(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la sesta e ultima parte.)
Nei due romanzi che con Il fu Mattia Pascal restano le prove più impegnative tentate nel genere (I vecchi e i giovani e Uno, nessuno e centomila), Pirandello affronta due tecniche e due concezioni diverse. Rispetto al Fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, pubblicato in volume nel 1913, segna un passo indietro. Impegnandosi nel grande romanzo sociale, nel grande affresco storico della sua regione, in un “amarissimo e popoloso romanzo” ov’era raccolto il dramma della sua generazione, egli si rifaceva ai Viceré di De Roberto. Interrompeva l’applicazione nella narrazione dei suoi tipici procedimenti dialettici, e di scomposizione della realtà psicologica individuale. È una realtà più vasta che lo interessa: la realtà politica, che gli individui in quanto partecipi di quella società in crisi, divisa, nel periodo dei Fasci siciliani (1893), esprimono nelle lotte e nei tumulti sanguinosi. Ma la conclusione cui s’avvia quell’insieme di fatti ed esperienze contraddittorie non cambia: l’insoddisfazione di una giovinezza tradita, il fallimento. Si possono individuare nel romanzo l’acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’Unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale. E insieme si ha la storia dei fallimenti individuali: dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno, dei giovani che si sentono soffocare in una società ormai cristallizzata che non permette l’azione trasformatrice e, quindi, il libero esprimersi della personalità. Ma, per quanto degno di considerazione, il romanzo resta lì fermo nella produzione pirandelliana, e quasi non permette, nella linea sicura che disegna, possibilità alcuna di svolgimento.
S’inserisce invece assai problematicamente nello sviluppo dell’attività teatrale di Pirandello e nel gioco delle sue forme l’altro romanzo: Uno, nessuno e centomila.
Il romanzo uscì a puntate sulla “Fiera letteraria” (dicembre 1925 – giugno 1926), con un lungo sottotitolo: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri. Il figlio Stefano, in una sua appassionata presentazione, tenne a dichiarare che il padre lavorava a quel romanzo da quindici anni. E dichiarazioni in tal senso non mancano neanche da parte dell’autore, che già nel 1912 diceva d’aver per le mani, dopo I vecchi e i giovani, un altro romanzo. Stefano Giogli, uno e due (1909), novella da cui nacque l’idea del romanzo, non è soltanto una “traccia” del romanzo. Alcune scene (quale quella della moglie che si pettina) le avevamo già lette nel racconto: Moscarda e Dida mantengono rapporti non dissimili da quelli tra Stefano e la moglie. Stefano scopre in sé una personalità nuova data dal “disgregamento” del proprio essere; nel romanzo si parla di “scomposizione”.
Ma quel passaggio dalla novella al romanzo resta alquanto nuovo e isolato nella storia di Pirandello. Si giustifica solo collocandolo entro una nuova fase della sua produzione. Sviluppare il tema significava approfondire quel rapporto di gelosia-amore tra moglie e marito per colpire l’essenza stessa della personalità; e ciò era, in quegli anni e in vista del lavoro futuro, particolarmente attraente. “Scomporla” per aver, dentro, la rivelazione del nulla, in quell’essere “tanti” che significa essere “nessuno”. Non solo una novella si sarebbe potuto scrivere su quel tema, ma un grande romanzo, ricco d’incontri e di personaggi, con andamento ironico progressivo, che avrebbe raggiunto i limiti dell’ossessione. Dal caso banale, tratto dalla vita d’ogni giorno: guardarsi allo specchio con insistenza e scoprirvi un’imperfezione fisica (il naso, vago spunto letterario), fino al buio dell’essere, quasi sradicato, nella sua coscienza, nella sua fermezza. I più famosi santoni della narrativa ottocentesca s’erano industriati a costruire il loro personaggio pezzo per pezzo. Egli quel personaggio si sarebbe “divertito” a smontarlo, con umorismo, con ironia crudele, di chi vede l’uomo inghiottito dall’ombra che lo segue dappresso. Non è più l’uomo, come in Schlemihl, come in Mattia Pascal, che ha ceduto l’ombra, bensì l’ombra che ha perduto l’uomo: ombre vane spettrali, in cerca d’un corpo. I Sei personaggi sono già silenziosamente in marcia verso il palcoscenico del loro teatro.
