle parti del mondo che si servono delle lingue europee. Non si tratta di Leopardi o di Torquato Tasso, si tratta del miglior poeta che ebbero le nostre lingue.
Ossia il più grosso produttore di un prodotto che non si produce più. La domanda interessa quasi tutti noi, perché fino a poco tempo fa quasi tutti noi partecipavamo, sia pure come consumatori, a questa produzione, o al suo simulacro, e l’abbiamo vista scomparire sotto i nostri occhi. Scomparire come mestiere per diventare vizio. Ora siamo in molti a sostenere che i vizi non vanno regolati, che si possono praticare in qualunque modo, e che di questo modo di praticarli si può pure parlare in pubblico. Che è lecito dunque dire che nella pratica del vizio poetico A. si dimostra più estroso di B., o che C. farebbe meglio a levarsi il vizio. Ma il mestiere era un’altra cosa.
Il mestiere consisteva nello scrivere «Dolce color d’oriental zaffiro» e consegnare al linguaggio quest’alba nuova e memorabile; il vizio sta nello scrivere di nuovo «Dolce color d’oriental zaffiro» e infilarcelo nel taschino, o legarlo alla coda del gatto; perché, dove altro possiamo metterlo? Dante si serviva della poesia per attestare la sua convinzione, gloriosa ma scaduta, che non siamo nati per vivere come bruti. Scaduta, dico: adesso sappiamo, o sospettiamo, di essere nati per vivere come bruti.
Perché? Immagino che la risposta, se sentimentale, potrebbe accennare alla morte di Dio; se concreta e statistica, all’aumento della popolazione e alla sua naturale conseguenza, la minaccia atomica. Un giorno la popolazione scemerà, le bombe scoppieranno o non scoppieranno, qualche sorta di Dio rinascerà, e avrà inizio un altro ciclo; col quale Dante forse non avrà nulla a che fare. Può darsi che sia stato il punto più alto di qualcosa che si chiamò poesia, in un ciclo ormai chiuso. Ma chiuso già ai tempi di Mallarmé e di Lewis Carroll: che non si illudano nemmeno i più pieni di buona volontà come Montale o T.S. Eliot di averne sfiorato i confini. Né gli altri che per bontà contribuirono a far credere ai giovani che il ciclo era ancora aperto.
Il pericolo peggiore (ma perché pericolo? Semplicemente prospettiva) è questo: che una miliardaria proliferazione di esseri umani, come dice Morante: «soprannumerari conciati, televisati e lustrati per la bomba atomica», estenda il nominalismo delle ideologie puerili a oggetti sempre più complessi, fino a mummificarli e convertirli in puri nomi, semmai connessi a piccoli riti: «San Marco», un posto dove si entra e dopo un quarto d’ora si esce; «Golfo di Napoli», golfo bello da guardare; «Debussy», musica che faceva la borghesia mentre decadeva; «Cechov», attività dei teatri sovvenzionati; «Shakespeare», varietà di dialoghi e vestiti del Seicento con delitti; «Picasso», disegni storti per appartamenti; «Tiziano», quadri per musei; «Leonardo», «Michelangelo» e «Raffaello», navi e geni; «Dante», poeta nazionale. E una volta svuotati di ogni senso, al contrario del Geova ebraico, di loro non sia permesso dire o sapere altro che il nome.

2 commenti:

  1. Premetto che a me Dante non piace, a pelle e a cuore, ma ovviamente sono consapevole della sua potenza letteraria e devo dire che letto da Gasmann e sa Benigni fa un certo effetto.
    Non credo che però con lui la Poesia sia morta, dato che la sua non è vera e propria poesia, secondo me, ma uno strumento per dire delle cose, anche forti e rivoluzionarie, cioè credo che la Commedia ( che tale era il suo nome iniziale che si rifaceva al genere, dato che si parte da una cosa brutta per arrivare al lieto fine) sia una specie di palazzo che lui ha costruito abilmente con gli endecasillabi geniali per levarsi qualche sassolino, per sottolineare certe ingiustizie, per elevare certi sentimenti e per essere espressione della sua sensibilità condizionata dalla sua vita.
    Stupendo e geniale, ma la poesia ha mille sfaccettature, che piacciano o no, ma ci sono versi di Hickmet, di Ungaretti, della Plath, di Neruda, di Prevert, di Beaudlaire, delle Emily Dickinson, di Masters e di tanti altri che sono magia dell'anima.
    Bel post, anche se non sono del tutto d'accordo, ma ovviamente lo dico per mia opinione opinabile da amante delle lettere.
    Buon we Prof

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    1. Sì, neanche io sono d'accordo; ma questa dischiarazione per Dante mi piaceva troppo.

      Senza contare che per me la poesia morirà solo con la morte dell'ultimo uomo.
      Buona domenica.

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