La Rivoluzione francese scoppiò soprattutto per l’incapacità di risolvere una crisi finanziaria che attanagliò pesantemente la Francia nel XVIII secolo.
L’indebitamento statale aveva raggiunto da tempo dimensioni tali da esigere l’adozione di energici provvedimenti e il re e i suoi ministri avevano più volte proposto la tassazione dei ceti privilegiati.
Nell’ordinamento tradizionale del regno, il clero e la nobiltà erano esonerati dalle contribuzioni ordinarie per motivazioni che risalivano al medioevo (bellatores e oratores) e che ora non avevano più ragion d’essere visto che l’esercito era pagato in massima parte dallo Stato e la Chiesa era sotto accusa per i suoi vergognosi privilegi.
A più riprese ministri come l’economista Turgot agli inizi del regno di Luigi XVI (1774-1176) e in seguito Necker, Calonne, Loménie de Brienne si erano misurati con progetti di riforma finanziaria e fiscale, ma ogni volta la resistenza dei Parlamenti e dei ceti privilegiati avevano prevalso.
In assenza degli Stati generali (l’assemblea generale dei tre ordini del regno), che non erano più stati convocati dal 1614, il Parlamento di Parigi si era infatti arrogato il ruolo di rappresentante della nazione e si contrapponeva al re e alle sue pretese. E Luigi XVI non aveva né il prestigio per trovare il consenso a una riforma fiscale né la forza per imporla.
Nell’estate del 1787 cominciò a prendere corpo la richiesta di affidare la soluzione della questione fiscale all’unico organo costituzionalmente legittimato a farlo, gli Stati generali. I mesi successivi videro una progressiva mobilitazione politica della società e dei corpi sociali che costrinse il re (agosto 1788) alla convocazione degli Stati generali per il maggio 1789.
Terzo stato
Il Terzo stato raccoglieva indistintamente tutti i francesi che non erano né nobili né ecclesiastici: la grande borghesia dei commerci, delle manifatture e della finanza, la borghesia media delle professioni e della cultura, gli artigiani e i lavoratori urbani, i proprietari medi e piccoli, infine i contadini e i braccianti rurali. Su una popolazione totale di 24-25 milioni, il Terzo stato rappresentava in percentuale il 98%. Meno di 400.000 erano i nobili (1,5%), mentre il clero contava forse 130.000 unità (0,5%) fra basso e alto clero, secolari e regolari (rispettivamente parroci e prelati, sacerdoti e appartenenti agli ordini monastici). La popolazione era, in stragrande maggioranza (20 milioni di persone), insediata nelle campagne: quella francese era la struttura tipica della società di ancien régime.
Finanzieri e banchieri erano le figure di maggior prestigio della borghesia. Ma più importanti si riveleranno nelle successive vicende politiche gli uomini di legge, gli avvocati soprattutto, cresciuti alle dispute legate al complesso contenzioso feudale: uomini colti, partecipi di quel dinamismo culturale che caratterizzava la società dei Lumi. Alla vigilia della Rivoluzione, nelle file del Terzo stato, la Francia contava un numeroso personale politico potenziale.
Le élites del Terzo stato cominciarono a rivendicare la riforma degli antichi criteri di rappresentanza e delle procedure di voto dell’assemblea degli Stati. Era infatti previsto che la stragrande maggioranza della nazione esprimesse lo stesso numero di deputati del clero e della nobiltà e che si votasse per ordine e non per testa, con l’attribuzione, cioè, di un unico voto collegiale a ciascuno degli ordini, che escludeva la libera espressione della volontà individuale del singolo deputato: in questo modo l’alleanza fra i ceti privilegiati avrebbe potuto prevalere sistematicamente sul Terzo stato.
Il re concesse in dicembre il raddoppio dei membri del Terzo stato, ma lasciò irrisolto il problema fondamentale del sistema di votazione.
Portatore delle richieste di raddoppio e di una diversa procedura di voto fu il partito nazionale o patriota, raggruppamento eterogeneo di intellettuali e pubblicisti del Terzo stato, nel quale confluirono anche nobili illuminati ed esponenti del clero. Il “partito nazionale” fu l’espressione dell’opinione pubblica illuminate e liberale, dei suoi strumenti di comunicazione (giornali, pamphlets, circoli, logge massoniche, ecc.) e di un programma mirante all’eguaglianza politica, al governo rappresentativo, al benessere del popolo.
La formulazione più efficace e celebre delle ambizioni del Terzo stato fu quella espressa nel pamphlet degli inizi del 1789 Qu’est-ce que le Tiers Etat? dell’abate Emmanuel-Joseph Sieyès:
“Che cos’è il Terzo stato? Tutto. Che cos’ha rappresentato finora nell’ordinamento pubblico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualcosa”.Per Sieyès la nazione s’identificava con i ceti produttivi e dunque con il Terzo stato, mentre la nobiltà era “assolutamente estranea alla nazione per la sua fannullaggine”.
Ma il quadro più ampio delle aspettative del Terzo stato e degli altri corpi e strati sociali fu quello fornito dai cahiers de doléance (“quaderni di lagnanze”), documenti che raccoglievano le rimostranze e le proposte espresse a livello locale. Redatti in seguito alla consultazione promossa dal sovrano per la riunione degli Stati generali, i cahiers furono, insieme all’elezione dei rappresentanti, il momento più significativo e capillare della mobilitazione politica e l’espressione più estesa del malessere della Francia.
La monarchia aspirava essenzialmente a realizzare un’amministrazione più efficiente, i tre ordini rivendicavano invece alle assemblee elettive la definizione delle imposte e si opponevano all’assolutamente regio. Ma se clero e nobiltà si pronunciavano per il mantenimento della società d’ordini, il Terzo stato sosteneva l’uguaglianza giuridica, l’abolizione dei privilegi e della venalità degli uffici insieme all’adozione del criterio del merito e del talento come forma di promozione sociale.
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