Ma, se il modello ideale di Mattia Pascal era Schlemihl, Gengè Moscarda e il suo romanzo possono vantare progenitori ben più complessi. Senza andar tanto lontano, è al Tristram Shandy di Sterne che bisogna guardare. Al suo ritmo mobilissimo e continuamente interrotto, ai suoi brevi capitoletti staccati, all’uso smodato dell’”opinione” che ostacola l’azione, alla tessitura umoristica e disordinata di tutto l’insieme, che fa pensare l’ultima e travagliata fatica narrativa di Pirandello (richiamo tanto più significativo in quanto solo pochi anni prima il romanzo di Sterne aveva avuto la sua completa traduzione in italiano). L’ombra sfuggente e inafferrabile del personaggio inglese già può riconoscersi nel lungo sottotitolo: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri che richiama l’esempio settecentesco: La vita e le opinioni di Tristram Shandy (in nove tomi). E la trasformazione di questo agilissimo personaggio nella figura tanto più greve e isterica di Gengè, può essere suggerita anche da alcuni temi centrali.
Ad esempio, chi non conosce la ricca letteratura umoristica e burlesca su quell’insigne attributo della nostra personalità che è il naso, da Erasmo, a Bruscambille, a Cyrano? È difficile per chi segua Gengè nella rivelazione che provocherà il cataclisma romanzesco (il suo naso pende verso destra) non pensare a Gogol. Ma l’autentico antenato del naso di Moscarda è lo sfortunato naso schiacciato di Tristram, fonte di dotte dissertazioni erudite e di fantasie. Le opinioni sterniane sono del tutto diverse dalle elucubrazioni di Gengè, ma servono a turbare, a interrompere, come aveva scritto Pirandello, il movimento spontaneo della narrazione: un procedimento fluttuante e discontinuo, nelle sabbie mobili dell’essere, consentito dall’interpretazione umoristica del personaggio, che si abbandona a un movimento circolare da cui egli non potrà più uscire. Pirandello ai brevi capitoletti sterniani ha aggiunto titoli colloquiali e ironici: ma essi apparivano già in traduzioni settecentesche del Tristram Shandy: senza essere sua invenzione, si rivelano mezzo efficace per fermare la pluralità d’atteggiamenti dell’homo absurdus.
L’incubo del fallimento di questo libro (che si trascina per anni nella mente, e sullo scrittoio, di Pirandello) si risolse in una fortuna di cui l’autore ebbe coscienza solo più tardi. Anche in questo caso Pirandello si rivelò inadatto a scrivere il romanzo-capolavoro, il libro unico che possa suggellare tutta una vita. In un eterno vagabondaggio tra la riflessione e la cronaca, si trovò a sperimentare la sua stessa concezione, esercitandosi in una serie di tentativi, che andavano dal fatto quotidiano al caso clinico. E Uno, nessuno e centomila, già relegato sul tavolo dello scrittore come un rimorso, diventò col tempo, come scrisse Stefano, non un fardello ma una ricchezza: continuo punto di riferimento, eccitazione, per frammenti, di scene ed apoftegmi che si sarebbero sviluppati, con maggiore assolutezza e vigore, sul palcoscenico. Quel romanzo raccoglieva un po’ di tutto: sfoghi sentimentali, illuminazioni dialettiche, considerazioni, cose viste; era un lungo diario di sensazioni, paesaggi, ricordi, indirizzato al silenzioso personaggio pirandelliano (una variazione colloquiale del tu montaliano) che a teatro si chiamerà “caro signore”, ma in cui non si riconosce mai un reale interlocutore: ad esso qui viene riservato l’indistinto plurale nebbioso: “belli miei, cari miei, signori miei”. Da un romanzo da fare sempre in fieri, nascevano pagine, battute, che verranno trasportate sia nelle novelle, in una pur ridotta misura ideale di svolgimento, sia in lavori drammatici, oggi famosi.
