giovedì 12 luglio 2012

Il sogno di un uomo ridicolo [ovvero come perdemmo il paradiso]

Forse già a sette anni sapevo di esser ridicolo. Poi feci i miei studi a scuola, poi all’università, ebbene?... quanto più studiavo, tanto più imparavo ch’ero ridicolo.
(Fedor Dostoevskij)
Io non voglio e non posso credere che il male sia lo stato normale degli uomini.
(un uomo ridicolo)
Una troppo sveglia coscienza, una esasperata lucidità, un’accecante consapevolezza non possono non portare a un sentimento di inadeguatezza, a una sensazione di soffocamento dovuta alla meschinità che si è costretti a subire quotidianamente a dispetto della propria ricchezza interiore.
E così un uomo si suicida e un altro si rifugia nel sogno.
Dostoevskij ci racconta il sogno di quest’uomo ridicolo; ridicolo perché possiede e vuole diffondere una verità inascoltabile. Ridicolo perché assomiglia a un profeta e i profeti, da sempre, vengono dileggiati, derisi, non creduti e spesso ammazzati. Ridicolo perché non sta zitto, non si fa i cazzi suoi e perché non accetta che l’uomo e la vita siano così e basta.
Vale la pena di leggere i pensieri di quest’essere ridicolo, pensieri che sono una vera e propria ‘rivelazione’. Io ho adorato l’inizio della V (e ultima) parte, quando viene descritto il crollo del paradiso e il tramonto dell’età dell’oro. Maestro Fedor, in poche pagine, ci mostra la nascita della nostra cosiddetta civiltà. Tutto parte da un atomo di menzogna!
Leggiamo (e diffondete), perché qui siamo di fronte a dell’arte pura.
Come una perversa trichina, come un atomo di peste che infetta interi Stati, così anch’io infettai di me tutta quella terra, prima del mio arrivo, felice, senza peccato. Essi impararono a mentire e amarono la menzogna e conobbero la bellezza della menzogna. Oh, la cosa forse cominciò innocentemente, da uno scherzo, da una civetteria, da un giuoco amoroso, in realtà, forse, da un atomo, ma quest’atomo di menzogna penetrò nei loro cuori e li sedusse.
Poi rapidamente nacque la sensualità, la sensualità generò la gelosia, la gelosia la crudeltà … Oh, non so, non capisco, ma presto, ben presto sprizzò il primo sangue: essi si meravigliarono e inorridirono, e presero a separarsi e disunirsi. Comparvero le unioni, ma ormai l’una contro l’altra. Cominciarono i rimproveri, i rimbrotti. Essi conobbero la vergogna e la vergogna eressero a virtù. Nacque il concetto dell’onore e in ciascuna unione si levò una propria bandiera. Presero a tormentar gli animali e gli animali si allontanarono da loro nei boschi e divennero lor nemici. Cominciò la lotta per la separazione, per l’individuazione, per la personalità, per il mio e il tuo. Presero a parlare in varie lingue. Conobbero la tristezza e l’amarono, ebbero sete di tormenti e dissero che la verità si raggiunge solo col tormento. Allora comparve presso di loro la scienza. Quando divennero cattivi, cominciarono a parlar di fratellanza e di umanità e capirono queste idee. Quando divennero colpevoli, inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici, per conservarla, e per far rispettare i codici stabilirono la ghigliottina. Essi si ricordavano appena appena di ciò che avevano perduto, anzi non volevano credere di essere stati un tempo innocenti e felici. Ridevan perfino della possibilità di questa primiera loro felicità e la chiamavano un sogno. Non potevano nemmeno figurarsela in forme ed immagini, ma, strano e portentoso fatto: perduta ogni fede nella passata felicità, chiamatala fiaba, a tal segno vollero esser daccapo innocenti e felici che si prostrarono davanti ai desideri del proprio cuore come bambini, divinizzarono questi desideri, costruirono templi e presero a innalzar preghiere alla loro stessa idea, al loro stesso “desiderio”, in pari tempo credendo pienamente alla sua impossibilità e inattuabilità, ma adorandolo e venerandolo fra le lacrime.
E tuttavia, se mai fosse potuto accadere ch’essi tornassero in quello stato innocente e felice che avevan perduto, e se qualcuno d’un tratto gliel’avesse nuovamente mostrato domandando se volevano tornarvi, di sicuro avrebbero ricusato. Essi mi rispondevano: “siamo pur menzogneri, cattivi e ingiusti, noi questo lo sappiamo e ne piangiamo, e per questo ci tormentiamo da noi stessi, e c’infliggiamo torture e castighi perfino più, forse, di quanto farebbe quel misericordioso Giudice che ci giudicherà e il cui nome ignoriamo. Ma noi abbiamo la scienza e per mezzo di essa ritroveremo la verità, accogliendola ormai consapevolmente. Il sapere è superiore al sentimento, la coscienza della vita è superiore alla vita. La scienza ci darà la sapienza, la sapienza ci rivelerà le leggi, e la conoscenza delle leggi della felicità è superiore alla felicità”.
Ecco quel che dicevano, e dopo parole siffatte ciascuno prese ad amare se stesso più di tutti, né potevan fare altrimenti. Ciascuno divenne tanto geloso della propria personalità che con tutte le forze cercava soltanto di abbassarla e diminuirla negli altri; e in ciò riponeva la propria vita. Comparve la schiavitù, comparve perfino la schiavitù volontaria: i deboli si assoggettavano volentieri ai più forti, a patto solo che questi li aiutassero ad opprimere quelli che erano ancor più deboli di loro. Apparvero dei giusti, che venivano a quegli uomini con le lacrime agli occhi, e ad essi parlavano del loro orgoglio, della perduta misura ed armonia, del perduto pudore. Li si derideva o li si lapidava. Un sangue santo scorse sulle soglie dei templi. In compenso presero ad apparir degli uomini che si diedero a immaginare come tutti avrebbero potuto unirsi daccapo in maniera che ciascuno, senza smettere di amar se stesso più di tutti, in pari tempo non fosse d’inciampo a nessun altro, e in tal guisa vivere tutti insieme, come in una società armoniosa. Intere guerre si scatenarono per questa idea. Tutti i belligeranti credevano fermamente al tempo stesso che la scienza, la sapienza e il sentimento di autoconservazione avrebbero infine costretto gli uomini a unirsi in una società concorde e ragionevole, e perciò intanto, per affrettar le cose, i “sapienti” cercavano di sterminare al più presto tutti i “non sapienti” e quelli che non capivano la loro idea, perché non ne intralciassero il trionfo. Ma il sentimento di autoconservazione prese rapidamente a indebolirsi, comparvero i superbi e i voluttuosi, che addirittura pretesero tutto o nulla. Per l’acquisto di ogni cosa si ricorreva al misfatto e, se esso non riusciva, al suicidio.
Comparvero le religioni col culto dell’inesistenza e dell’autodistruzione in vista di un eterno acquietamento nel nulla. Infine quegli uomini si stancarono di un lavoro insensato, e sui loro volti comparve la sofferenza, e quegli uomini proclamarono che la sofferenza è bellezza, giacché solo nella sofferenza c’è un senso.
Esaltarono la sofferenza nei loro canti...

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