(riassunti da uno scritto di Fernanda Pivano)
VII.
Quando uscì Death in the Afternoon (tre anni dopo, nel 1932), il libro più legato alla saggistica e alle memorie che alla narrativa, Hemingway si ricordò della critica di Huxley e lo attaccò a sua volta a proposito del Cristo di Mantegna. È parso ad alcuni che il libro sia appesantito da affermazioni teoriche e frecciate contro gli altri scrittori: John Dos Passos gli suggerì di operare dei tagli ma purtroppo Hemingway non eliminò i riferimenti sarcastici per esempio a Faulkner, a Virginia Woolf e ad Aldous Huxley che lo avevano attaccato e neanche quelli a Maupassant, Cocteau, Gide, Wilde, perfino Withman colpevoli di una omosessualità che Hemingway ha sempre aborrito.
A parte queste stonature il libro è quasi un testamento letterario e contiene, per esempio nel capitolo sedicesimo, gran parte delle idee che fecero da base ai biografi e ai critici più famosi: l’idea delle omissioni, l’idea dell’iceberg che sporge dall’acqua soltanto per un ottavo della sua mole, l’idea che si deve scrivere di cose semplici, l’idea che lo scrittore deve creare gente viva e non personaggi, l’idea che la prosa è architettura e non arredamento, l’idea della differenza tra la descrizione giornalistica di una emozione e la scoperta dei fatti che hanno prodotto l’emozione (idea, questa, presentata nelle prime pagine del libro come una specie di introduzione).
Accanto a queste rivelazioni delle sue esperienze letterarie Hemingway svolge in un “crescendo” i temi del libro, (specialmente quello fondamentale che “la corrida non è uno sport ma un rito tragico”) fino a renderlo in parte didascalico ma subito immergendolo nella poesia con la descrizione della vera azione che si svolge nell’arena e che riduce il personaggio della “Vecchia Signora” (introdotto nel capitolo settimo e conservato fino al sedicesimo) quasi a un trucco per rendere accattivante questa specie di trattato. Per mesi studiò il capitolo conclusivo, opera di poesia con una decina di pagine completamente estranee alla tauromachia, intrise di flash-backs che preannunciano quelli del racconto famoso The Snows of Kilimanjaro. Di quelle splendide pagine però non fu mai soddisfatto; diceva: “Se fossi riuscito a fare un vero libro ci sarebbe stato dentro tutto”.
Ma il libro in generale fu accolto male dai critici, che attaccarono Hemingway per il suo atteggiamento fanfarone, che misurava gli uomini dal loro machismo e che pontificava sugli altri scrittori. H.L. Mencken scrisse che “spesso il libro scade in una meschinità rozza e irritante”; Robert Coates definì Hemingway un romantico “nella sua incapacità di accettare l’idea della morte come fine e completamento della vita”.
La stroncatura più famosa fu quella di Max Eastman del giugno 1933 intitolata Bull in the Afternoon, dove l’amico di giovinezza che aveva frequentato Hemingway durante il convegno di Genova del 1922 attaccò violentemente l’autore accusandolo di “posare” e di aver descritto gli aspetti brutali e ignobili della corrida, in cui “gli uomini tormentano e uccidono un toro”. A indignare Hemingway fu la ritorsione che Eastman fece di una frase in Death in the Afternoon a proposito di Sànchez Mejìas: “Era come se mettesse continuamente in mostra la quantità di peli che aveva sul petto”: Eastman la usò contro Hemingway dicendo che aveva raggiunto “uno stile letterario, per così dire, che portava falsi peli sul petto”.
Questa storia dei “peli sul petto” diventò un caso letterario: Hemingway si infuriò, Archibald MacLeish lo aizzò insinuando che Eastman aveva attaccato la sua capacità sessuale mostrandolo come impotente o omosessuale; e quattro anni dopo, nell’agosto 1937, avvenne la storica zuffa tra i due antichi amici narrata da Maxwell Perkins in una lettera a Fitzgerald. Tutti i giornali d’America ne parlarono ma nessuno accennò alle vere intenzioni di Eastman e alla sua affermazione che Hemingway “è uno dei giovani poeti più sensibili e acuti ma anche uno dei più appassionatamente intolleranti”.
La vera accusa di Eastman, e probabilmente quella che suscitò il risentimento di Hemingway, sembra l’affermazione che “Death in the Afternoon appartiene alle confessioni di orrore che sono la vera poesia di questa generazione”. Un orrore sottolineato dal fatto che chiamare la corrida una tragedia “è soltanto una sciocchezza romantica”, perché “non è tragico morire in una trappola”, “non è tragico fare trucchi crudeli a una bella creatura stupida e pugnalarla quando ha perso le forze”. Tutto questo, dice Eastman, “è un’uccisione resa più crudele, una morte resa più ignobile, uno spargimento di sangue semplicemente più disgustoso del necessario”.