La critica si è accorta solo in parte di questa tecnica mutevole di trasposizioni che sono alla base, ancor più che in altre opere, di Uno, nessuno e centomila e della produzione novellistica e teatrale di Pirandello tra il 1910 e il 1922 circa. Sono rapporti precisi: veri e propri “plagi” da se stesso. Vi sono pagine che appaiono prima in una novella; poi, sviluppate, ricompaiono in un articolo di rivista del 1915, col titolo Ricostruire, e infine prendono il loro posto definitivo nel romanzo. La descrizione minuta della casa paterna di Gengè, l’eroe del romanzo, l’avevamo già letta, con scarse varianti, in una novella pubblicata sul “Corriere della sera” nel 1923 (Ritorno). Si ritrovano gli stessi nomi, come se lo stesso Pirandello non volesse nascondere quelle tracce, nel romanzo e in novelle anteriori: monsignor Partanna, Antonio Sclepis, don Arturo Filomarino; le stesse situazioni, gli stessi temi (la coperta di lana verde che nella fantasia del malato diventa un prato o un campo di grano, in una novella, in un atto unico e nel romanzo); certe sensazioni irritanti (come le zampine del canarino che raspa sullo zinco della gabbia), e, per finire, addirittura intere celebri battute che nel romanzo sono messe in bocca al monologante Gengè e in teatro appartengono a Enrico IV e al Padre dei Sei personaggi.
Da questi rapporti si possono ricavare indicazioni ancora più precise, di quanto non è stato fatto finora, sul modo con cui lavorava Pirandello. Penso che non sia da accettare quel che fu più volte riferito: che egli componesse tutto nella testa, precisando fino ai minimi dettagli, che riteneva magi per anni, con memoria portentosa. “Poi finalmente si metteva a tavolino, e dattilografava come sotto dettato, senza più tornare sul lavoro se non per correzioni di parole”. Le citazioni prese dagli stessi scritti di Pirandello, le varie redazioni dell’Enrico IV e tutta la lunga e frammentaria elaborazione di Uno, nessuno e centomila smentiscono questa tradizione. Era lo stesso concetto del personaggio “scomponibile” nella sua realtà psicologica e morale che ne rendeva possibile l’utilizzazione su piani diversi.
E il procedimento ch’egli seguiva era ben diverso da quello creduto da alcuni critici, fedeli alla data di pubblicazione del romanzo. Non le pagine di Uno, nessuno e centomila sono state riprese da novelle già pubblicate. Ma più d’una volta quelle stesse pagine hanno dato lo spunto o hanno offerto la citazione ad alcune novelle e a momenti dei suoi drammi. È assurdo credere, badando soltanto alle date, ch’egli ad esempio, riprendesse nel 1925 dai Sei personaggi, ormai famosi, pezzi di dialogo per inserirli nel grosso calderone del romanzo. È vero se mai il contrario: che quel manoscritto, nelle continue presene e assenze dal suo tavolo, avesse cominciato a servirgli come una ricca miniera da sfruttare. In Uno, nessuno e centomila si possono ricostruire i frammenti di un grande, interminabile monologo interrotto.
Sarà stata una delle ragioni per cui egli tanto stentò a pubblicare un’opera ove motivi vecchi e nuovi s’intrecciavano, e una modernità d’impianto veniva non di rado schiacciata da una pesante tematica. “Il dramma per me è tutto qui, signore”, sembra che dica Pirandello rivolgendosi non al capocomico ideale ma all’editore che cerchi di convincerlo a dar finalmente alla luce il suo Moscarda. “Questo personaggio doveva annunziare i grandi personaggi del mio teatro, e ne è oggi, di essi, soltanto l’eco.” E quando quel manoscritto fu dato finalmente alle stampe, la sua pubblicazione coincise con il lungo addio al romanzo e con il tramonto della felice stagione dello scrittore. Malgrado recenti rivalutazioni, il vero Pirandello, narratore e scrittore di teatro, è tutto precedente al 1925: l’anno in cui uscì Uno, nessuno e centomila.
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