giovedì 14 giugno 2012

La Tempesta [appunti bloom 1]



L’uomo, fondamentalmente, fa due cose: si prende cura del proprio corpo e della propria mente. Il meglio per il corpo è il sesso, il meglio per la mente è leggere e occuparsi di Shakespeare.

Shakespeare ha scritto due commedie visionarie: Sogno di una notte di mezza estate e La Tempesta.
La critica ha seguito la strada dell’erotomania per il Sogno e quella ideologica per La Tempesta.
Il caso più lampante di questa ideologia riguarda il personaggio Caliban, una codarda creatura semiumana dagli istinti violenti e omicidi, che è diventato un eroico difensore afrocaraibico della libertà.
Qui Bloom fa una riflessione che reputo molto importante, perché è una cosa che ho notato spesso anche io. Molti studiosi, molti critici, non vanno sui testi come ospiti, come umili ascoltatori, come cercatori di “pensieri d’oro” – no. Leggono un’opera con le mani già sporche delle loro convinzioni e delle proprie idee e deformano tutto.
Ecco il pensiero di Bloom che io condivido in pieno: “I marxisti, i sostenitori del multiculturalismo, le femministe e i nuovi storicisti (i soliti sospetti) conoscono bene la propria causa ma non i drammi di Shakespeare”.
Caliban è tutto fuorché una celebrazione dell’uomo naturale; La Tempesta non è un trattato sul colonialismo né un testamento mistico.
La Tempesta è una commedia teatrale profondamente sperimentale è un’ottima idea sarebbe quella di metterla in relazione col Dottor Faust di Christopher Marlowe.
Il dramma è essenzialmente privo di intreccio; il suo unico avvenimento esteriore è la magica tempesta della prima scena che ispira, strano a dirsi, il titolo del testo.
Poiché, sebbene pronunci solo cento versi, oggi Caliban rappresenta per molti il fulcro del dramma, conviene partire proprio dall’analisi di questo personaggio attraverso le parole di alcuni tra i più autorevoli commentatori.
Secondo Dryden, Shakespeare “creò una persona che non esisteva in natura”. Un personaggio umano solo per metà non può essere un uomo naturale, sia esso nero, indiano o berbero (il probabile popolo d’origine della strega algerina Sycorax, madre di Caliban).
Johnston, che non era un sentimentalista, parlò “della tetraggine del suo temperamento e della malvagità dei suoi propositi”, liquidando l’idea secondo cui Caliban usava un linguaggio proprio.
Nel Novecento, il grande poeta Wystan Hugh Auden espresse l’opinione semplicistica secondo cui Prospero avrebbe corrotto Caliban. Com’è sua abitudine quando parla di Shakespeare, Auden ci regala tuttavia una geniale intuizione, in questo caso con il meraviglioso testo in prosa “Caliban al pubblico”, tratto dal Mare e lo specchio. Forse perché Shelley si era identificato con Ariel, Auden scorse se stesso in Caliban:
"E da questo incubo di pubblica solitudine, da questo eterno Non ancora, quale sollievo ricavare oltre a un galoppo collettivo ancor più sfrenato, con occhi da bisonte e traiettoria obliqua, verso il grigio orizzonte della visione più cupa; quali punti di riferimento oltre ai quattro fiumi morti, l’Infelice, il Fluente, il Dolente e la Palude delle lacrime, quale obiettivo oltre alla pietra nera su cui si spaccano le ossa? Solo nel suo pianto d’agonia la vostra esistenza può infatti finalmente trovare un significato chiaro e il vostro rifiuto di essere voi stessi diviene un’autentica disperazione, l’amore per nulla, la paura di tutto".
Qui sentiamo soprattutto Auden che parla di Auden, fortemente influenzato da Kierkegaard, ma le sue parole colgono il dilemma di Caliban: “L’amore per nulla, la paura di tutto”.

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