martedì 11 giugno 2013

Appunti su Pirandello (3)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la terza parte, in totale saranno sei.)


I primi romanzi di Pirandello mostrano fin con troppo spicco l’impianto naturalistico. Si vedano nell’Esclusa, finito di scrivere nel 1893 (ma pubblicato alcuni più tardi per difficoltà, si crede, di carattere editoriale), l’accuratezza con cui all’inizio son collocati oggetti e personaggi, la precisione impersonale della messa in scena, e come vien colto quell’attimo di immobilità prima dell’azione, prima che i personaggi comincino a muoversi quasi per una carica d’orologeria. Antonio Pentàgora, seduto a tavola, è illuminato dalla lampada che scende dal soffitto basso.
“Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po’ stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero. Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l’altro figlio, Rocco […]”
È insieme la pagina di un romanzo e la minuta didascalia per una commedia. Con un necessario mutamento di tempo – dall’imperfetto della narrazione al presente della rappresentazione scenica – Pirandello travasò in quegli anni i suoi “casi” dal racconto al teatro, secondo la poetica naturalistica, che situava la forma teatrale su un gradino più alto nel processo d’impersonalità inflitto all’azione. I suoi primi esperimenti in tal senso non furono tra i più fortunati. Dalla novella La paura nacque un dramma in un atto che s’intitolò L’epilogo e poi La morsa, ed ebbe uno sviluppo infelice che la novella non aveva.
Ma quell’impianto “impersonale” già appare sfigurato, nei primi romanzi, dal contenuto e dall’impostazione della vicenda, da un ispido furore dimostrativo per cui essi rientrano nei canoni pirandelliani delle opere umoristiche. Una donna scacciata dalla società quando è innocente, vi è riammessa quando è colpevole (L’esclusa). Un uomo creduto e poi fintosi morto, quando “risuscita” s’accorge che non può essere riammesso nella società, nella famiglia, perché per la società, per la famiglia egli è morto davvero (Il fu Mattia Pascal). Quale prova più scintillante del sentimento del contrario? Disonestà e purezza, vita-morte nel grande caleidoscopio della certezza sociale, che bolla come sicuro quello che non esiste e come inesistente quello che vive. E entro una tessitura umoristica, elementi riflessivi e irrazionali sconvolgono quella quarta parete, che nel teatro come nel romanzo dovrebbe essere protezione d’impersonalità, come se l’autore stesso e il pubblico non esistessero.
E già si costruisce il romanzo come sede accogliente di idee germinate su quel nucleo narrativo o depositate da precedenti mediazioni: un genere medio dai confini larghi e incerti, che accoglie e raccoglie tutto, costituito, sembra, da una sostanza porosa, che assorbe, come l’animale di una fauna primitiva, qualsiasi cosa possa calmare la sua voracità: campo di squallida rappresentazione oggettiva e di esasperate meditazioni e dimostrazioni. Quasi un intero articolo già pubblicato da Pirandello finisce nell’Esclusa (articolo dal titolo Rinunzia) e la parte più bella del saggio sull’umorismo si può rileggere nel Fu Mattia Pascal.
E le prime avvisaglie di quel personaggio diabolico, che riproduce il verbo dell’autore e che agisce come volontà disgregatrice nella finzione compatta dell’azione, il cavilloso sofista, avvocato di se stesso, o il mefistofelico evocatore di fantasmi, che avrà tanta fortuna in teatro, qui ha pallidi annunciatori. Pallidissimo nella figura dell’intellettuale, lo scrittore Alvignani, il quale però s’impegna a professare tesi poco naturalistiche sulla scienza che insieme con la nuova filosofia aveva deluso, perché non aveva saputo rispondere allo “spirito liberato” se non con ragionate negazioni, viete credenze, e lo spirito era rimasto “quasi tra le rovine di queste e le nebbie dell’avvenire”: dov’è consegnato pur flebilmente il malessere di Pirandello giovane, soffocato da un’”aspra, continua discordia di voci”. Nel Fu Mattia Pascal il grafico di quel malessere è disegnato su una figura che non conserva più nulla del magro profilo dell’intellettuale di una volta.
È un dilettante versato nelle scienze teosofiche, iscritto alla scuola teosofica, che tenta con passione esperimenti spiritici: un personaggio più importante della parte che l’autore (secondo le sue abitudini riduttive, ironiche) gli assegna, perché raccoglie molte suggestioni che erano dello stesso Pirandello in quegli anni. È il signor Anselmo Paleari della pensione omonima in via di Ripetta.
