venerdì 14 giugno 2013

Appunti su Pirandello (4)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la quarta parte, in totale saranno sei.)

La biblioteca del signor Anselmo Paleari, personaggio del Fu Mattia Pascal, non è la biblioteca di Don Ferrante (personaggio dei Promessi sposi di Manzoni).
La Mort et l’au delà. L’homme et ses corps. Les sept principes de l’homme. La clef de la Théosophie. ABC de la théosophie. La doctrine secrete. Le Plan Astral, ecc. Di queste opere citate nel romanzo viene a bella posta nascosto il nome degli autori. Ma non è impossibile identificarli. Sono libri che figurano quasi tutti nel catalogo delle “Publications Théosophiques” edite a Parigi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in parte tradotte dall’inglese. Ne erano autori Annie Besant e Elena Petrovna Blavatskij, Théophile Pascal e C. W. Leadbeater, il cui libro Le Plan Astral era stato tradotto dall’inglese nel 1899. E queste opere non erano i testimoni di una cultura da rifiutate, come per il Manzoni buona parte dei trecento volumi della biblioteca di Don Ferrante. Erano letture che avevano interessato Pirandello con uno slancio non meno curioso del suo Paleari.
E non fu forse soltanto un caso se egli per il protagonista del suo romanzo, Il fu Mattia Pascal, scelse il nome di uno di quegli autori.
I giochi verbali del signor Anselmo sulla luce e sull’ombra, con i suoi lanternoni e gli uomini lucciole nel buio della sorte umana, e la illusione, gran mercantesca di vetri colorati, e le Rivoluzioni, fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni (bonarie trovate narrative per rendere commestibile un discorso già espresso in altra sede con le stesse parole: Pirandello non aveva molta fiducia nella memoria dei suoi lettori), riposavano su una certezza: non spegnere quel “maledetto lumicino piagnucoloso”, ma fargli se mai cambiar direzione, rovesciarlo in rapporto all’ombra in cui siamo immersi noi vivi: “Il filo per uscire da questo labirinto, il lume insomma; […] deve venirci di là, dalla morte […] un po’ di luce per la morte […]”. E dello sviluppo che ha avuto secondo varie direzioni e interpretazioni il fondo esoterico, spiritistico, magico nella sua opera, si sono fatte solo alcune congetture, respinte subito da chi voleva relegare Pirandello nella stretta area che gli compete: il dramma della creazione, condensata nell’infelice formula, che, come ogni formula, ha avuto troppa fortuna: il binomio Forma-Vita.
Ma fu lo stesso Pirandello a voler staccarsi sempre di più dal suo Paleari, quasi ad evitare ogni possibile tentativo di identificazione delle idee del personaggio con le sue; a disperdere, man mano che si avviava verso una concezione filosofica meno artigianale, quei possibili rapporti con la creazione dei suoi personaggi. Tenne a far vedere insomma che il fondo della sua cultura non aveva più nulla da dividere né con la teosofia dilettantesca di Paleari, né con la insistente atmosfera magica di cui aveva bagnato la fisionomia di altri personaggi.
Nella redazione definitiva del romanzo L’esclusa, la figura della sorella Sidora all’inizio del romanzo era posta lì come il segno pur incisivo da offrire al lettore-spettatore, per una sommaria didascalia teatrale. Ma nelle pagine pubblicate la prima volta sulla “Tribuna” (1901) e poi soppresse, quella sorella Sidora, chiamata la vecchia Pentàgora, veniva presa di mira con irritante attenzione quasi che in essa, eternamente dialogante col fuoco, fosse racchiuso qualcosa di sovrannaturale e di stregonesco. Era evidente che, entro il tessuto di un esasperato naturalismo descrittivo, Pirandello cercasse di suggerire debolmente che nei suoi rapporti con le cose una presenza abitasse in quell’orribile vecchiaccia.
Quella presenza era svelata dalle pagine di una seconda redazione del romanzo anch’esse soppresse, e che appartengono all’edizione Treves in volume (1908), ove i gesti, i movimenti, le parole della vecchia non sono più da “povera mentecatta” ma di un essere invasato. “Scopriva talvolta… non si sapeva che cosa, nei muri, per terra, per aria: si arrestava incantata a mirare con gli occhi chiari, ilari, parlanti […]”. La figura appariva già matura per la sua metamorfosi.
Nella figura di Sidora delle prime stesure, la magia popolare, retta sulle credenze e sui riti, sostituisce la pratica religiosa. È atto religioso, associato all’adorazione, sostituire alle normali immagini sacre sull’altarino, altri oggetti, carichi di forza magica: tre spighe secche, tra sacchetti scarlatti pieni di sale. Sono queste pratiche religiose che consentono alla “vecchia matta” la liberazione: vedere oltre la vista naturale, nel commercio misterioso con le Donne che la chiamano per la metamorfosi della sua anima in uccello, animuccia appesa alle campane. La magia per Pirandello, come per Grimm, era una specie di religione fatta per i bisogni inferiori della vita domestica.
Gli studiosi non ritengono che Pirandello avesse in gran dimestichezza le opere di Annie Besant, della Blavatskij: opere che senza nome d’autore spiccano nella bibliotechina del signor Paleari. Nata su basi magiche, dall’osservazione scarsamente sistematica di pratiche, d’incantesimi in cui sono le cose ad agire come dotate di particolari proprietà (vegetali, minerali, oggetti capaci di guarigione) quasi per una legge di simpatia, la sua “dottrina” vagava tra magia, teosofia e spiritismo.
