lunedì 7 maggio 2012

Elegie duinesi


La redazione delle dieci Duineser Elegien impegnò Rilke tra il 1912 e il 1922. Le parti più consistenti furono composte nei mesi di gennaio e febbraio 1912 a Duino nel castello della principessa Marie von Thurn und Taxis e nel febbraio 1922 nel castello di Muzot, in Svizzera.
Nell’arco dei dieci anni che intercorrono tra queste due fasi di straordinaria creatività, Rilke lavorò alle elegie in maniera discontinua e con un lungo periodo di inattività (tra il 1915 e il ’22). La qualifica di “elegie” non appartiene tanto al livello metrico e formale (raro è infatti l’accoppiamento di esametro e pentametro che caratterizza il distico elegiaco), quanto piuttosto al tono luttuoso e accorato che spesso connota i testi.
Nelle Elegie Duinesi, Rilke attinge a miti classici e a leggende bibliche (il mito di Lino alla fine della I elegia, Tobia e l’angelo nella II), si richiama all’antico Egitto (X), rinvia a temi, all’epoca nuovissimi, di psicologia del profondo (il vincolo ancestrale che lega il maschio al mondo dei padri nella III), affronta problemi di critica culturale (la critica al funzionalismo del moderno mondo tecnico nella VII e nella IX) e cita motivi pittorici (motivo ispiratore della V elegia è la grande tela Famiglia di saltimbanchi di Picasso che Rilke ammirò a lungo nella casa monacense dell’amica Herta Koning); il poeta elabora inoltre figure che diventano archetipi della condizione umana o modelli ideali da contrapporre alla misera sorte dell’uomo (le amanti infelici, i giovani morti, il saltimbanco, l’eroe), nonché autonome e originalissime costruzioni mentali (la città del dolore e il paese delle lamentazioni nell’ultima elegia), per intessere un poema sull’insufficienza del sentire umano di fronte ai grandi compiti dell’esistenza. Numerose sono le figure che Rilke propone in contrapposizione al destino degli uomini, incapaci di amare e di essere felici perché coscienti del tempo e consapevoli della fine: l’angelo che attraversa terribile e grandioso la I, la II, la IV e la VII elegia, l’animale (VIII) anch’esso mortale ma felicemente inconsapevole della propria fine, la marionetta (IV), il saltimbanco (V), l’eroe (VI) e il bambino (I, IV, VIII) che vive in uno stato di puro presente ed è quindi ancora libero dal pensiero della morte che assedia l’uomo adulto.
(Picasso, Famiglia di saltimbanchi, 1905)

Figura centrale delle elegie è l’angelo, essenza di pura luce, sottratta al peso e ai vincoli della materia:
Opera prima felice, beniamini voi del creato,
cime, crinali di monti all’aurora
dell’intera creazione – polline di fioritura divina,
articolazioni di luce, varchi, scale, troni,
spazi di essenza, scudi di delizia, tumulti
d'un sentire turbinoso, rapito, e ad uno ad uno, d'un tratto
specchi: che la bellezza effluita
riattingono in sé, nel volto ch’è proprio.
Se gli angeli, nella loro assolutezza e perfezione, non conoscono dissipazione e consumo, l’esistenza e il sentire umano sono invece connotati dallo svanire e dal dileguarsi:
Poiché noi sentendo svaniamo; ah, noi
esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore
in ardore dà sempre più tenue profumo. Uno dice:
sì, tu mi sei dentro nel sangue, questa stanza, la primavera
è ricolma di te… A che giova, non ci può trattenere,
in lui, attorno a lui dileguiamo.
Lo stacco temporale che separa le prime dalle ultime elegie si manifesta ei temi e nei contenuti: nel dopoguerra Rilke concentra infatti la sua riflessione sulla tecnica e sull’anonimità degli oggetti nel moderno mondo tecnologizzato; queste riflessioni traspaiono nelle elegie VII e IX (composte nel febbraio 1922). Ora lascio la parola a Rilke perché i pensieri del poeta sulla propria opera sono sempre i più interessanti.
“Assenso alla vita e alla morte risulta essere, nelle Elegie, una cosa sola. Consentire all’una e non all’altra è una limitazione che esclude ogni infinità. La morte è la faccia della vita che da noi si distoglie, da noi lasciata al buio; dobbiamo tentare di essere massimamente consapevoli della nostra esistenza, che è di casa nei due terreni non separati, inestinguibilmente nutrita da entrambi… La vera figura della vita attraversa i due campi, il sangue del circolo estremo li bagna entrambi: non esiste né aldiqua né aldilà, bensì la grande unità, in cui sono di casa gli esseri che ci sopravanzano, gli “angeli”. La caducità precipita dovunque in un essere profondo. E così tutte le figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali, ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni di cui partecipiamo. Ma non in senso cristiano (dal quale mi allontano con passione crescente); si tratta, invece, con coscienza terrena, profondamente, beatamente terrena, di introdurre ciò che qui vediamo e tocchiamo nell’orizzonte più ampio, estremo. Non in un aldilà la cui ombra oscura la terra, bensì in un tutto, nel tutto. La natura, le cose che tocchiamo e usiamo, sono transitorie e caduche; ma, fintanto che siamo qui, sono il nostro possesso e la nostra amicizia, sanno della nostra miseria e gioia, come già furono i confidenti dei nostri avi. Si tratta allora non solo di non diffamare e mortificare le cose terrene, ma, proprio a causa della caducità che dividono con noi, questi fenomeni e cose debbono essere da noi compresi e trasformati con il più intimo intendimento. Trasformati? Sì, perché è nostro compito imprimere in noi questa terra provvisoria e caduca con tanta profondità, sofferenza e passione, che il suo essere risorga “invisibile” in noi. Ora dall’America arrivano cose vuote e indifferenti, cose apparenti, imitazioni della vita… Le cose animate, le cose esperite, le cose che sanno di noi, si avviano al tramonto, e non possono essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che hanno conosciuto quelle cose. Su di noi grava la responsabilità di conservarne non solo la memoria (sarebbe poco e inaffidabile), ma il valore umano e laico. La terra non ha altra via di scampo che diventare invisibile; in noi, che partecipiamo dell’invisibile con una parte del nostro essere. Noi siamo, sia sottolineato una volta ancora, nel senso delle Elegie, siamo noi coloro che trasformano la terra; tutta la nostra esistenza, i voli e le cadute del nostro amore, tutto ci rende capaci di questo compito (accanto al quale, sostanzialmente, non ne esiste altro”.
Questa celebrazione della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, è riconfermata nel finale della X elegia: se i morti si risvegliassero e dovessero indicarci con un’immagine l’unità di vita e morte,
indicherebbero forse gli amenti delle spoglie
avellane, penduli, oppure
la pioggia, che sulla scura terra cade a primavera.
E noi che la felicità la pensiamo
in ascesa sentiremmo la commozione,
che quasi ci atterra sgomenti,
per una cosa felice che cade.
La felicità non è dunque movimento verso l’alto – ricerca di una trascendenza impossibile – ma caduta verso il basso: ritorno alla terra e umile adesione al ciclo imposto dalla natura.

Nessun commento:

Posta un commento