Il significato che Il fu Mattia Pascal assume nello sviluppo dell’opera pirandelliana è ben lontano dall’essere riconosciuto ancor oggi pienamente, pur trattandosi di un’opera che ebbe gran fortuna. E nemmeno si è tenuto in debito conto la sua importanza nella storia della cultura, ed i suoi agganci con la letteratura europea. Dietro di essa non c’è soltanto Capuana, con le sue sedute spiritiche e i suoi medici (autori di libri come Fisiologia e patologia delle passioni) e le sue esigenze scientifiche e spiritualistiche ed i profumi di zàgara. E non c’entra molto, come possibile derivato, il Cadavere vivente di Tolstoj. Gli esemplari sono da ricercare tra i romantici tedeschi del primo Ottocento, in opere immerse nel fantastico puro, in incredibili esperienze di cui Pirandello manipola la trascrizione in chiave borghese, realistica. È una “farsa trascendentale” (nel senso che F. Schlegel dette all’espressione), retta sull’assurdo. E ne avviliva certo il significato lo stesso autore, quando, per difendersi dai sostenitori del verosimile, pubblicò in appendice di altre edizioni del romanzo la notizia giornalistica di un caso simile a quello ch’egli aveva raccontato. Era da vedere in quella precisazione una prova del suo esasperante ossequio della cronaca, al fait divers, o una sfida alla realtà che imita l’arte?
Il saggio sull’umorismo si chiudeva con un omaggio a Peter Schlemihl, l’uomo senz’ombra, immortale creazione di Chamisso. E Schlemihl è il progenitore infiammato, indocile di questa figura tipica d’inetto, con il suo io frustrato, l’uomo comune, che il diavolo predilige, perché dietro la sua debolezza c’è l’amore delle decisioni improvvise e cieche, un ingenuo e quasi infantile desiderio di godimento: quel desiderio terribile della vita che tortura i personaggi pirandelliani anche i più abietti. Pirandello sempre ha almanaccato sulla proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffa proiezione d’ogni gesto tragico, e Mattia vicino al ponte Molle contempla la propria ombra, col desiderio impossibile di calpestarla: due ombre, “l’ombra di un morto, ecco la mia vita”. Il cancellarsi dalla storia, del bibliotecario Mattia, non è capriccio molto lontano da chi voglia perdere, come Schlemihl (in cambio di un fallace fantasma di libertà: il denaro), la propria ombra, quale proiezione sociale del personaggio. E la scena della roulette, e tutte le pagine su Montecarlo gremite di personaggi, più che reportage da inviato speciale, come fu detto, sono la trasposizione nel mondo moderno di una volontà diabolica, preparata da personaggi-apparizioni (lo spagnolo dalla barbetta), volontà nascosta dietro il caso, cui il protagonista arde di sottomettersi.
La roulette, per il meridionale Pirandello che s’affaccia sui misteri del gioco d’azzardo, è la proiezione meccanica del diavolo, l’uomo in grigio di Schlemihl, che appare una volta e a cui non puoi più restituire quel che egli, senza lavoro, senza fatica, ti ha regalato. Ed è ancora il ricordo di quel mondo diabolico (o di un aldilà) che circonda l’esperienza romana di Mattia, il quale, nella lurida pensione borghese, è in attesa di una rincarnazione. In quella pensione si preparano esperimenti spiritici, si leggono libri dove si discute del piano astrale e del piano mentale, si allestiscono spettacoli per le apparizioni: un contrasto e un avvicendarsi del mondo della luce e del mondo dell’ombra, ove s’inserisce non a caso la malattia oculare di Mattia, che lo costringe a rimanere per giorni immerso nell’oscurità, mentre Don Anselmo legge Leadbeater, Allan Kardec (citato da Pirandello anche in una novella). Chamisso pensava all’Anello fatato; e nella lettera a Fouqué, Eduard Hitzig aveva citato Le avventure della notte di S. Silvestro di Hoffmann dove Erasmus Spikler perse la sua immagine nello specchio. Significativo in un libro e nell’altro il gusto delle dediche e delle epigrafi. Chamisso dedica il libro “Al mio vecchio amico Peter Schlemihl” e Pirandello la prima edizione del suo Umorismo (1908) “Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”. Schlemihl legge il suo nome scritto a grandi caratteri d’oro su una targa di marmo nero, con latre due righe di lettere che non riesce a decifrare. E Mattia legge la lapide sulla fossa del povero ignoto che s’uccise alla Stìa, nel cimitero di Miragno: “Colpito da avversi fati Mattia Pascal […]”. E invece di finire, ombra di se stesso in Sicilia, egli sarebbe volentieri scappato come Peter Schlemihl nei deserti della Tebaide.

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