Sempre resterà in lui la consapevolezza della disfatta della scienza come regno naturalistico della certezza. La nebbia che invadeva i confini dell’essere e li rendeva sempre più incerti e indefinibili, l’allargamento di quei limiti in forza di una coscienza divisa (e qui interveniva il suo Binet medico e scienziato), l’alterazione della personalità dovuta anche a disastri psichici, una quasi definitiva sfiducia sulla funzione equilibratrice e risanatrice della logica: questi e altri motivi possono averlo spinto verso il bisogno di scoprire altre leggi, altre forze, altra vita nella natura, sempre nella natura, per cui dirà, come aveva detto Séailles, che anche l’arte è la natura stessa, la quale prosegue l’opera sua nella natura umana. Così, un metodo positivo sperimentale, che inseguiva il fenomeno della pluralità delle anime, s’innestava in uno spiritualismo, che esaltava la creazione individuale, e che affrontava persone “vive, libere, operanti” per farne personaggi.
Pirandello è giunto (in un itinerario che non risulta per nulla complicato dalla concezione spirituale dell’azione magica) all’idea dello “spirito” come di un agente personale, un doppio, o un ausiliare.
Gli “spiriti” invadevano il nostro spazio come forme, modellate plasticamente, dei nostri pensieri e dei nostri desideri: prima concezione larvale di “personaggi”. E il testo che in tal senso forniva a Pirandello pasto abbondante era il libro di Leadbeater, The Astral Plane, del 1897, tradotto in francese sotto il titolo di Le Plan Astral.
In un brano che appare soltanto nella prima edizione del Fu Mattia Pascal, quando il romanzo uscì a puntate (1904) nella “Nuova Antologia” (e nell’edizione Treves, 1910, era già eliminato), all’inizio del capitolo intitolato “Maturazione”, Pirandello attingeva a piene mani al libro del Leadbeater, senza peraltro indicarne la fonte. “Ho letto testé in un libro” scriveva Pirandello prestando sue proprie letture a quelle del protagonista “che i pensieri e i desiderii nostri s’incorporano in un essenza plastica, nel mondo invisibile che ne circonda, e tosto vi si modellano in forma di essere viventi, la cui apparenza corrisponde all’intima loro natura. E questi esseri, non appena formati, non sono più sotto il dominio di chi li ha generati, ma godono d’una lor propria vita, la cui durata dipende dall’intensità del pensiero o del desiderio generatore. Per fortuna, i pensieri della maggior parte egli uomini son così vaghi e indeterminati, che gli esseri che ne risultano han labilissima vita e momentanea: bolle di sapone. Ma un pensiero che spesso si riproduca o un desiderio vivo e costante formano un essere che può vivere anche parecchi giorni. E poiché naturalmente i nostri pensieri e i nostri desiderii spessissimo son per noi stessi, avviene che attorno a noi dimorino tanti di questi esseri, che tendono a provocar di continuo la ripetizione dell’idea, del desiderio ch’essi rappresentano, per attinger forza e accrescimento di vita. Chi dunque insista e batta costantemente su un desiderio, viene a crearsi come un camerata invisibile, legato a lui dal proprio pensiero, quasi un cagnolino incatenato, senz’obbligo di museruola ed esente da tasca. Questo camerata, però, potrà anche essere un canaccio che morde, un vile mastino; e allora son guai! Ma dipende da noi.”
Pirandello non fa che tradurre, o parafrasare, il testo di Leadbeater, fermandosi su alcune linee: “l’essenza plastica”, “la ripetizione dell’idea”. Il suo “camerata” è il “compagnon astral” del testo francese. Ed egli sarà stato fortemente colpito dall’affermazione che “une masse chaotique énorme d’entités semi-intelligentes, aussi différentes entre elles, que le sont les pensées humanies” è prodotta, consapevolmente o no, dalla forza psichica di ogni uomo. Ma è ancor più importante che in un altro saggio scritto in collaborazione con Annie Besant lo stesso Leadbeater trascini sul palcoscenico mentale un essere che fino allora nessuno aveva toccato, tranquillo nel docile sopore della coscienza: il romanziere.
Si possono scorgere accenni e svolgimenti delle idee di Besant-Leadbeater in altri articoli e novelle (come nelle pagine Da lontano, del 1909, in Stefano Giogli, uno e due dello stesso anno; in Una piastra e quattro centesimi, e che poi avrà come titolo Lo spirito maligno del 1910; e nella Tragedia d’un personaggio, del 1911). Forse fu lo stesso Pirandello, sempre più immerso nella sua piena maturità entro il problema della creazione letteraria, a voler bruciare dietro di sé le sue fonti salvando solo quelle che fossero inerenti all’azione e alla concezione del Fu Mattia Pascal: e così non cancellò il riferimento all’autore di un libro sulla “reincarnazione”, uno dei prediletti, aggiunge, del signor Anselmo (forse della Besant) e che dà il titolo al penultimo capitolo del romanzo.
Ma ciò su cui egli insistè con sempre maggior accanimento è che immagini di un’altra vita prendessero corpo, s’installassero nell’esistenza dello scrittore come forze ossessive, cui, una volta evocate, non si sfuggiva, e che quanto più si tentasse respingerle tanto più era facile ritrovarsele nelle più dense oscurità dell’immaginazione. Le fasi di queste apparizioni e il modo come esse vengono controllate e utilizzate in molte pagine narrative, fanno pensare ad una tecnica, di cui non soltanto nel Fu Mattia Pascal egli mostra conoscenza.

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