È facile capire le ragioni del furore di Hemingway, certo alimentato dal finale dell’articolo che dice: “Lo abbiamo cacciato nel nostro posso di massacro e gli abbiamo detto di essere coraggioso di fronte all’uccisione. E ci aspettavamo che ne sarebbe uscito piangendo e tremando. Be’, invece ne uscì urlando per il sangue, gridando ai cieli la gioia di uccidere, l’estasi religiosa dell’uccidere: e più di tutto patetico, più di tutto pietoso, l’uccidere come protesta contro la morte”.
Quest’ultima denuncia di Eastman, di gusto quasi psicoanalitico, era molto sottile. Hemingway è sempre stato ossessionato dalla morte dal lontano giorno che venne drammaticamente ferito a Fossalta.
VIII.
La morte violenta, il sangue, sembrano protagonisti di The Green Hills of Africa, uscito tre anni dopo Death in the Afternoon. Anche se la quantità di riflessioni autobiografiche, l’inflazione della sua “persona” e la quantità di giudizi letterari quasi bloccano il libro, è chiaro che questa specie di macello che è la caccia grossa intricava Hemingway da molto tempo. Nell’autunno del 1930 scrisse a Maxwell Perkins dallo Wyoming che nonostante avesse ucciso molta selvaggina in qualche giorno di caccia continuava a sognare un safari in Africa; e Carlos Baker da minuzioso biografo ha affermato che l’interesse per l’Africa probabilmente nacque in Hemingway recensendo il libro del Premio Goncourt René Maràn che denunciava, da nero, la politica coloniale francese in Africa.
Hemingway parlò spesso della caccia, cercò di spiegare che molte volte puntava il fucile e quando era sicuro che avrebbe raggiunto la preda non sparava; come si legge più volte in Green Hills of Africa e come si legge in The Bear di Faulkner, dove il ragazzo di fronte all’orso non spara per non far finire il piacere della caccia.
Il sogno di Hemingway era di descrivere “con precisione e verità” il mondo dell’Africa e il mondo della caccia. Nella prefazione a Green Hills of Africa il curatore della prima edizione ha detto: “Ha tentato di scrivere un libro assolutamente sincero per vedere se l’aspetto di un paese e i gesti di un mese di azione possono competere con un’opera dell’immaginazione”. Questa idea di scrivere “dicendo la verità” ispirava Hemingway fin dalla prima giovinezza, quando imparò a intrecciare “la verità” con l’invenzione; e in questo libro la realizzò fino in fondo evitando qualsiasi invenzione.
Ma il romanzo è meno nitido di quelli precedenti, perché la vita domestica nel safari era un po’ fuori dalla sua vena: la sua vera abilità consisteva nel ritrarre amori romantici e tragici. In questo libro di tragico c’è solo l’eccidio di animali indifesi e alcuni recensori pensarono che l’apparente ossessione di Hemingway degli sports sanguinosi e soprattutto della guerra non costituiva tema altrettanto valido delle sue inventate storie d’amore.
Bernard De Voto rilevò gli attacchi di Hemingway ai critici letterari e, forse ispirato da risentimento in quanto critico letterario, disse che il libro era noioso e gli dispiaceva questa nuova esperienza di essere annoiato da Hemingway. Carl Van Doren gli perdonò l’esibizionismo machista grazie alla bella prosa e disse: “È un artista maturo che mostra la sua arte in una prosa capace di cantare come poesia senza mai cessare di essere prosa, facile, intricata e magica”. Edmund Wilson denunciò gli effetti della pubblicità sulla prosa del vecchio amico, chiedendosi se Hemingway non fosse rimasto imprigionato dal suo mito. “Forse” disse “sta cominciando a essere ingannato dalla leggenda cheè stata creata intorno a lui dalla pubblicità americana e che, come ha rilevato Kashkeen, ha poco a che fare con ciò che effettivamente si trova nelle sue storie”. È in questo articolo che Wilson, alludendo a Hemingway come protagonista del libro, ha fatto il famoso commento: “Fra tutte le sue creazioni è certamente il personaggio disegnato peggio”.
Il severissimo giudizio di Wilson gettò Hemingway in una grave depressione, anche perché Wilson aveva detto nella recensione che “l’unica cosa che impariamo sugli animali è che Hemingway vuole ucciderli”. A ridare una spinta alla sua ispirazione fu Granville Hicks, che dopo aver affermato sulla rivista comunista “New Masses”: “Ho sempre pensato che Hemingway fosse indubbiamente lo scrittore più chiaro e più forte non rivoluzionario della sua generazione” disse di essere deluso perché Hemingway si occupava di argomenti noiosi e poco importanti e si rifiutava di “guardare in faccia la scena americana contemporanea”.
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